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Disseminare la violenza della Storia. Fare cinema in Iran oggi

Su ‘Il seme del fico sacro’ di Mohammad Rasoulof

«Quando c’è stata la rivoluzione, nel 1979, sono stati proibiti tutti i film stranieri, così il cinema iraniano si è trovato costretto a contare solo su sé stesso. Questo, paradossalmente, ha fatto nascere una cinematografia assai particolare. I registi, e i produttori, nel tentativo volta per volta di evitare la censura, si sono fatti sempre più intelligenti. Mantenere alta la qualità, serpeggiando tra i mille divieti, cercando di farla franca: il tentativo è riuscito. Ovviamente tutto questo non sarebbe possibile senza la stupidità dei censori, che neanche si accorgono certe volte che un divieto non è stato proprio infranto, ma intelligentemente aggirato».

Sono parole dell’avvocata e attivista iraniana Shirin Ebadi, vincitrice del Premio Nobel per la Pace nel 2003, in merito al cinema iraniano.

Fare cinema per un paese come l’Iran è diventato sempre più difficile. Jafar Panahi, per esempio, è costretto da anni a vivere in esilio, e nel 2022 è stato arrestato e poi rilasciato l’anno successivo per propaganda anti-regime a causa del suo film Gli orsi non esistono. La coppia di registi Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, invece, per Ballad of a White Cow si sono ritrovati invischiati in una causa legale durata due anni per la loro critica contro la pena di morte che ha portato il film a essere messo al bando, mentre per il loro ultimo film Il mio giardino persiano hanno dovuto girare il tutto in clandestinità in Iran con le proteste del movimento “Donna, vita e libertà” sullo sfondo correndo grossi rischi a livello legale. In un certo senso, i cineasti iraniani non soltanto sfidano il regime alle volte riuscendo ad aggirare la censura, ma nel farlo corrono grossi rischi al punto da dover andare spesso in esilio per continuare a fare il proprio lavoro, e se ottengono un buon successo a livello internazionale, il governo iraniano fa di tutto per impedire loro di godere di questo successo, come accaduto a Hossein Molayemi e Shirin Sohani, vincitori dell’Oscar al miglior corto d’animazione per In the Scado of the Cypress, che hanno tenuto il visto solo tre ore prima della cerimonia, a riprova di quanto sia difficile per il cinema indipendente farsi conoscere con un paese che gli rema contro.

Dinamiche simili le ha vissute e le vive ancora Mohammad Rasoulof, regista di Il seme del fico sacro, film candidato come miglior film straniero agli Oscar e che a Cannes ha vinto il Premio Speciale della Giuria non ricevendo nessun supporto da parte del proprio paese, che lo ha costretto a vivere in esilio in Germania per non imbattersi in una condanna di otto anni di prigionia, esperienza che ha già vissuto due volte a Evin, carcere dove la giornalista italiana Cecilia Sala è stata detenuta nel dicembre 2024. Il seme del fico sacro si svolge a Tehran quando la morte di Massa Jina Amini dà inizio alle proteste del movimento “Donna, vita e libertà”, fra il 2022 e il 2023. Il film si apre con Iman, promosso a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria e il peso che sente per questa nuova responsabilità, come quella di emettere delle condanne senza approfondire i casi a lui proposti. La famiglia di Iman è composta da Najmeh, donna devota alla famiglia che rispetta le tradizioni, e le figlie Rezvan e Sana, giovani che rappresentano il nuovo che avanza e che, allo scoppiare delle proteste contro la legge sull’hijab e la morte di Amini, arrivano a scontrarsi con i propri genitori. Due, però, sono gli eventi che influiscono sulla famiglia protagonista: l’arrivo di Sadaf, amica di Rezvan che resta coinvolta nelle proteste e che un giorno viene arrestata e sparisce, e la scomparsa della pistola di Iman, che fa piombare l’uomo nella paranoia più assoluta e che costituirà la porta d’accesso all’interno della famiglia della violenza del mondo esterno e lo scontro acceso fra tradizione e oscurantismo e modernità.

Per capire meglio la nuova fatica di Mohammad Rasoulof, è necessario comprendere innanzitutto l’esperienza personale del suo regista, che ha partorito l’idea del film dopo la fine della sua incarcerazione a Evin e con l’imperversare delle proteste contro la morte di Amini sullo sfondo. Realizzare questo film non è stato facile a causa della forte censura del regime che, come dichiarato dal regista stesso nelle sue note di regia, lo ha costretto a limitare il cast a un ristretto numero di attori e a girare prevalentemente in interno:

«La paura di essere identificati e arrestati getta un’ombra su tutto. Ma sotto quest’ombra si trovano sempre delle soluzioni. Per esempio, abbiamo cercato di mantenere il gruppo piccolo. Avevamo anche un’attrezzatura tecnica ridotta al minimo, ma l’abilità del cameraman e dei suoi assistenti è riuscita a compensare i limiti dell’attrezzatura».

