Havoc, film uscito ad aprile su Netflix, continua a essere uno dei titoli di punta nel catalogo del colosso dello streaming. È una storia noir, che tratta di poliziotti corrotti e delinquenti vecchio stampo, di politici disillusi e di rapporti umani falliti… Ma in questo magma di oscurità e peccato, esistono anche squarci di umanità e altruismo. Patrick Walker è un poliziotto dai metodi bruschi a cui un governante altolocato decide di affidargli un incarico importantissimo: salvare il figlio invischiato in affari criminali che sicuramente lo porteranno alla morte. Inizialmente restio, Walker decide di accettare l’incarico. Quella che sembra una scelta dettata solo dalla convenienza, è in realtà per il poliziotto la strada verso la redenzione. Il film vanta un cast d’eccezione: troviamo Tom Hardy nel ruolo di protagonista, Forest Whitaker e Timothy Olyphant nei ruoli secondari. Oltre ai grandi nomi, la produzione della pellicola ha potuto godere di un budget generoso, tuttavia, nonostante le premesse siano brillanti, l’utilizzo eccessivo del digitale e una sceneggiatura con troppe sovrastrutture inutilmente sviscerate in alcuni momenti e lasciate in sospeso in altri, risultano essere elementi indigesti all’interno di un film che poteva essere un capolavoro. Ma l’adrenalina e la spettacolarità rimangono di una potenza fulminante. È proprio l’azione il cuore pulsante di Havoc, nuova fatica di Gareth Evans, che conferma ancora una volta di essere il più importante regista d’azione contemporaneo.

Ma chi è questo autore britannico tanto abile e talentuoso da guadagnarsi già il grado di maestro nonostante la giovane età? Nato in Galles nel 1980, Evans studia regia e sceneggiatura all’università di Glamorgan. Capisce subito quale sia il tipo di cinema a cui intende dedicarsi, ne intuisce il potenziale, studia i grandi maestri di Hong Kong come Tsui Hark, Johnny To e soprattutto John Woo, ma anche i capolavori delle arti marziali di Chang Cheh e tutte le grandi produzioni degli Shaw Brothers, interiorizzando lo spirito di una cinematografia orientale che non è solo intrattenimento, ma anche specchio sociale e mezzo di riflessione su temi archetipici come la moralità, l’onore e la giustizia.
Dopo aver girato diversi corti, un lungometraggio a bassissimo budget e aver lavorato come montatore e sceneggiatore per film altrui, viene ingaggiato da una produzione asiatica per la realizzazione di un documentario in Indonesia riguardante il Silat: l’arte marziale ispirata alla natura e alle pose di attacco di animali come tigri e giaguari, una disciplina che prevede l’uso di calci, pugni e di una grande varietà di armi bianche. Arrivato a Jakarta, il regista conosce tantissimi stuntmen, maestri di armi e arti marziali, ma anche tecnici e operatori che lavorano in produzioni efficientissime e decisamente meno costose di quelle occidentali. Per il gallese si aprono le porte di un nuovo mondo. Durante la lavorazione del documentario conosce Iko Uawis, campione di arti marziali e novello Bruce Lee della disciplina indonesiana, con il quale instaura un sodalizio che porterà entrambi a traguardi importantissimi.
Totalmente innamorato del Silat, Gareth Evans inizia a pensare a un lungometraggio che possa rappresentare al meglio quest’arte della lotta. Decide quindi di rimanere in Indonesia e scrivere Merantau, storia di un giovane (Iko Uawis, naturalmente) che parte da un villaggio di provincia per trasferirsi a Jakarta e diventare maestro di arti marziali. Arrivato nella capitale, il ragazzo scoprirà che la metropoli non è il paradiso che si aspettava ma una città stretta nella morsa della violenza. Grazie al suo talento, riuscirà a difendere degli innocenti dai soprusi di un gruppo di criminali occidentali.
È l’inizio di una nuova era. Oltre a mostrare sul grande schermo una disciplina fino a poco prima sconosciuta, il film possiede già una potenza estetica tanto forte da superare i confini del Sud-Est asiatico e penetrare in quelli occidentali. Merantau viene presentato in diversi festival in tutto il mondo, dove riceve pareri positivi dalla critica ma soprattutto dal pubblico. Incoraggiato dal successo, l’enfant prodige si concentra sul progetto successivo e gira The Raid. Ancora una volta in Indonesia, con Iko Uawis protagonista, The raid è un film di ambientazione metropolitana che racconta di un gruppo di poliziotti dei reparti speciali i quali, dopo aver fatto irruzione in un palazzo governato da un potentissimo re del narcotraffico, si ritroveranno intrappolati all’interno dell’edificio e di conseguenza, costretti a combattere contro l’esercito privato del boss. Alla sua seconda prova, Evans osa ancora di più: aumentano il sangue e i massacri, le sparatorie si sprecano e si delinea un’impronta registica estremamente riconoscibile e destinata a fare scuola.
