Premio Lattes Grinzane

L’intervista che si fa romanzo. Una conversazione con Eshkol Nevo

In seguito alla conclusione della decima edizione del Premio Lattes Grinzane, riconoscimento internazionale organizzato dalla Fondazione Bottari Lattes , che la redazione di Limina ha raccontato da vicino, incontriamo i tre finalisti internazionali del premio: Eshkol Nevo, Elif Shafak e Daniel Kehlmann.
Il primo incontro è con lo scrittore israeliano Eshkol Nevo con il suo libro L’ultima intervista (Neri Pozza, traduzione di Raffella Scardi).

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Questo libro sembra un’autobiografia spacciata per romanzo. Lo ha voluto scrivere così?
L’ultima intervista nasce come un tentativo, un gioco con me stesso: cercavo uno stile che mi permettesse di dare risposte oneste, anche crude, a qualsiasi domanda, anche quelle più brutali. Quindi, è sicuramente molto autobiografico. Tuttavia, dopo 3-4 mesi di scrittura mi sono fermato, ho guardato il testo e ho capito che avevo tra le mani un romanzo, con la sua trama, i personaggi, eccetera. Per cui mi sono gradualmente allontanato dal genere autobiografico per arrivare a quello romanzesco: nel libro si trova lo stesso mix di biografia e di fiction degli altri miei libri (come Tre piani o La simmetria dei desideri). E credo che la letteratura consista esattamente in questo mix di invenzione e vita vera.

Il libro ha molti risvolti targicomici. Per esempio, il protagonista – uno scrittore – racconta dell’effetto straniante di quando, invitato all’estero, si trova ospite di eventi che sembrano pilotati: i giornalisti che lo incontrano sembrano infatti stranamente simili ai responsabili degli uffici stampa dell’editore che lo invita. Oggi che ci vede qui con le mascherine, giudica questa esperienza straniante? Come la elaborerà?Quella parte del libro è abbastanza comica: al mio protagonista capitano infatti questi strani viaggi promozionali in cui incontra giornalisti che, oltre che identici ai membri degli uffici stampa degli editori che lo invitano, scrivono per testate dai nomi assurdi. Insomma, un piccolo sospetto che si tratti di una farsa gli viene… Invece non trovo somiglianze tra voi e i membri di Neri Pozza, quindi penso che non siate parenti di Daniela Pagani, la responsabile dell’ufficio stampa dell’editore. Scherzi a parte, per l’Italia nutro un sentimento opposto di quello che descrivo: si tratta di un legame forte, che ho sviluppato negli ultimi 5-6 anni. Penso che l’Italia sia la mia seconda patria letteraria: in Italia sento la passione dei lettori e di chi viene alle mie presentazioni, così attenti da ricordarmi cose che ho scritto ma che io stesso avevo dimenticato. Sento una forte connessione tra i miei libri e l’Italia e penso sia un sentimento autentico e ricambiato. Proprio per questo voi giornalisti mi sembrate persone reali, interessate davvero ai miei libri, anche se devo ammettere che a volte quando viaggi in Paesi diversi dal tuo ti senti straniato: perdi il senso della tua identità poiché non ti senti accettato dai lettori. Ma a causa del Covid non viaggio da febbraio e mi manca persino questo senso di spaesamento, di non essere nessuno, di viaggiare, di ritrovarmi negli altri. Mi manca poter andare a caccia di storie e mi manca l’Italia (e il Salone del libro di Torino, in particolare): ottobre è il mio mese preferito per visitare l’Italia e spero di tornarci l’anno prossimo.

Nei suoi libri ci sono tre temi archetipici: l’amore, la solitudine e il desiderio; cosa li lega?
Ogni volta che qualcuno descrive o analizza i miei libri trovandoci temi ricorrenti mi sento confuso: per me ogni libro è una nuova avventura e penso che anche L’ultima intervista sia qualcosa di nuovo, anche se ammetto che questi tre temi siano presenti (con l’aggiunta della morte, dal momento che il migliore amico del protagonista ha una malattia terminale). Come dicevo, in ogni libro provo sempre a trovare nuove prospettive e fare qualcosa fuori dalla mia confort zone: qui si tratta del format dell’intervista che si fa romanzo, molto rischioso, e dell’altissimo livello di onestà, che penso di non avere mai raggiunto prima (infatti, mentre scrivevo sentivo il mio cuore pompare fortissimo per il timore di espormi troppo). Senza nuove prospettive, un libro non sarebbe interessante per me e nemmeno per i lettori.

