«Possiamo sperare che le macchine saranno alla fine in grado di competere con gli uomini in tutti i campi puramente intellettuali.»¹
Alan Turing
Ha recentemente inaugurato a Milano, nello spazio indipendente Ordet — nato nel 2019 da un’idea dei fondatori Edoardo Bonaspetti e Stefano Cernuschi (ai quali si è poi aggiunta Anna Bergamasco in qualità di project manager) — una mostra unica sotto vari profili. Il titolo siderale, LGUDGN71R23D341C, scelto dal curatore, non fornisce alcun appiglio allo spettatore, se non indicare, in termini del tutto spersonalizzanti, l’identità di un unico individuo: in tal senso, il codice fiscale, per quanto privo di poesia, paradossalmente punta con assoluta precisione a un soggetto, molto più del nome e del cognome che portiamo. Vale particolarmente in questo caso, dove il nome dell’artista, Luigi D’Eugenio, ha generato un certo smarrimento tra gli addetti ai lavori quando è stato annunciato nel programma espositivo di Ordet.
Sì, perché il mondo dell’arte è popolato soprattutto da persone che godono di ottima memoria per i nomi: quelli degli artisti, dei curatori, dei galleristi, dei collezionisti, dei direttori di musei, dei critici, ecc. ecc… Una capacità mnemonica non indifferente che, il più delle volte, non rispecchia l’effettiva conoscenza e approfondimento della poetica e del lavoro dei singoli artisti, ma che è ritenuta indispensabile per muoversi/operare a vari livelli nella rete del sistema dell’arte.
Eppure, di Luigi D’Eugenio, un artista che dovrebbe essere considerato, per la sua età, un po’ più in là della mid-career, non vi è traccia. Accanto a questo nome, però, a restituire immediato conforto a quel popolo dell’arte disorientato, ecco invece comparirne un altro che rappresenta un punto di riferimento: l’artista (qui in veste di curatore) Roberto Cuoghi, classe 1973.
Cuoghi non è solo (almeno per chi scrive) l’artista italiano di gran lunga più interessante della sua generazione, è soprattutto un autore che dopo essersi formato nella Brera degli anni Novanta, seguendo le lezioni di Alberto Garutti ha saputo costruire un linguaggio del tutto autonomo, conferendo alla sua arte un’aura enigmatica e misteriosa e tuttavia lontanissima da quella di De Dominicis e dai suoi epigoni manieristi, capace invece di interrogare il mondo, la materia e la questione fondamentale dell’identità.
Chi ha avuto la possibilità di confrontarsi direttamente con il suo lavoro ne riconosce la costante tensione metamorfica, espressa attraverso una serie di tecniche non convenzionali; utilizzando qualsiasi tipo di medium e materiale Cuoghi ha costantemente compulsato l’arte con un processo ossessivo, cristallizzato in esiti formali che rimandano a immaginari tra laboratorio di uno scienziato matto o a esplorazioni archeologiche e orrorifice da romanzo di Lovecraft. Cuoghi è un artista riconosciuto e rappresentato da alcune delle più importanti gallerie al mondo e dopo aver collezionato una serie di personali in istituzioni fondamentali per la carriera di un artista (memorabile la sua partecipazione al padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2017), continua la sua ricerca con la stessa lucida ossessione che fin da principio ha mosso il suo lavoro, rimanendo una personalità defilata e aliena ai riti più mondani che pur contraddistinguono il sistema dell’arte contemporanea.

È anche su questa asimmetria dunque che si è alimentato un certo interesse verso Luigi D’Eugenio prima ancora che la mostra fosse aperta al pubblico: da un lato un artista stimato e consolidato all’interno di quelle regole dell’Artworld2, dall’altro un autore ammantato da un anonimato che il ‘curatore’ Cuoghi ha presentato tramite un breve ma intrigante testo che qui riporteremo in parte:
«Questa mostra avviene per tacito consenso, senza aver coinvolto l’autore delle opere che ha solo lasciato gli portassimo via quasi trecento dipinti la settimana di Natale. Ma forse non tutti sanno che il risentimento genera valori. Il percorso da fare porta a smettere di darsi speranze. Non avendo scelta il mondo resta chiuso fuori. Da quel momento basta aspettare, certe cose si fanno solo quando è troppo tardi.
