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Francesca Woodman, il corpo come palcoscenico

Sentirsi intrappolati in uno spazio limitato e limitante può portare a cedimenti e ad attimi di follia talvolta, ma può anche sfociare in produttività e creatività inaspettate. Sfioriamo per un attimo l’argomento che più ci tocca da vicino. Pensiamo un momento alla situazione che tutti stiamo vivendo in questa primavera dall’aria sempre più pesante. C’è chi soffre, chi si sente protetto, chi riscopre nuove abilità, chi sta imparando a prendersi del tempo per se stesso o sta riscoprendo la convivenza, c’è chi si logora nell’attesa della libertà e infine chi pensa di non poter sopravvivere all’atmosfera claustrofobica.

Non è però negli scopi di questo articolo proporre un’ulteriore considerazione sulla pandemia attuale. Ognuno nel suo piccolo sta avendo tempo per pensare e riflettere al riguardo, tra una videochiamata Skype e una partita a Monopoli. È interessante invece porre l’attenzione su un’artista che ha lasciato una traccia indelebile nella storia dell’arte contemporanea e della fotografia. Mi riferisco a Francesca Woodman e alle sue immagini malinconiche, sperimentali e soprattutto molto attuali in questo momento storico.

Il centro culturale C/O Berlin, che è solito dedicare le sue retrospettive al mondo della fotografia squisitamente contemporaneo, sta attualmente ospitando nelle sue sale una serie di fotografie dell’artista americana. Una selezione proveniente dal Francesca Woodman Estate di New York, di cui fanno parte, oltre ai piccoli formati in bianco e nero, i suoi rari grandi formati, alcune stampe sperimentali realizzate secondo la tecnica della diazotipia, e infine una serie inedita a colori, per altro l’unica esistente. Il concept della mostra, dal titolo On being an Angel, è stato organizzato dal Moderna Museet di Stoccolma e la selezione ha già girato alcune capitali Europee.

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Untitled (from Swan Song series), Providence, Rhode Island, 1978 ©Francesca Woodman

Francesca Woodman, figlia d’arte, nasce a Denver nel 1958 e inizia a cimentarsi nella fotografia all’età di 13 anni. Studia alla Rhode Island School of Design, grazie alla quale ha l’opportunità di seguire un programma a Roma, dove ambienta diversi dei suoi scatti, sempre all’interno del suo studio. Successivamente torna negli Stati Uniti e si trasferisce a New York, dove tristemente si toglie la vita nel 1981, a soli 22 anni.

Nelle sue immagini Francesca Woodman ci parla velatamente di filosofia, psicologia, di architettura e antichi miti. Chiusa nel suo studio la Woodman ha saputo raccontare un’intera epoca, una generazione, partendo dalle personali frustrazioni e le sue più intime paure.
Diversi elementi ricorrono: i motivi geometrici; i richiami ai canoni classici di bellezza, sia corporea che architettonica; la mimesi con lo sfondo, naturale o domestico, sia esso composto dalle pareti decadenti del suoi intérieur o da un fitto bosco di betulle; il concetto di trasformazione, l’idea di un corpo multiforme che può interagire con l’architettura, farsi animale o assumere nuove sembianze umane; gli specchi con cui enfatizza il concetto di autoritratto; l’atmosfera claustrofobica che ritroviamo rappresentata dall’elemento corporeo in primis, e dalle pareti degli interni in cui era solita posare; infine, il concetto di libertà, associato qui spesso alle ali piumate di volatili.

