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Rappresentare le donne. Un dialogo con Alice Urciuolo in occasione della serie tratta da Adorazione



Tra gli alberi del parco di San Polo, il 26 settembre 2021, cadeva una pioggia fine, quasi impalpabile. Contro un cielo cerúleo, il profilo mimetico dell’alto camino del termovalorizzatore si scorgeva appena. Sedevo in biblioteca in attesa del workshop dal titolo “Scrivere per le serie TV” che Alice Urciuolo avrebbe tenuto nell’ambito di Librixia, il festival del libro e della lettura di Brescia, pensando in ordine sparso: che una donna capace di distinguersi in un settore artistico contemporaneo era presentata come un evento in sé; che un’autrice di successo era presentata soprattutto per la sua giovane età; che una donna di venticinque anni era presentata come giovane. A cinque anni dalla deflagrazione del terremoto #metoo nel mondo dei media occidentali, le premesse erano buone, ma non entusiasmanti: mi accingevo ad ascoltare una professionista che veniva introdotta – seppure in buona fede – come una specie di bestia rara, una creatura mitologica. In effetti, guardando i numeri, è proprio così. Pochi mesi prima erano stati presentati i dati di una ricerca condotta dall’Università Cattolica del Sacro Cuore per la DG Cinema e Audiovisivo del MiC al Seminario annuale sulla parità di genere e inclusività nel settore cinematografico, organizzato dalla Biennale di Venezia, Eurimages e Women in Film, Television & Media Italia, nell’ambito della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Le donne sono pressoché assenti nei ruoli tecnici (effetti speciali, colonne sonore e fotografia, tutti sotto il 10%) mentre dominano per i costumi e il make-up (oltre il 70%). Le registe sono il 16% e le sceneggiatrici il 21%. Un dato sconfortante per le studentesse che ogni anno si diplomano alle scuole di cinema e nuovi media in numero pari ai colleghi. Conservo una ricerca pubblicata dalla New York Film Academy in occasione dell’8 marzo 2021, in cui si faceva il punto sulla parità di genere nel cinema nell’Unione Europea. L’Italia non si piazzava bene, ma va detto che il ritratto era sconfortante: meno di un dirigente su cinque nel settore era donna, la percentuale di registe a livello nazionale non superava mai il 33% (record imbattuto dei Paesi Bassi), le donne risultavano sottorappresentate ovunque, dalle sceneggiature (dove gli venivano riservate 15mila battute contro le 37mila dei personaggi maschili) ai festival. Da allora sono successe molte cose, dalle condanne di Harvey Weinstein ai record di Barbie e C’è ancora domani. Eppure, fino al 2023, il 90% dei film a maggiore budget in Italia sono stati affidati a registi.
Uno storico numero del mensile femminista Effe, datato 1977 (di cui si trova un estratto in rete) parlava dell’“eterno femminismo nel cinema italiano” precisando che: 

«Quasi sempre il livello di coinvolgimento ci ha viste partecipi e convinte spesso, di una realtà femminile di madonne o puttane, angeli del focolare o demoni distruttori di famiglie, a sostegno generalmente dell’intrecciarsi della vera storia del film attorno al personaggio centrale: l’uomo. La nostra convinzione, influenzate dal flusso magnetico della celluloide, era basata sull’essere donna come vita di sacrifici, amori e infine sudditanza. Oggi, con il femminismo abbiamo capito: l’amarezza di essere assenti nella storia del cinema, non solo come registe, ma soprattutto come dive, manipolate queste dalla tendenza culturale maschile, che per anni ci ha strettamente unite, noi spettatrici, nel chiuso della nostra poltrona a vivere sogni costruiti nel nulla, loro, immagini vacue, non corrispondenti, inesistenti perché escluse dalla storia. La riedizione di questi film ci ha aperto la strada alla riflessione sulla condizione di colonialismo culturale, che seppure soggetta a delle storiche variazioni, ha mantenuto tuttavia costante lo sfruttamento della immagine femminile a specchio della condizione più ampia di sfruttamento ed oppressione della donna nella società.»

A quasi mezzo secolo di distanza, i ruoli rimangono quelli: le donne come genere dominante nel pubblico (dal 2022 lo certifica il progetto statistico CinExpert), gli uomini come creatori, protagonisti, pilastri attorno a cui ruotano i film. Nemmeno il proverbiale, testardo maschilismo conservatore italiano, però, può ignorare i trionfi. Succede in questi giorni coi David di Donatello, dove l’esordio di Paola Cortellesi ottiene 19 nomination su 20 categorie: tutte, tranne la regia. E non di meno, la porta è aperta: il 2024 inizia con l’annuncio di esordi al femminile per registe di ogni età.