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Il suo protagonista nel libro afferma: «Se le persone come te continueranno a tenersi in disparte, non avrete più un Paese da cui tenervi in disparte». Come fa per non rimanere in disparte, in quanto scrittore, quando si tratta di tematiche politiche delicate per il suo Paese?
Vi sto parlando da casa mia e qui con me il mio kit da manifestante perché da nove settimane io e moltissimi isrealiani stiamo protestando contro il nostro primo ministro Nethanyahu, per la democrazia e il rispetto del sistema giudiziario. Penso che siano le manifestazioni più partecipate della storia di Israele: 100mila persone protestavano la settimana scorsa e, poiché a causa del Covid è vietato manifestare fuori dal proprio quartiere, ci sono manifestanti a ogni incrocio, con la bandiera di Israele e una bandiera nera, simbolo della minaccia alla democrazia israeliana. Se un primo ministro viene accusato di corruzione, a mio parere non dovrebbe svolgere legalmente il suo incarico. Come scrittore uso la mia arma più potente: le parole. Scrivo articoli, partecipo a petizioni di artisti e scrittori. Amo molto il mio Paese e essere coinvolto politicamente è qualcosa che, crescendo, ho imparato a capire che dovevo fare: se voglio che le mie figlie siano orgogliose del loro Paese, devo essere coinvolto politicamente. Anche domani marcerò nelle strade della mia città per protestare. Non è tanto la contrapposizione destra/sinistra o Israele/Palestina il tema caldo oggi in Israele, ma la corruzione del primo ministro.

Pensa di avere un lato oscuro? E, soprattutto: pensa che averlo sia importante per la sua scrittura?
Questa è davvero una bella domanda, che non mi hanno mai fatto prima: magari la inserirò ne L’ultima intervista parte 2 perché è il tipo di domanda che ti fa scrivere una storia. Non penso di avere un lato oscuro, ma sicuramente ho avuto un lato triste: mi ricordo che quando ero giovane, intorno ai 20 anni, ero consumato da una sorta di nostalgia e infelicità, che mi portava a ruminare nel passato invece di vivere nel presente. Chi mi avesse conosciuto all’epoca avrebbe pensato che ero un tipo molto melanconico. Quando ho iniziato a scrivere, ho capito che potevo togliermi di dosso questo senso di malinconia e metterlo addosso ai miei personaggi, ed è stato veramente liberatorio. Non ho risolto completamente i miei problemi, ma penso che scrivere sia un modo per dare un senso a questa sensazione. Oltre che liberatorio è importante: possiamo mettere nei personaggi i rimpianti o le amarezze della nostra vita, che sono sentimenti in cui il lettore si identifica e, vedendo il lato oscuro di qualcun altro, capisce che il suo è meno pesante da sopportare. Entrambi, scrittore e lettore, possono trovare liberazione e sollievo.

L’episodio di Marcus Rosner è una metafora o un’allegoria della relazione tra lei in quanto ebreo e la Shoah?
Quella di Marcus Rosner è una delle storie più comiche del libro, che amo leggere ai miei reading. Nel libro racconto di quando il presidente della comunità ebraica di una città tedesca consegna con reverenza al protagonista la biografia di Rosner, un sopravvissuto alla Shoah: un libro dalla mole (fisica ma probabilmente anche di contenuto) così ingombrante che il protagonista, in una serie di lapsus freudiani, dimentica ovunque. Credo che noi scrittori non dovremmo mai decifrare le metafore dei nostri libri, ma per rispondere alla domanda penso che in questo caso non si tratti solo di Olocausto ma del rapporto tra essere israeliani e essere ebrei. Quando cresci come israeliano, non pensi che essere ebreo sia la tua prima identità: sei un nuovo ebreo, non più legato alla Shoah. Ma crescendo, e incontrando ebrei nel mondo, realizzi quanto ebreo sei. E questo è quanto accade al protagonista del libro, che cerca di scappare dalla sua identità di ebreo ma questa torna sempre.   

Come ha scoperto Italo Calvino?
La letteratura italiana è molto popolare in Israele per una certa similarità tra le nostre anime: gli scrittori italiani sono infatti parte della nostra dieta letteraria. Per quanto riguarda Calvino, stavo viaggiando zaino in spalla in Sud America e di solito, durante questo tipo di viaggi, tra viaggiatori ci si scambiano libri. Un ragazzo israeliano mi diede le Città invisibili di Calvino. Ho iniziato a leggerlo e ho pensato che non avevo mai letto qualcosa di simile prima e che questo libro andava letto lentamente. Così, sono rimasto due giorni nell’ostello a leggere, obbligando l’amico che era con me – e che voleva partire – ad aspettarmi. Quando leggi le Città invisibili vorresti inventare la tua città invisibile: mi ci sono voluti 25 anni per inventare la mia, Rondovia, nel mio libro Vocabolario dei desideri. Ci tenevo a omaggiare Calvino: leggerlo è liberatorio, amava giocare e quando lo si legge si avverte questo senso di gioco che è fonte di grande ispirazione.