Così, a occhio, Luigi D’Eugenio vive e lavora in 25 metri quadrati. Sa di poter uscire, ma gli basta saperlo. Non si avvelena di senso comune e non si disperde. Rinnova sempre la stessa tortura, una pittura a olio premeditata, su stoffe tipo lenzuola a cui satura la trama con una pellicola di plastica idrosolubile che si usa per ricamare. Cura le sue immagini fino a innamorarsene, ne abbassa la definizione per scoprirne il motivo e si fa i colori da solo. Srotola il tessuto dal basso verso l’alto, riproduce l’immagine come prova della sua fedeltà. Un errore è un tradimento. Alla sua età dipinge come un fax. […] Questa è la mostra di uno che non ha un curriculum, che non ha un mercato e che non lo cerca, la mostra di uno che non esiste.»
Fin dalle premesse tale introduzione al mondo di Luigi D’Eugenio appare quasi come un esercizio letterario, un incrocio di generi che spaziano dalla meta-finzione alla Borges e prima ancora a quel filone di narrazioni che dal Balzac de Le Chef-d’œuvre inconnu (1831) giungono a versioni venate di elementi horror e grotteschi come nel film Velvet Buzzsaw (2019) di Dan Gilroy. «La mostra di uno che non esiste» al punto tale che più di una persona ha legittimamente sospettato che tutta l’operazione fosse in realtà una ‘manifestazione’ di Cuoghi stesso, un suo avatar. E invece no: Luigi D’Eugenio esiste, così come esiste il suo codice fiscale e soprattutto così come esistono le sue tele coperte da una pittura che non sembra pittura, con immagini reali che molto probabilmente non hanno più a che fare con il reale.
Le domande attorno all’artista che ha fatto questa scelta radicale di non apparire, di non mostrare la sua complessissima pittura sembra del tutto stridere con le abitudini e le storture della Società della Trasparenza così come intesa da Byung-Chul Han3 nella quale ci troviamo a vivere e osservare i fenomeni, di quella ‘evidenza oscena’4 già denunciata da Baudrillard ne Les stratégies fatales: quale autore oggi nasconderebbe il suo lavoro? Chi, in un mondo iperconnesso, non promuoverebbe la propria arte e la manifestazione di sé potendolo fare. Questo è, evidentemente, un punto fondamentale e insieme rivelatore per poter approcciare con più strumenti il caso di D’Eugenio. Perché, se da un lato sembrerebbe facile per gli operatori dell’arte incasellare la sua figura nelle formule dell’art brut, o nella più generica classificazione dell’Outsider Art, tali categorie solo in minima parte possono restituire il senso del suo fare.

È del tutto irrilevante riportare quello che Roberto Cuoghi e l’artista Oppy De Bernardo sanno e possono testimoniare sulle condizioni psicologiche, sociali, relazionali di D’Eugenio, raccontarle sarebbe pura aneddotica e sposterebbe l’attenzione dalla sua arte che possiamo valutare direttamente andando a incontrare i lavori esposti, la dimensione umana privata che nessuno, a nessun titolo potrebbe invece provare a comprendere giacché è l’artista stesso a non voler esserci e anzi, addirittura a non voler saper nulla di questa mostra.
Ci basti sapere allora che a differenza della maggior parte degli artisti ‘outsider’, D’Eugenio ha avuto un training artistico, dapprima a Como all’Accademia Aldo Galli come restauratore poi a Brera nella seconda metà degli anni Novanta. È lì che Cuoghi e Oppy de Bernardo lo incontrarono, ed lì che i due iniziarono a maturare stima e curiosità verso il lavoro di D’Eugenio che da allora non ha fatto altro che cambiare, attraversando lunghi periodi con stili, forme e formati talvolta difficili da avvicinare, quasi appartenessero ad autori diversi. Per il pubblico è impossibile al momento aver contezza di quelle fasi, valutarne l’evoluzione artistica come si farebbe per qualsiasi autore che ha lasciato traccia del suo lavoro in cataloghi, foto di mostre precedenti e opere raccolte in collezioni. Questo, dicevamo, non è possibile perché dell’intensa produzione di D’Eugenio non ci sono tracce, se non in una documentazione digitale privata e accessibile sostanzialmente a quattro persone, e anche perché tante opere sono state distrutte dall’artista stesso e, perciò, virtualmente tantissimi dei suoi lavori non sono di fatto mai esistiti.
Esiste un unico precedente: si tratta di un lavoro assai diverso dai dipinti in mostra, un bizzarro gruppo scultoreo di cartapesta con figure umane stilizzate come bambole, vestite di nero, impegnate in quello che a prima vista sembrerebbe una marcia funebre. È un’opera che fu esposta nella collettiva del 2013 intitolata Arimortis, ospitata presso la Sala Archivi Ettore e Claudia Gian Ferrari di Milano, curata sempre da Cuoghi insieme a Milovan Farronato, ed è fino a oggi l’unica evidenza ufficiale del lavoro di D’Eugenio prima del 2025. Esiste ancora? Impossibile da dire.