Adorazione

Il 2024 sarà anche l’anno in cui, sul piccolo schermo, sbarcherà l’esordio letterario di Alice Urciuolo. A Librixia curò l’interessante appuntamento in biblioteca, che è stato il pretesto per aprire questo indisciplinato articolo. Poi scappò sotto la pioggia per spostarsi negli spazi ufficiali della rassegna, in centro città, e presentare il suo primo romanzo: Adorazione (66thand2nd). Incantata da quella giovane donna così capace di spiegare con chiarezza e competenza il mestiere della mimesis cinematrografica, la seguii anche io, per ascoltarla raccontare dell’estate in cui un gruppo di amici adolescenti accomunati da un segreto terribile sarebbero cresciuti, scegliendo ognuno la propria strada, o meglio: iniziando ad aderire a un proprio modello di vita adulta.

Quando l’anno scorso è uscito La verità che ci riguarda (66thand2nd) sono passata dal pubblico al palco. Qui la protagonista è una giovane donna, ritratta nel momento in cui esce dalla famiglia e inizia la sua formazione sentimentale e professionale. Se nel primo lavoro il carburante della vicenda era composto da modelli tossici di mascolinità, ipocrisia sociale e confini labili tra consenso e abuso, nel secondo lavoro Alice Urciuolo conduce chi legge nei labirinti della manipolazione attraverso il linguaggio, nell’azione erosiva delle parole sulle ferite profonde causate dalle incomprensioni e dalla solitudine. All’origine della vicenda c’è il terremoto dell’adolescenza, con lo sgretolarsi del legame tra genitori e figli. Su queste macerie si costruisce una vicenda che porterà Angelica e Milena, madre e figlia, a perdersi in due dedali speculari eppure specifici, eretti intorno alla loro incomunicabilità da due uomini spinti dal proprio interesse e da un uguale desiderio di assoggettamento. Se tra le pagine di Adorazione emergeva la distanza che separa la crescita degli adolescenti dalla comprensione degli adulti, qui l’autrice sembra volerci mettere in guardia: i figli che perdiamo negli anni difficili e turbolenti dell’adolescenza, li perdiamo due volte; se non impariamo a stargli comunque vicino, a supportarli e riconoscerli nel momento più complesso della loro crescita, resteremo in un limbo, per sempre intrappolati dalle ombre dei ricordi e del rimprovero, incapaci di vivere una nuova fase di conoscenza che coincide con il lungo tempo in cui tutti siamo adulti. 

A distanza di anni, ricordo il fastidio che provai leggendo il modo in cui questa sceneggiatrice e autrice veniva presentata. Non è solo, come ben diceva Michela Murgia, il fatto che “una donna che acquisisce una posizione sociale prestigiosa sia un evento talmente alieno da scatenare sempre il bisogno di ricondurla a un ambito di familiarità”. Non c’è alcun dubbio: la questione di genere è strettamente correlata all’espunzione metodica delle donne – ancor più se di riconosciuto talento – dal logos mediatico. E pure si unisce a questa proscrizione un’aggravante nazionale, che la sociolinguista Vera Gheno ben individua quale neòfobia o anche meglio misoneismo, termine composto dal greco mîsos (odio) e néos (nuovo), dunque un odio per ciò che è nuovo, giovane, che non rimanda al compiuto passato e cerca invece di spingere la mente verso l’inconoscibile futuro. L’Italia non è un paese in crisi demografica, semplicemente perché il mondo non è in crisi demografica, bensì in sovrapopolamento. Semmai ad essere in crisi sono lo sciovinismo, il razzismo, la discriminazione (non solo quella di genere) e il perdurare di sfruttamenti corporativi e privilegi antistorici. Per questo è così importante che, tra gli altri, nel 2024 vedremo su Netflix la miniserie tratta da “Adorazione”.
Perché ci ricorda che gli adolescenti vedono l’ipocrisia e la miseria degli adulti; e perché il 2023 è stato l’anno record per i media italiani della parola “femminicidio”, ultimo capitolo di estenuanti storie di abuso; il capitolo che spesso arriva dopo quello in cui la donna in trappola ha finalmente deciso di evadere. Quando qualcuno rimprovera alle donne di essere rimaste, finge di non sapere che la quasi totalità dei femminicidi e dei figlicidi avviene dopo l’avvio della separazione, quando l’uomo abusante non ha più nulla da perdere; o che, nei casi restanti, la violenza permane sotto forma di stalking, di violenza economica, di violenza fisica, di violenza psicologica e anche di violenza sociale, inclusa la vittimizzazione secondaria che colpevolizza le donne per non essersene andate! Adorazione parte proprio da qui: la violenza, la sua percezione sociale, l’ipocrisia della società adulta, il peso sulla formazione degli adolescenti.

