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Natività senza famiglia. Broker (Le buone stelle) di Koreeda Hirokazu



Una domanda che echeggia più o meno silenziosa in molti film di Koreeda Hirokazu può essere espressa nella sua forma più semplice con queste parole: cos’è una famiglia? In Maborosi (1995), il suo lungometraggio d’esordio tratto da un racconto di Miyamoto Teru, questa domanda inespressa accompagna una giovane madre nei mesi successivi all’inspiegabile suicidio del compagno: è una domanda muta, lontanissima, che col passare del tempo affiora nel flusso dell’impermanenza, legata al mistero della memoria come al progetto di una nuova vita. In Nobody Knows (Nessuno lo sa, 2004), il suo capolavoro liberamente ispirato a un tragico fatto di cronaca, la stessa domanda aleggia su un gruppo di bambini abbandonati dalla madre, che a Tokyo, nella più completa invisibilità, imparano a sopravvivere confidando nella responsabilità del fratello maggiore e nella loro solidarietà fraterna.

Koreeda si è confrontato con questo interrogativo anche in densi intrecci famigliari e generazionali dalla dichiarata ispirazione autobiografica, come Still Walking (2008) e After the Storm (Ritratto di famiglia con tempesta, 2016), e in delicate storie di formazione che attingono alle speranze della fanciullezza e dell’adolescenza per riflettere visioni di famiglie separate o poco convenzionali, come I Wish (2011) e Little Sister (2015). In ognuno di questi film la domanda sulla natura della famiglia non sollecita risposte univoche, ma rimane piuttosto sospesa per lo spettatore che osserva famiglie di bambini senza adulti, famiglie di fratelli o sorelle uniti nelle loro differenze, famiglie di relazioni costruite sull’assenza, o nonostante la distanza e le incomprensioni, fragili ma durevoli per la cura reciproca di cui sono intessute.

Un’ulteriore domanda, più specifica ma non meno complessa, che possiamo forse considerare un’appendice della prima, risuona invece con maggiore insistenza in alcuni dei suoi lungometraggi più recenti: cosa significa essere genitori? O meglio: come matura questo sentimento, non necessariamente conseguente alla nascita di un figlio? E quali cambiamenti suscita nelle persone coinvolte? In Father and Son (2013), la vicenda di due famiglie che scoprono di aver scambiato anni prima i loro primogeniti in ospedale interroga il modo in cui i legami del tempo e dell’affetto possono essere più forti di quelli del sangue. Una riflessione ancora più radicale, in Shoplifters (Un affare di famiglia, 2018), è incentrata su una famiglia che vive di furti e di espedienti ai margini della società, senza alcun legame di parentela tra i suoi membri, e che un giorno rapisce una bambina per sottrarla agli abusi della madre.

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Shoplifters (2018)
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Broker (2022)

Pare che Koreeda abbia iniziato circa dieci anni fa a raccogliere le idee per quello che sarebbe diventato il suo primo film coreano, Broker (Le buone stelle, 2022), quando per Father and Son si interessò al tema dell’adozione e scoprì che il tasso di utilizzo di baby box in cui lasciare i figli indesiderati era ben più alto nella Corea del Sud che in Giappone, nonostante il servizio fosse in entrambi i Paesi oggetto di critiche e controversie. Oltre a questo spunto, altri motivi come l’idea di una famiglia priva di legami biologici e la riflessione sul crimine e sulle contraddizioni della società connettono in modo esplicito Broker a Shoplifters, a partire da un titolo che in entrambi i casi evidenzia l’aspetto più antisociale dei personaggi protagonisti. «Non volevo che nel titolo comparisse la parola “famiglia”» scrisse a proposito di Shoplifters nel libro Quand je tourne mes films (Atelier akatambo 2019). «Avrebbe subito richiamato alla mente il genere del dramma famigliare, e non era di questo che si trattava».

Shoplifters significa taccheggiatori, e come nota Koreeda può avere una duplice accezione rispetto ai giovani protagonisti: una famiglia in cui anche i bambini sono ladri, oppure dei bambini che rappresentano il bottino più prezioso di una famiglia di ladri. Broker è invece l’intermediario che in cambio di una commissione mette in relazione clienti e venditori, e nel film identifica anzitutto due uomini dediti al traffico di bambini abbandonati: Sang-hyeon, proprietario di una lavanderia e volontario in una chiesa che offre il servizio di baby box (interpretato da Song Kang-ho, migliore attore al Festival di Cannes 2022), e il suo complice Dong-soo (Gang Dong-won). Quando all’inizio del film una giovanissima madre dal nome parlante So-young (Lee Ji-eun) lascia il suo bambino assieme a un biglietto senza alcuna indicazione di contatto, i due si apprestano a cancellare i video del sistema di sorveglianza e a pianificare l’ennesimo affare redditizio, ma non sanno di essere pedinati da una coppia di investigatrici, né che la madre sarebbe tornata di lì a breve a chiedere notizie di suo figlio, costringendoli a portarla con loro nei successivi viaggi di città in città, finalizzati alla ricerca della coppia a cui affidare il bambino.