Una volta realizzato il film e ricevuta la candidatura a Cannes, Rasoulof e parte del suo entourage sono stati costretti a scappare clandestinamente dall’Iran per non incorrere in una condanna a otto anni di prigione per propaganda contro il regime, tuttavia evidente in due aspetti in particolare: il titolo e l’uso di filmati tratti dai social media. Il titolo, infatti, prende spunto dal ficus religiosa, una pianta i cui semi sono trasportati dagli uccelli e che per crescere si innesta ad altre piante che soffoca per continuare la sua crescita, mentre i filmati tratti dai social sono funzionali a comprendere come la violenza della Storia agisca come i semi del fico sacro innestandosi nelle vite private delle famiglie iraniane per continuare il suo corso. Ciò che con questi due elementi Rasoulof vuole denunciare è come il regime religioso dell’Iran si insinua in maniera violenta nelle vite delle persone aumentandone la paranoia e creando contrasti difficili da sanare.

A questo proposito, tre sono gli elementi cardini che danno potenza al messaggio del film: l’arrivo di Sadaf nella vita della famiglia protagonista, la scena in cui Najmeh lava via dei proiettili pieni di sangue e Rezvan e Sana che guardano un video in cui una persona a bordo di uno scooter spara nell’obiettivo, quasi a dire che nessuno in Iran è immune ai cambiamenti della società, alle proteste e alla violenza che ne consegue, e per una famiglia tradizionalista come quella protagonista è importante, in quanto, se con la repressione possono in qualche modo contrastare il cambiamento, alla fine con esso si devono confrontare e gradualmente devono imparare ad accettarlo. Gli spazi piccoli e angusti in cui Rasoulof è stato costretto a girare il film per aggirare la censura non sono, quindi, esenti dal violento scontro fra rivoluzione e reazione del regime. Questi sono, dunque, gli elementi in cui assistiamo all’innesto della violenza del mondo esterno nelle vite dei protagonisti, ma allo stesso tempo alla paranoia e ai sempre maggiori dissidi al loro interno. Personaggio fondamentale in questo senso è, appunto, Iman, che una volta che perde la pistola comincia a diventare maniaco del controllo e aggressivo nei confronti della moglie e in particolare verso le figlie, soprattutto Rezvan, che affronta a viso aperto il padre. L’uomo, inoltre, le costringe anche a sottoporsi a un interrogatorio tenuto dal collega Alireza, evento che evidenzia ancora di più la mancanza di fiducia dell’uomo verso la sua famiglia.

Un altro evento scatenante sarà, poi, la fuga che Iman organizza con la sua famiglia una volta che il suo indirizzo e la sua identità sono divulgate sui social. L’uomo decide di portare la sua famiglia nella casa della sua infanzia, una scelta che Rasoulof ha motivato nel seguente modo nella sua intervista con Federico Pontiggia per il primo numero di quest’anno della rivista bimestrale Vivi il cinema:

«La dinamica interna alla famiglia rappresenta la lotta tra tradizione e modernità; il ritorno alla casa paterna è un ritorno al passato e l’immagine del santuario, un posto dove viene sepolto l’imam o suo figlio, mostra come in Iran siamo sempre sotto l’ombra del potere religioso».

La decisione di Iman conferma, quindi, come il potere in Iran sia prima di tutto un potere religioso. La religione detta la vita quotidiana e politica dei cittadini iraniani attraverso un controllo oppressivo. L’arrivo nella casa paterna, dunque, costituisce da un lato la conferma che Iman, inizialmente contrario come giudice istruttore a portare avanti le istanze del regime, diventi sempre più un ingranaggio dello stesso, e dall’altro come per Reznav e Sana sia necessario confrontarsi e scontrarsi con la tradizione e l’autorità genitoriale per far sì che il cambiamento venga accettato anche da loro e sperare, quindi, di cambiare le sorti del proprio paese.

Se la parola “coraggioso” è spesso usata impropriamente per parlare di libri e film che non hanno paura di mostrare la realtà, per Il seme del fico sacro è obbligatorio usarla. Mohammad Rasoulof, gli attori che ha diretto e la troupe che lo ha aiutato a realizzare il film hanno rischiato tutto per raccontare un paese stravolto non soltanto da un regime oppressivo, ma anche da grandi movimenti di protesta che non possono più essere contenuti e che chiedono un cambiamento radicale. La famiglia dei protagonisti rappresenta in tutto e per tutto i dissidi dell’Iran: da un lato una tradizione che non accetta che le cose cambino e che vuole imporre i suoi dogmi senza discussione; dall’altro il nuovo che avanza, che chiede libertà e diritti, e che è disposto a tutto pur di farsi ascoltare e accettare.

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