Quando Netflix ha annunciato la produzione tratta dal suo romanzo d’esordio, ne ho approfittato per fare una chiacchierata con Alice Urciuolo, che con mia iniziale sorpresa non ha partecipato alla stesura dell’adattamento. Questo è quello che ci siamo dette, senza svelare troppo e con un consiglio quasi pleonastico: leggere il libro è sempre un’esperienza altrettanto intensa che vederne la trasposizione sullo schermo.

Adorazione
Frame tratto dall’imminente serie Netflix Adorazione

La prima domanda che ti faccio è quasi banale. Perché al centro dei tuoi romanzi ci sono gli adolescenti? O meglio: perché la scelta di usare il romanzo per descrivere minuziosamente il mondo interiore degli adolescenti? 
Non ho una predilezione particolare per questo tema, né si è trattato di una scelta cosciente: semplicemente come autrice io scrivo di quello che so. Quando ho iniziato a scrivere Adorazione avevo 24 anni, mi sentivo ancora vicina agli anni dell’adolescenza, e stavo rielaborando molte cose legate a quel periodo della mia vita. Scrivere di questo è stata una conseguenza naturale. Il mio secondo romanzo, poi, La verità che ci riguarda, ha al centro una giovane donna che solo all’inizio della storia conosciamo negli anni dell’adolescenza.

In Adorazione solo chi legge conosce i segreti di ognuno dellǝ protagonistǝ. I personaggi, tra loro, sono impegnati a decodificarsi solo nei momenti in cui si incontrano attraverso piccoli segnali, comportamenti, supposizioni. Ne deriva un effetto estremamente realistico di incomunicabilità dei sentimenti e del proprio mondo interiore, con gli adulti ma anche tra coetanei, che appartiene a ogni fase della vita ma ancora di più all’adolescenza. È un effetto collaterale del tuo lavoro o è proprio quello che cerchi? 
Adorazione ha al centro un evento traumatico accaduto un anno prima dell’inizio del racconto, un evento che tutta la comunità ha cercato (senza successo) di rimuovere: il femminicidio di Elena, una ragazza di 17 anni. Avevo ben in mente il clima di silenzio e reticenza che i personaggi dovevano respirare, e così ho portato la scrittura in quella direzione. Gli adulti non sanno come parlare di quello che è successo a Elena perché non sanno parlare delle cose difficili in generale, né con i figli né tra di loro. E questa incapacità viene inevitabilmente passata anche ai ragazzi, anche se alcuni di loro troveranno infine il coraggio per cambiare le cose.

Adorazione e La verità che ci riguarda sono entrambi lavori che si sviluppano intorno a una violenza di genere. Ma la maggior parte degli uomini che metti in scena e a cui dai parola non sono consapevolmente violenti. Giorgio, Enrico, Christian: più che consapevolmente violenti direi che si adeguano a un contesto che li deresponsabilizza. Lo stesso potremmo dire di Tiziano e di Emanuele. Ti riconosci in questa lettura? 
Sì, assolutamente. Il punto di Adorazione, in particolare, per me era proprio questo: dire che il femminicidio di una singola donna ci riguarda tutti, nessuno escluso. Enrico, l’ex ragazzo e assassino di Elena, ha compiuto un gesto atroce; ma gli altri, soprattutto gli uomini, non possono dirsi estranei a quel gesto, perché quel gesto è scaturito da un sostrato culturale in cui tutti vivono. Non essere consapevoli della violenza che si esercita non ci rende meno colpevoli, e questo Giorgio, ad esempio, arriva a capirlo bene. 

Da autrice di serie che raccontano gli adolescenti, come ti sei posta nei confronti del progetto di trasposizione di Adorazione? Sei stata e sei tutt’ora coinvolta in qualche modo? 
Ho deciso di non scrivere l’adattamento di Adorazione. Lo so, può sembrare strano, visto il fatto che di lavoro faccio la sceneggiatrice. Ma il punto è che, proprio perché faccio la sceneggiatrice, so quanto un libro è inevitabilmente destinato a cambiare quando viene trasposto per il cinema. Ciò che funziona in un romanzo non è necessariamente ciò che funziona in una serie. Io non ero pronta a fare questo tipo di operazione, e ho preferito che a scriverlo fossero altri. Mi piace l’idea che adesso questa storia non sia più solo mia, ma che possa diventare anche altro. 

