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Pensare fuori dalla scatola. Greta, Barbie e le altre



Sentirete spesso Greta Gerwig ripetere durante le interviste che l’ostacolo più grande nella realizzazione di Barbie era la mancanza di una storia. In parte è vero, perché non esistono canoni di riferimento o un testo a cui ispirarsi, ed è il motivo che rende l’operazione un’anomalia in un mare di adattamenti, prequel, sequel e spin-off. Gerwig sa però che Barbie esiste in uno spazio segreto custodito dalla memoria delle bambine che hanno inventato scenari di ogni genere, rivendicandone un’assoluta specificità: la mia storia mi appartiene, è mia e di nessun altro e non somiglia a nulla di già raccontato. A quello spazio l’autrice attinge assumendone lo stesso sguardo simultaneo (è qui ed è ovunque), e in una società terrorizzata dalla pluralità di punti di vista, ne rivendica l’urgenza. Si può parlare di istanze politiche, mettere insieme numeri musicali, apprezzare la moda, piangere e divertirsi, dissertare di vita e di morte senza sentirsi inadeguati; d’altronde, a Barbieland le case non hanno pareti: un invito grafico a pensare “fuori” dalla scatola delle nostre convinzioni.

Per questo motivo Barbie è senza dubbio un film di tutt* e per tutt*, classico istantaneo che sfoglieremo negli anni a venire perché cattura lo spirito del tempo presente al di là del suo valore soggettivo e lo descrive con un linguaggio popolare, ma è anche e indiscutibilmente un film di Greta Gerwig. L’indagine sulla protagonista è in perfetto dialogo con i precedenti lavori – Lady Bird e Piccole donne –  e questo rigore filologico non è mai troppo marcato come segno distintivo della sua autorialità; al contrario, Gerwig apre le porte del cinema e consegna le chiavi allo spettatore, lo investe di responsabilità e cerca continuamente un punto di svolta. Non guardiamo passivamente le immagini ma ci siamo dentro, così come la bambola che ha le fattezze di Margot Robbie deve accedere al mondo ordinario degli umani per conoscersi meglio e l’umana Gloria (America Ferrera) entrare in quello straordinario di Barbieland per curare la relazione con la figlia. 

Barbie

Vedersi attraverso lo schermo è un tema, se non addirittura IL tema. La rappresentazione di sé ha a che fare con l’introspezione, e l’introspezione è strettamente legata al concetto di metamorfosi: iniziamo a cambiare la nostra forma, fisica ed emotiva, quando ci spezzettiamo in tante piccole parti. Questa interiorità non sembrerebbe appartenere alle bambole, la cui esistenza si svolge unicamente all’esterno, in un luogo colorato senza paura, vergogna, dolore e invecchiamento. Ma Gerwig sa che non c’è trasformazione senza distruzione. Ogni grande storia ha bisogno di una rottura e Barbie deve frantumare la sua innata immobilità, posare i piedi per terra: in poche semplici parole, diventare una persona. Contemporaneamente, la regista rompe un accordo con il pubblico che l’ha derubricata come indie, radicale, intellettuale, riservata, ridimensionata. Il film è ambizioso, eccessivo, sgargiante, dove la predominanza del rosa, il ricco production design e la recitazione degli attori sono elementi che si pongono in netto contrasto con la desaturazione e l’avvilimento dei blockbuster usciti nell’ultimo decennio. 

Niente del genere e di queste dimensioni era mai stato affrontato da Greta Gerwig in passato, eppure Barbie è uguale a Lady Bird e Piccole Donne. La protagonista compie lo stesso identico movimento tipico delle sue eroine, quel desiderio atavico di uscire fuori per poi tornare dentro: Christine dell’esordio alla regia fuggiva dalla provincia come atto di ribellione, Jo March lasciava il focolare per coltivare le sue ambizioni, la bambola di Robbie è costretta ad allontanarsi dalla sua realtà per ricucire lo strappo. Lontano da casa, tutte vanno incontro all’incertezza, ma senza conflitto, che divertimento c’è? Combattiamo perché non sappiamo chi siamo, e in questa riflessione il film include qualsiasi prospettiva. Da quella importante, che molti non stanno cogliendo, sulla problematicità di qualsiasi struttura oligarchica, che sia patriarcale o matriarcale, su come niente può funzionare se ci si basa su un rapporto di insubordinazione e su quanto il privilegio dell’uno sull’altro diventi intossicante. Non c’è violenza in questo approccio ma un chiaro invito ad adottare un approccio intersezionale, a contestare il privilegio, a farsi innanzitutto delle domande.

Barbie è anche un film che parla di maternità nell’accezione meno biologica del termine (la bambola non ha genitali, ma aspettate di vedere il finale…), piuttosto politica e immaginifica. In una realtà che ci impone di credere a un unico potere generatore e che la vita si crea esclusivamente dall’unione tra uomo e donna, è lecito sognare che esista una “madre” suprema, un’incubatrice che possa contenere ogni storia, e una forza creativa in grado di leggere e restituire i cambiamenti del nostro tessuto sociale. In soldoni, quello che si suppone debba essere l’intrattenimento popolare, o meglio, il grande storytelling universale, di cui al momento la regista è l’interprete più significativo. Greta Gerwig poteva essere solo “una voce di una generazione”, invece lo specifico filmico dice qualcos’altro. Non soltanto la definitiva consacrazione di un’autrice, ma soprattutto la sua incredibile versatilità. Quella felice incompletezza esplicitata da Frances Ha (che aveva il cognome tagliato nella cassetta della posta) è solo un ricordo. La ragazza che non si sentiva ancora una persona vera lo è diventata e senza più indugi, Gerwig ha definitivamente spezzato le catene di un sistema muovendosi fuori e dentro la scatola Hollywood per rimodernare, e speriamo, cambiare in meglio le sue storie.

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