L’innovazione sta nella tecnica di ripresa: Evans riesce a rivoluzionare l’utilizzo della macchina a mano grazie ai vantaggi che la tecnologia digitale può offrire. La camera, qui mantenuta dall’operatore all’altezza del busto e sorretta da un’impugnatura circolare in grado di fornire estrema dinamicità e assoluta precisione, sfrutta diverse angolazioni e permette agli stunt un’enorme libertà di movimento nelle scene di lotta. Il risultato è un tripudio d’azione in cui la cura maniacale per il dettaglio si fonde al montaggio frenetico, mostrando allo spettatore uno spettacolo elaboratissimo e ultraviolento. The Raid è ovunque un grandissimo successo, non solo tra i pochi (fino a quel momento) fan del regista, ma anche tra i critici, che nonostante la violenza brutale a cui un pubblico generalista forse non è completamente abituato, ne riconoscono la spettacolarità e la forza.

Dopo il successo del film, il budget a disposizione del promettentissimo autore si gonfia, i produttori fanno a spallate per aggiudicarsi il nuovo progetto e così, Evans decide di tirare fuori dal cassetto Berandal, una sceneggiatura scritta anni prima, e di adattarla come sequel di The Raid. Il film che dirige è un vero e proprio capolavoro di tecnica e stile. 150 minuti da capogiro, in cui sparatorie, inseguimenti, lotte con mazze da baseball, martelli, coltelli e tanto altro rimangono impresse nella mente dello spettatore per potenza visiva e originalità della coreografia. Con il medesimo sistema di ripresa a mano nelle scene d’azione, girato con le famigerate Red One (camere maneggevoli e ad altissima definizione) il film abbaglia grazie a una fotografia eccezionale, dove l’attenzione nella composizione dell’inquadratura richiama il grande cinema, soprattutto i maestri del Gangster Movie del calibro di Martin Scorsese per quanto riguarda la struttura narrativa, ma anche autori come Nicolas Winding Refn nella scelta dei colori e delle atmosfere.
In The Raid 2- Berandal c’è una vera e propria esplosione di adrenalina, ma anche uno spessore piscologico maggiore in ogni personaggio. Se il primo film aveva una struttura debitrice dai videogame, in questo nuovo capitolo il regista decide di mostrare anche un lato intimista, dove i primi piani, i dialoghi e le lente carrellate hanno la stessa importanza dell’azione.
A questo punto Evans decide di cambiare rotta e misurarsi con qualcosa di nuovo. Da sempre amante del cinema horror, genere che in qualche sfumatura troviamo anche nelle opere precedenti, decide di scrivere e dirigere Apostolo opera nuova per tematiche e ambientazione, che costituisce inoltre l’approdo dell’autore alla piattaforma streaming più importante del mondo. Nonostante mantenga una cura eccellente nella messinscena e possieda interessanti riflessioni filosofiche riguardanti i limiti e le imposizioni religiose nell’Inghilterra di inizio Novecento, Apostolo purtroppo non decolla e non convince i fan che nel frattempo però si stanno moltiplicando grazie al successo di The Raid. Gareth Evans però è conosciuto per la sua tenacia, e la televisione rappresenta un mezzo attraverso cui sfogare la sua scoppiettante creatività, anche in forma seriale. Nasce così Gangs of London, meraviglioso e brutale affresco della criminalità londinese contemporanea.
Gangs of London è una serie stratificata, ricca di personaggi sfaccettati e con un inferno personale dal quale non riescono a scappare. Nove memorabili episodi in cui conosciamo non solo gangster inglesi, ma anche zingari, albanesi, nigeriani armati di machete, pakistani reduci da conflitti sanguinosi e fuorilegge miliardari in giacca e cravatta sorreggono l’economia della città. La serie (uscita su Sky) è un successo e mette d’accordo critica e pubblico. Ne è seguita una seconda stagione nella quale Evans figura da creatore; ma questo seguito nettamente inferiore rispetto alla prima stagione, forse proprio a causa di una mancata supervisione di Evans. Se vi è piaciuto Havoc, c’è tutto un mondo che potete scoprire in home video oppure sulle piattaforme, una Nouvelle Vogue dell’azione di cui Gareth Evans rappresenta il sovrano indiscusso. Divertitevi.
In copertina, foto di Sony Pictures Classics