Dalle indiscrezioni sulla serie tratta da Adorazione, il piano narrativo sembra invertito: la morte di Elena e i segreti che ognuno dei suoi amici conserva sono centrali nella serie. Nel tuo romanzo, invece, la morte violenta di Elena rimane centrale, ma per un’analisi spietata delle strategie di elaborazione. C’è una dicotomia tra la rimozione degli adulti – che scelgono praticamente tutti il tabù – e le domande senza risposta dei suoi coetanei. 
Gli adulti non sono capaci di rispondere alle domande dei ragazzi, domande che spesso i ragazzi spessi non osano porre, ma di cui i loro genitori intuiscono benissimo l’esistenza. Quello che per me è importante affermare è il concetto che purtroppo non si può dare agli altri qualcosa di cui manchiamo noi stessi: i genitori dei ragazzi di Adorazione non hanno mai ricevuto a loro volta un’educazione sentimentale dai loro genitori. In questo, sono sprovvisti di strumenti tanto quanto i ragazzi. Non ci sono colpe, ma c’è la responsabilità di ciascuno di fare del proprio meglio e colmare le proprie lacune. 

Il femminicidio della quindicenne Elena da parte di un ragazzo poco più grande di lei è un trauma che risveglia i suoi coetanei e li spinge, nell’anno che segue, a crescere in direzioni diverse. C’è chi decide di accettare la propria natura e rivelarsi in modo radicale e c’è chi, invece, sceglie di conformarsi a modelli più ipocriti per non perdere la sua reputazione e rispettabilità. Il trauma segna una cesura tra autenticità e conformismo che tu restituisci come biforcazione già nell’adolescenza. 
È così. Penso, ad esempio, ai percorsi diversissimi che compiono Vanessa e Christian. La scelta di Christian, ad esempio, di adeguarsi a un modello più ipocrita per non perdere reputazione e rispettabilità ha anche molto a che fare con i valori della piccola comunità in cui è cresciuto; e pure con una certa idea di “uomo” che gli è stata trasmessa.

Nei contesti di violenza che metti in scena l’unico legame che rimane inscindibile è quello tra madri e figlie. Pur nell’incomunicabilità e di fronte a scelte palesemente traumatiche e dannose, madri e figlie rimangono custodi di un’alleanza preziosa. Questo succede  a Vera, Diletta, ma anche Milena: madri e figlie si amano anche se non riescono più a capirsi. Ti riconosci in questa interpretazione? 
Assolutamente sì, e credo anche che spesso dietro i conflitti e i dissidi ci sia solo molto amore. Amore che però fa fatica ad arrivare all’altro nel modo giusto. Diletta ama Diana, ma non ha gli strumenti giusti per fare quello che sarebbe meglio per lei. Le offre le soluzioni e le parole sbagliate. Forse Diana sa che il problema è questo, e non la mancanza di amore; ed è così che questa alleanza, pur se sotterranea, resta inscindibile.

Parliamo di linguaggio. In Adorazione il romanzo lavora molto su cosa dicono e non dicono gli adolescenti, a parole o attraverso i social. Ne La verità che ci riguarda, invece, estremizzi sia in Milena che in sua madre la potenza del linguaggio manipolatorio su soggetti in difficoltà. Come hai lavorato per questo aspetto? 
Per quanto riguarda il lavoro sul linguaggio e sui tanti scopi e funzioni a cui può essere piegato, c’è stato un lavoro accurato dietro, soprattutto nel secondo. Mentre in Adorazione al centro del racconto c’è il femminicidio di Elena, al centro de La verità che ci riguarda ci sono due storie di violenza psicologica. Che, a differenza di come si dice spesso, non è affatto invisibile, ma viene esercitata proprio attraverso il linguaggio. 

Cosa vorresti e cosa non vorresti che gli spettatori di Adorazione provassero nel vedere i tuoi personaggi prendere vita sullo schermo? 
Quello che sentiranno di provare. Per me è bellissimo vedere cosa di nuovo ciò che scrivo suscita nei lettori o negli spettatori, anche e soprattutto se è diverso da ciò che provo io.


In copertina:
Frame tratto dall’imminente serie Netflix Adorazione

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