L’inizio di Broker definisce una situazione ancora più estrema del drammatico sdoppiamento di Father and Son e dell’invisibile marginalità di Shoplifters, rispetto alla quale le domande sulla natura della famiglia e sullo sviluppo di un senso di genitorialità parrebbero completamente destituite di senso. In una sequenza notturna che riporta alla mente la tempesta di Parasite e la sua topografia urbana scissa tra alto e basso, l’abbandono del bambino, così simile a un sacrificio, è la scena primaria di un’eclisse della famiglia che si consuma nel più desolante vuoto sociale, in un contesto in cui perfino gli istituti di assistenza sono teatro di dinamiche opportunistiche. Koreeda ha rivelato che la primissima intuizione di Broker è stata l’immagine di Song Kang-ho in abiti da finto prete che prende un bimbo da una baby box, gli sorride dolcemente mentre gli promette che insieme saranno felici, e l’indomani lo vende. Un’immagine di doppiezza e ipocrisia, ma anche un’intuizione umoristica che invita a non prendere troppo sul serio l’apparenza, le maschere e le contraddizioni della vita, perfetta per un attore in grado di conciliare profondità e leggerezza in ogni sua interpretazione.

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Broker (2022)

Anche il bambino raccolto è presentato in prima battuta come una bambola da truccare o photoshoppare per renderlo più appetibile ai potenziali clienti: è un oggetto di scambio, una merce preziosa da valutare su un’app per le sopracciglia troppo sottili o i tratti poco virili, più che un essere umano in carne e ossa. Eppure è proprio il commento sprezzante di un uomo che contesta la somma pattuita, giudicata troppo alta, a mandare all’aria il primo di una serie di tentativi fallimentari, in una scena che convoca per la prima volta tutte le parti in causa, comprese le investigatrici nascoste sullo sfondo. Altrettanto importante della scena primaria di abbandono è questa scena secondaria che nella storia si ripeterà più volte con piccole variazioni: non più sola, la madre riprende il bambino e assieme ai compagni di viaggio assume la responsabilità di una scelta per il suo futuro che non può essere dettata da ragioni utilitaristiche.

Le stesse investigatrici non sfuggono a questo gioco delle parti, tanto che per catturare i sospettati in flagrante decidono di assoldare delle finte coppie di acquirenti, comportandosi a loro volta da veri broker. Il ribaltamento dei ruoli si accompagna però anche a occasioni di rispecchiamento: dapprima, alcuni dialoghi danno modo allo spettatore di carpire ad esempio un pensiero comune sulle criticità del sistema delle baby box; in seguito, un microfono nascosto finisce per essere il mezzo ideale per sondare in profondità i molti aspetti di una realtà complessa, oltre la facciata dell’ignoranza e dei pregiudizi. Particolare cura è dedicata all’evoluzione dei personaggi di So-young e di Dong-soo: lui rivede dapprima in lei la crudeltà della madre che l’ha abbandonato, condannandolo a crescere in un orfanotrofio, e trova poi conforto in una visione più profonda delle cose esattamente come accade alla ragazza, che nel supporto altrui impara a riconoscere nuove possibilità di azione che finora le erano state precluse.

Il fatto che ciò avvenga anche grazie alla finzione, come nelle scene in cui i protagonisti, per non destare sospetti, recitano la parte di una vera famiglia, comporta un ulteriore rovesciamento rispetto ai motivi della maschera e della menzogna. Koreeda rimette costantemente in discussione le aspettative di spettatori e protagonisti, ed è molto abile nel trasformare una tipica storia di inseguimento in un road movie dalle mille sfaccettature, con momenti di tenerezza e intensità emotiva, sequenze di viaggio dove si respira un’atmosfera da gita scolastica e scene di vita quotidiana che emergono su uno sfondo sociale fortemente problematico, in una polifonia a cui riesce a dar voce con sguardo lucido e partecipe, senza la minima traccia di retorica.

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Broker (2022)

Peter Bradshaw ha scritto una dura recensione sul Guardian, tacciando il film di ingenuità e sentimentalismo e sostenendo che i personaggi si comportino in maniera inverosimile, perché «nel mondo reale le persone che gestiscono un traffico così disgustoso sarebbero individui inquietanti e ripugnanti», non certo «ragazzi adorabili, imperfetti e in fondo romantici». Credo che per entrare nel merito di questa critica sia opportuno chiedersi a quale forma di verosimiglianza faccia appello Bradshaw, e quale effetto invece intenda perseguire Koreeda, in maniera peraltro assolutamente coerente con la poetica che ha espresso già in numerose opere. È verosimile la vicenda di un uomo che ha perso la memoria a breve termine, e nonostante ciò conduce la sua vita famigliare con un’incredibile forza di volontà (Without Memory, 1996), o quella di un gruppetto di bambini che nelle più difficili condizioni di abbandono riescono a trovare l’energia per vivere, sorridere e sognare (Nobody Knows, 2004)?