Ne L’ultima intervista il più grande problema del protagonista è la dipendenza dalle storie. Questa gli rovina la vita, ma raccontare storie è anche una prerogativa umana. Il suo romanzo riafferma la necessità del racconto anche quando va a discapito della nostra integrità
L’ultima intervista è ambivalente nei confronti delle storie. Da un lato, il protagonista ne è così ossessionato che non riesce più a dire la verità nemmeno ai suoi cari: anche a loro deve vendere storie, usarli per inventare e raccontare storie. Quindi, da un lato c’è il rischio insito nel raccontare storie. Ma dall’altro lato il libro è pieno di storie: raccontarle provoca una grande gioia al protagonista, che infatti non si limita a rispondere alle domande dell’intervista ma racconta sempre nuove storie. Questo lavoro mi è servito per trovare un modo di scrivere che fosse autentico e onesto: il format della finta intervista mi ha fatto tornare all’ingenuità che avevo all’inizio del mio mestiere, quando mi interessava solo scrivere, e ritrovare il senso della scrittura. L’ambivalenza del libro riguarda ogni scrittore: le storie possono imprigionare ma, allo stesso tempo, dare gioia e senso di liberazione.

Il protagonista non sa affrontare la solitudine. In questo periodo di lockdown, gli scrittori si sono trovati già allenati alla solitudine?
No, al contario: io sono il tipo di scrittore che ama la gente, incontrarla, viaggiare, vedere i miei amici o i miei genitori, non come alcuni dei miei colleghi, che sono misantropi e amano nascondersi nei loro libri. Non sono allenato alla solitudine, il lockdown è stato molto duro. In questo momento dovremmo trovare un modo per empatizzare, condividere sentimenti, mostrare e provare calore umano anche se non possiamo abbracciarci fisicamente e ci possiamo vedere solo attraverso uno schermo. Durante il lockdown ho cercato di essere il più comunicativo possibile, per esempio con i miei studenti di scrittura creativa; non credo purtroppo di avere strumenti migliori di altri per affrontare questo momento. Dal punto di vista letterario, devo dire che è stato un periodo molto produttivo per me: ho scritto davvero tanto (tra cui una storia per La Lettura), avevo la mente davvero concentrata sul mio lavoro. Ma, nonostante questo, mi sento come un fiore a cui manca l’acqua: i miei amici, la musica, l’arte, tutto quello di cui, come esseri umani, abbiamo bisogno. Spero davvero di incontrare le persone dal vivo: oggi avrei voluto incontrare voi di persona e condividere il vino e i tartufi di questa zona d’Italia, ma dobbiamo resistere.

Potrebbe spiegarci cosa intendeva dire quando ha dichiarato di concepire la scrittura come un’indagine? Se si tratta di un’indagine dovrebbe avere come fine la verità: cos’è la verità per lei?
Userei, per rispondere, l’esempio del mio libro Tre piani. Quando lo scrissi, non sapevo esattamente di cosa trattava: sapevo solo che volevo scriverlo, ero totalmente catturato dalla storia, tutto qui. Dopo pochi mesi dalla pubblicazione, uscì una recensione intitolata «Il libro che parla del lato oscuro dell’essere genitore». Solo leggendola realizzai che era proprio quello che avevo scritto, ma se ne fossi stato conscio al momento della scrittura probabilmente sarei stato troppo spaventato da un simile argomento, dal momento che anch’io sono un genitore che cerca di sopravvivere alla genitorialità. In sostanza, ho scoperto l’esistenza di un lato oscuro di questa tematica e ammetterlo è stato sicuramente liberatorio. Probabilmente, questa è la mia risposta alla domanda riguardante la scrittura come indagine.

Il regista Nanni Moretti sta realizzando una trasposizione cinematografica di Tre piani. Le ha dato qualche anticipazione?
Quando Moretti ha letto il mio libro, forse pensava che parlasse di altro: pensava che fosse una storia sulla vita di coppia o altro, non so, quindi chissà quali suggerimenti mi darà la sua resa cinematografica del mio libro. Appena un libro esce, diventa l’indagine del lettore: e questo è estremamente affascinante. Sono onorato che Nanni Moretti abbia scelto il mio libro: amo i suoi lavori e non vedo l’ora di vedere il film che realizzerà a partire dal mio libro, magari proprio in un cinema italiano il prossimo inverno o la prossima primavera.

Concludo con un’ultima battuta, a proposito di interviste. Grazie per questa chiacchierata, che è stata davvero una strana esperienza: io vi vedo, ma voi non mi potete vedere. Penso di scriverne nel mio prossimo libro.