È bene sapere che anche i pochi lavori selezionati da Cuoghi per la mostra da Ordet potevano andare incontro alla stessa sorte iconoclasta: del resto, il dipinto scelto come invito alla mostra è, così come confermato dal curatore, tra quelli andati distrutti.
Di quei ‘trecento dipinti’ che Cuoghi e De Bernardo hanno sottratto temporaneamente all’artista, i nove in mostra rappresentano una selezione che il curatore ha a lungo meditato per restituire l’immaginario di D’Eugenio, offrire, insomma, una finestra su un mondo tutt’altro che semplice e, allo stesso tempo, sinistramente familiare. La pittura di Luigi D’Eugenio è figurativa; da quello che si può intuire, non è un artista che abbia mai assunto posizioni di rinuncia o antagonismo verso la rappresentazione, anzi: si avverte la netta sensazione che tutta la sua vita e la sua arte siano alimentate da una bulimia di immagini e che tale condizione si sia acuita e radicalizzata con l’avvento del digitale, come confermato da Cuoghi sempre nello scarno ‘comunicato stampa’: «Lo conosciamo da trent’anni, per trent’anni ha mescolato le angosce al suo lavoro. È arrivato il web, diventando l’unica finestra su tutto».

Il web come orizzonte totalizzante e azzeratore delle funzioni sociali non è certo una novità: D’Eugenio è uno di quelli che preferiscono restare a casa. L’universo visivo dei sedentari digitali si risolve semplicemente da uno schermo televisivo a quello di un computer che filtra il proprio fantasma e quello degli altri corpi attraverso la videocamera e le tecnologie riproduttive, in un movimento di andata e ritorno; una nuova antropologia che, prima del Covid, solo quelli come D’Eugenio potevano del tutto comprendere, non come un rifugio dai corpi, dalla paranoia della contaminazione, ma come prospettiva di vita tragicamente preferibile a quella degli ‘altri’. In tal senso, l’alienamento domestico può far ricordare la percezione del mondo degli indiani americani Hopi, per i quali, in realtà, non sono le persone a muoversi nello spazio, ma è lo spazio che fluisce attraverso esse: i loro gesti non sarebbero altro che azioni simulate, come camminare, correre, raccogliere oggetti, sdraiarsi e così via.
La realtà, per gli Hopi, secondo Benjamin Lee Whorf, che a lungo ha studiato la percezione di tempo e spazio nella lingua del popolo nativo, «è il regno dell’attesa, del desiderio e dello scopo, della vita che dà energia, delle cause efficienti, del pensiero che si pensa da sé a partire da un regno interiore (il cuore Hopi) verso la manifestazione. Si trova in uno stato dinamico, ma non in uno stato di movimento – non sta avanzando verso di noi da un futuro, bensì è già con noi in forma vitale e mentale, e il suo dinamismo è all’opera nel campo dell’evento o della manifestazione, cioè nell’evolversi senza movimento dal soggettivo, a gradi, fino a un risultato che è l’oggettivo.»5 Per gli Hopi e per i primi alienati elettronici l’esperienza della realtà dev’essere stata “virtuale” molto prima che il bambino prodigio dell’informatica Jaron Lanier coniasse nel 1989 la locuzione ‘virtual realty’, per noi oggi così familiare.

È una realtà serena quella che possiamo scorgere affacciandoci nella finestra di Luigi D’Eugenio? Tutt’altro. Nella sua auto-reclusione domestica, l’artista «che dipinge come un fax» sembra intercettare tutta l’inquietudine della rete e miscelarla con i colori delle proprie angosce.
Il suo mondo di 25 metri quadri – studio, giaciglio, mediateca, videocameretta – è paradossalmente il più fertile dei terreni per chi ha scelto questa strada, dove ricordi, ossessioni radicate nell’infanzia e ripiegamento autoreferenziale si sposano perfettamente con la gratificazione narcisista fornita dalle navigazioni infinite e dall’uso domestico di nuove tecnologie. Non è un caso: osservando la maggior parte delle nove tele in mostra, abbiamo la sensazione, prima che di una dimensione pittorica, di quella di una superficie digitale che restituisce screenshot da webcam, scorci su mondi chiusi a ogni tentativo di localizzazione e, insieme, permeabili a chiunque ne abbia accesso in ogni parte del globo.