Nel primo caso Koreeda ha documentato una storia eccezionale ma reale nel modo più onesto possibile, nel secondo si è ispirato a un fatto di cronaca altrettanto eccezionale e ha interrogato l’accaduto dalla prospettiva dei bambini protagonisti, rifiutando il clamore e le strumentalizzazioni mediatiche per creare una finzione senz’altro più vera di molte cronache giornalistiche (“Una domenica meravigliosa” fu il titolo iniziale della sceneggiatura, che Koreeda cominciò a elaborare prima di qualsiasi altro lungometraggio). In entrambi i casi, così come in Broker, l’onestà della messa in scena e la ricerca di punti di vista capaci di suscitare domande e riflessioni sono al servizio di uno sguardo che prova a costituirsi come meditazione sul reale, non soltanto come rappresentazione (e non certo come rappresentazione conforme a parametri prestabiliti), e che proprio per questo, nei suoi momenti migliori, sembra offrire la visione di una realtà trasfigurata, tanto intimamente famigliare quanto irriconoscibile nelle sue caratteristiche esteriori. Splendida da questo punto di vista è la sequenza sulla ruota panoramica, a detta del regista la più difficile da girare per l’impossibilità di essere presente con gli attori all’interno della cabina: un irripetibile momento di grazia, che ad alcuni spettatori riporterà alla mente l’interrogatorio di Nobuyo in Shoplifters.

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Without Memory (1996)
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Broker (2022)

Secondo un criterio di verosimiglianza prettamente convenzionale, per non destare perplessità l’intreccio di Broker avrebbe dovuto presentare i criminali come dei perfetti criminali, le investigatrici come delle perfette investigatrici, e così via, inquadrando ogni personaggio in una tipologia che confermasse le attese dello spettatore e lasciasse intendere con chiarezza le motivazioni alla base di qualsiasi azione. Ma non è proprio questo l’automatismo che Koreeda ha voluto smascherare a poco a poco, lasciando che i suoi personaggi scoprissero nelle loro relazioni non solo nuovi aspetti dell’altro, ma anche di se stessi? E non è molto più ragionevole considerare che ogni personaggio, anche il peggiore criminale, possa essere mosso da istinti e interessi contraddittori, da affetti e da sentimenti che affiorano nell’incontro e nell’esperienza dell’alterità, dunque sono passibili di continui mutamenti? Credo che ancora una volta Koreeda sia riuscito a scoprire e mostrare delle persone nei suoi personaggi, e credo inoltre che Broker sia uno dei film che meglio esprime la sua concezione di un io che non esiste in quanto tale, ma solo attraverso le relazioni che gli danno forma:

«In realtà non esiste l’io. Non esiste l’esistenza dell’io in quanto tale, perché siamo tutti integrati all’interno delle relazioni. Essenzialmente credo che la figura dell’io in una società debba essere considerata come qualcosa di primitivo. Per esempio, io sono il padre di una figlia ma prima ero il figlio dei miei genitori, al tempo stesso sono il marito di qualcuno e sono il regista per qualcun altro.
Questi elementi socio-familiari messi insieme creano una combinazione unica, ciò che contraddistingue il mio io e determina la mia persona. Posso quindi dire di essere un buco, un vuoto d’aria, con una ciambella attorno. E ciò che delinea la nostra esistenza, nel mio caso anche il modo in cui può essere raccontata una storia, è legato alla forma che decidiamo di dare a quella ciambella. L’interno di quella ciambella, però, è sempre vuoto.»
(Da una conversazione con Rosario Sparti)

A un certo punto del film, Dong-soo chiede a So-young se ha idea di quante madri tornano dopo aver abbandonato un bambino: statisticamente, solo una su quaranta prova a ricontattare le persone che gestiscono il servizio di baby box. Un’azione inverosimile ma possibile, così come il concorso di circostanze che fin dalla scena iniziale sottolinea l’importanza del contributo di ciascun personaggio a quella che infine si rivela effettivamente una causa comune. Durante le sue ricerche per Father and Son, Koreeda racconta di aver scoperto una simile possibilità inverosimile: di tutte le coppie che nei decenni avevano appreso di aver scambiato alla nascita i loro bambini, la stragrande maggioranza aveva scelto di privilegiare i legami di sangue e di recuperare i figli biologici; solo due coppie di Okinawa avevano preso la decisione opposta, alla quale giungono anche i protagonisti del film.

In Broker, questa possibilità inverosimile assume a tratti le sembianze di un piccolo miracolo, annunciato dalla pioggia che nel corso della storia torna a ripresentarsi come gioco, sogno e simbolo di un’esistenza rinnovata. La nascita di un bambino indesiderato cessa così di essere un sacrificio necessario e imperdonabile, e i personaggi, emancipatisi da valutazioni e giudizi individualistici, comprendono che proprio la loro condizione di orfani li rende più suscettibili ad accogliere le fragilità altrui, facendosi carico di un’inattesa trasformazione che ha a che fare con la famiglia invisibile, vastissima, reinventata e ritrovata nei legami che fondano la nostra società.

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