Tanti hanno voluto associare la sua morte prematura al desiderio di liberarsi da un corpo che la costringeva a una dimensione terrena. Mentre le reali motivazioni che si celano dietro al suo suicidio rimangono misteriose, ciò che però continua ad affascinare sono le sue ossessioni per gli angeli, il movimento, lo sbattere delle ali piumate. Tutti elementi che ricorrono nelle sue fotografie, a partire dalla citazione che ha dato il titolo alla mostra fotografica. «Being an Angel n#1» scrive lei stessa su uno dei suoi autoritratti: una piccola fotografia in bianco e nero scattata dall’alto. La Woodman era solita corredare i suoi lavori con brevi pensieri, alcuni di questi vengono citati accanto alle stampe all’interno del percorso espositivo. Tuttavia, come spiega Kathrin Schönegg, curatrice della mostra al C/O di Berlino, le stampe originali scritte a mano appartengono esclusivamente al Francesca Woodman Estate di New York, dove sono custodite permanentemente.

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On Being an Angel #1, Providence, Rhode Island, 1977
©Francesca Woodman

Le sue fotografie, unite alle peculiari didascalie, rappresentano solo l’ultimo risultato di quelle che erano le sue quotidiane performance di fronte alla fotocamera. Tutto ciò che a noi appare come un singolo istante cristallizzato era in realtà frutto di una gran preparazione, uno studio dei dettagli unito certamente a un pizzico di improvvisazione, connaturata alla performance come forma d’arte. La giovane Woodman grazie all’aiuto di questo medium ha congelato il ricordo che abbiamo della sua vita in una fotografia. Ha trasformato il proprio studio e appartamento nel suo palcoscenico privato, dove poteva esibirsi di fronte alla lente fotografica, il suo principale pubblico.

Nei frammenti dei video che ci sono rimasti come testimonianza del suo corpus artistico è molto chiaro quanto fosse razionalmente importante la corporeità: infatti è proprio il suo corpo in particolare, spesso ritratto nudo, a essere oggetto di sperimentazione. Corpo come gabbia, come elemento architettonico, colonna portante in grado di reggere le sovrastrutture dei palazzi, proprio come le antiche cariatidi; corpo come sagoma e forma, in grado di mutare, decomporsi e divenire altro. La sua appare come una lotta contro una pesante ancora, contro la forza di gravità che tende verso il basso. Il movimento, manifestato spesso attraverso le lunghe esposizioni, poeticamente evoca il tentativo di fuga di un’anima imprigionata, un’anima platonica che cerca di ascendere verso l’irraggiungibile Mondo delle Idee. Le sue fotografie fanno riferimento alla biologia, alla filosofia, alla mitologia, spaziando da Platone a Proust, dal canto del cigno fino al mito di Apollo e Dafne.

Nonostante Francesca Woodman venga spesso associata a letture malinconiche, nonostante si faccia fatica a separare nettamente il grido tragico e soffocato di molti dei suoi autoritratti dal suo suicidio, Kathrin Schönegg, che mi ha accompagnata in questo viaggio tra la memoria e l’estetica dell’artista, la descrive secondo una visione fortemente positiva.
Uno dei video proiettati in una delle sale espositive della mostra ci rivela una tipica situazione quotidiana celata dietro le sue fotografie. «Francesca appare qui come una persona divertente e spensierata, cosa che spesso – sottolinea la curatrice – tendiamo a dimenticare rispetto all’immagine malinconica che associamo agli scatti solitari nel suo studio.» La Woodman amava anche scherzare, improvvisare, sognare, recitare di fronte a quello stesso obbiettivo.

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Untitled, New York, 1979 ©Francesca Woodman

Questa breve panoramica sull’estetica immortale che accompagna l’artista e il suo percorso, visto qui come un viaggio tra immagini sfocate e riferimenti culturali a lei cari, vuole essere un invito a riflettere sul contesto che stiamo vivendo a livello globale, ma anche a livello intimo e personale. Cos’è per noi lo spazio? Cosa vuol dire vivere in un ambiente circoscritto da delle mura? Cosa rappresenta il nostro corpo per lo sviluppo della nostra identità?
Mai come oggi, dunque, è importante ripensare all’eredità che ci ha lasciato Francesca Woodman, ancora straordinariamente attuale.

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