Un cervo immortalato di notte da una ‘fototrappola’, una figura umana scomposta e ripresa da una termocamera a infrarossi, della quale forse sarebbe meglio conoscere il destino, e poi corpi vagamente seducenti illuminati dal riverbero di luci freddissime delle webcam. Civilization demands light even at night si legge nella non-didascalia e non-titolo che fa parte di uno di questi dipinti. D’Eugenio ci porta all’interno di un mondo dove la luce non è illuminazione intima, ma è la condanna di un giorno senza buio, dove ogni istante è parcellizzato e offerto al compiacimento voyeuristico, alla commercializzazione radicale delle identità, all’erosione definitiva dell’onirico, così come spiegato in 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno6 di Jonathan Crary.

L’arte di Luigi D’Eugenio non è solo l’effetto combinato di tic, piccole manie o di introspezione paranoide. Ciò che realmente affascina dei suoi lavori, maturati nelle modalità che abbiamo descritto, è l’assoluta contemporaneità e lucidità nell’uso contro-intuitivo della tecnica pittorica. D’Eugenio non è un idiot savant che giunge a un risultato senza un metodo, al contrario: la forma della sua arte è il risultato di una consapevole (sebbene, per chi guarda, incomprensibile) logica. Roberto Cuoghi ha spiegato come l’artista sia stato tra i primi dei suoi conoscenti ad aver manifestato, già molti anni fa, un interesse per le immagini sviluppate da intelligenze artificiali. Molto prima che milioni di utenti iniziassero a pasticciare con i prompt, invadendo la nostra iconosfera di pattume digitale, D’Eugenio familiarizzava con un linguaggio del quale, ancora oggi, grandi artisti riconosciuti e accreditati fanno fatica a padroneggiarne gli esiti.
Sì, perché molte — probabilmente tutte — le immagini che vediamo tradotte in questa pittura, tra il puntinismo e il pixel a olio, sono frutto di elaborazioni di software A.I., in proporzioni e diluizioni che non è dato sapere, ma che l’artista, a un certo punto, ha deciso di sottrarre al flusso delle incalcolabili modulazioni e reificarle nella materia pittorica, con un gesto che le salva dall’oblio al quale sarebbero diversamente consegnate.
Una delle tele più impressionanti in mostra è l’immagine di una stanza illuminata da una morbosa luce verde. Sarebbe troppo complesso descriverla in tutti i suoi dettagli, ma ai lettori basta sapere, prima di vederla, che in quel luogo (al cui confronto la lynchiana Black Lodge sembra un ufficio postale di periferia) sembrano convergere tutti gli immaginari liminari delle sottoculture del deep web, manifestati in un gruppo di figure antropomorfe riunite in una strana e violenta forma di cabbala. Un’immagine che si può definire, senza esitazioni, “grottesca”. Il grottesco nell’arte (come in quella di Cuoghi) minaccia sempre le fondamenta dell’esistenza attraverso la sovversione dell’ordine e l’inversione traditrice del familiare e dell’ostile. Il suo valore deriva dalle deviazioni delle relazioni umane e degli atti umani, e dunque dall’uomo, dalle sue debolezze e attrazioni irresistibili.
È un mezzo diretto e potente per esporre l’uomo a se stesso e agli altri: è in questa opera delirante che, in purezza, a mio avviso, si rivela Luigi D’Eugenio. In basso, al centro dell’opera, troviamo poi un ulteriore indizio; come per l’altro quadro con la figura femminile di spalle, anche qui compare un “titolo”: many worlds interpretation. L’“interpretazione a molti mondi” è una teoria della meccanica quantistica espressa nel 1957 dal fisico Hugh Everett III, il quale affermò che ogni volta che avviene un evento quantistico con più possibili risultati, l’universo si divide in tanti rami quanti sono i possibili esiti e ogni esito si realizza in un proprio universo parallelo. È qualcosa alla quale la fantascienza (e non solo) più recente ci sta ampiamente abituando, e che in sostanza propone una rivisitazione del concetto di realtà: il “nostro” mondo non è l’unico reale. La realtà sarebbe un multiverso fatto di tutti i possibili stati quantistici.

Nel suo brillante saggio intitolato Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia (Castelvecchi, 1998), il filosofo Mario Costa anticipava ciò che non solo attraverso l’arte di D’Eugenio, ma anche solo passando minuti o ore su DALL·E o Midjourney chiunque può sperimentare. Nel breve volume, Costa avvertiva «una nuova specie di ebbrezza che dal moderno, meccanico ed elettrico, avrebbe portato al post-moderno, elettronico e sintetico, e alla inedita vertigine del “sublime tecnologico”.»7 Con la tecnica, in altri termini, sembra venir meno la possibilità stessa del sublime che si produce solo quando «la nostra natura fisica sente i propri limiti, nello stesso tempo in cui la nostra natura ragionevole sente la propria superiorità» (F. Schiller, Sul sublime, 1793). Ma, evidentemente, questo nuovo tipo di ‘terrificante’ può generare una nuova forma del sublime. Sempre Costa notava:
«Il passaggio dalle tecniche alle tecnologie nella produzione artistica costituisce una vera e propria mutazione. Le immagini, le parole, il movimento, i suoni vengono tecnologicamente prodotti e tecnologicamente conservati e riattivati. Tutto questo viene sottratto al corpo, cessa di essere un risultato delle sue operazioni. Col passaggio dalla tecnica, come prolungamento del corpo, alla tecnologia, come sue funzioni separate, l’artista viene posto di fronte a uno spossessamento del corpo proprio come strumento dell’arte, e l’arte modifica profondamente la sua essenza.»8
Alla luce di tali considerazioni, possiamo forse riflettere meno superficialmente sulla meraviglia del “caso-D’Eugenio” e accostarci con altri paradigmi all’arte di un autore che non vuole apparire. Se nell’epoca moderna i miti dominanti sono stati il razionalismo, il valore dell’individuo e la superiorità della tecnologia, ecco che nel nostro presente tali miti si stanno disgregando, perdendo costantemente validità di fronte a spinte incalcolabili e incontrollabili, sublimi: tra A.I., antropocene e uno stato di guerra permanente, dove l’unica forma di trasgressione e pornografia possibile è rappresentata dal potere militare che opera con strumenti come il controllo di massa. Tutte testimonianze eloquenti della necessità di mettere in discussione la giustificazione dell’esistenza umana, e prove schiaccianti contro il mito della razionalità: il rifiuto della ragione, dei suoi benefici, delle sue protezioni e istituzioni. L’immersione nel subconscio e nei suoi frutti – paura, passione, perversione – che spesso suscitano un forte interesse per sesso e violenza, e non di rado una loro fusione.
Lo scontro di elementi opposti: l’ossessione per i contrasti che costringono alla coesistenza tra il bello e il ripugnante, il sublime e il volgare, l’umorismo e l’orrore, l’organico e il meccanico. Basta guardare il ritratto in bianco e nero di una bambina (?) con più attenzione di quella che solitamente accompagna le nostre visite distratte nelle gallerie, per comprendere che nell’arte di D’Eugenio collidono tutti quegli estremi sopra elencati. Sempre Mario Costa:
«È mia opinione che le attuali tecnologie numeriche ed elettroniche delle forme e degli eventi costituiscano la condizione per un oltrepassamento delle categorie ormai obsolete dell’artistico e aprano la nuova epoca estetica del sublime tecnologico; è ancora mia opinione che gli artisti debbano oggi non tanto lavorare alla messa in scena della loro soggettività, quanto al disvelamento di questa nuova e straordinaria età del “piacere della contemplazione ragionante”, espressione che è uno dei modi nei quali Kant definisce il sublime.»
Di quel disvelamento e desoggettivizzazione non conosciamo tanti esempi nell’arte oltre a quello di Luigi D’Eugenio.
In copertina e nell’articolo:
Courtesy Luigi D’Eugenio and Ordet, Milan / Photo: Nicola Gnesi
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1. Turing, A.M., Macchine calcolatrici e intelligenza, in La filosofia degli automi, Torino, Boringhieri, 1965, p.155
2. Danto, A., The Artworld (1964), in A. NEILL e A. RIDLEY (a cura di), The
Philosophy of Art: Readings Ancient and Modern, McGraw-Hill, New York
1995, P. 205.
3. Han, B.-C., Società della Trasparenza, Milano, Nottetempo, 2014
4. Baudrillard, J., Les stratégies fatales, Paris, Grasset, 1983
5. Benjamin, L.W., Language Thought & Reality, MIT Press, Cambridge -Massachusetts-, 1956, pp. 60-61
6. Krary, J., 24/7. Il capitalismo all’assalto del sonno, Torino, Einaudi, 2015
7. Costa, M., Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, 1998, p.33
8. Costa M., Il sublime tecnologico. Piccolo trattato di estetica della tecnologia, Castelvecchi, Roma, 1998, pp 69-70
9. Ibidem