Oltre la Soglia

Una donna, un’autrice, una guerriera. I 100 anni di Franca Valeri

Attrice di teatro, cinema e televisione, ma anche una scrittrice di talento. Domani compirà 100 anni Franca Valeri, voce inconfondibile di un’Italia in cambiamento dagli anni Cinquanta, autrice e attrice all’interno di un Paese improvvisamente urbano, industriale, borghese, imbottito di cinema americano e di neologismi.
In questo contesto, Valeri ha saputo creare i suoi personaggi utilizzando un’espressività linguistica e una ricerca stilistica che la annoverano di diritto tra i grandi autori del teatro. Una ricerca letteraria che oggi viene raccolta dal volume Tutte le commedie, edito da La Tartaruga, un sunto della sua carriera da leggere nei giorni dell’importante traguardo dei cent’anni.
Per l’occasione, vi proponiamo l’appassionata prefazione firmata da Lella Costa.

***

Mi ritrovo nella felicissima condizione del sentirmi, anzi, proprio dell’essere beatamente superflua.
Nel senso che tutto quello che c’era da dire e chiosare rispetto a questa mai abbastanza agognata antologia del teatro di Franca Valeri l’ha detto e chiosato Patrizia Zappa Mulas, con vera cura, assoluta competenza e rigorosa passione nella Postfazione.
E comunque, come si dice, i testi parlano da soli, e anche solo a leggerli la voce che si sente è quella, inconfondibile, dell’Autrice.
Ergo, io non ho alcun ruolo, compito e men che meno responsabilità: sono, e sono stata autorizzata a essere, totalmente libera di scrivere quello che mi pare.
E siccome io la Franca (sì, con l’articolo, alla milanese) semplicemente la venero, mi sono messa d’impegno per trovare un titolo sufficientemente adeguato, e alla fine avrei scelto questo: LE DONNE, I CAVALIER, L’ARME, GLI AMORI, LE CORTESIE, LE AUDACI IMPRESE.
Classico, poetico, sommo, musicale, e soprattutto pertinente.

Le donne, certo, che lei di donne ne ha raccontate, tratteggiate, canzonate, evocate, inventate tante, al punto che alcune di loro sono diventate delle specie di archetipi: infatti ancora oggi usiamo la Cesira, o la Cecioni, per indicare in modo sintetico e impeccabile (e implacabile, anche, spesso) delle precise tipologie femminili che conosciamo e riconosciamo.
Ma anche la donna, femminile e singolare, quella che lei è stata e continua a essere, mai banale, mai riducibile a schieramenti o militanze, mai tentata da adesioni formali a movimenti e battaglie che l’avrebbero – forse – costretta a rinunciare alla sua insopprimibile allergia per ogni forma di retorica.
Gli slogan non si addicono a un’intelligenza come la sua.
E quindi ha ragione lei quando sostiene che la cosiddetta comicità femminile è un’«invenzione balorda», che esistono solo i bravi comici e i cattivi comici, e che il sesso non c’entra.
Io magari, insieme ad altre colleghe, non sono d’accordo fino in fondo, perché in realtà credo che le differenze (di vita, cultura, opportunità, e sì, anche «di genere») abbiano avuto e continuino ad avere un certo peso, e che la comicità assoluta sia un traguardo ancora da raggiungere.
Ma se penso alle tante testimonianze di libertà e dignità che lei, la Franca, ci ha dato, alla sua capacità di prendere posizione rispetto a questioni assai controverse, alla sua partecipazione attenta e curiosa a esperienze decisamente insolite (una per tutte, l’occupazione dell’ex Cinema Palazzo, a San Lorenzo, nel 2011), sono convinta che il suo contributo alle cosiddette cause delle donne sia stato, nella sostanza, assai prezioso.

Franca Valeri
Franca Valeri in Questa qui, quello là (1964), regia di Vittorio Caprioli.

I cavalier, ma proprio scritto così, senza desinenza.
Per due motivi.
Uno è che Cavalier (per esteso, Cavalier King Charles) è il nome della nobile razza a cui appartengono alcuni tra i cani più amati della Nostra (la dinastia dei Roro, per esempio).
Alcuni, appunto, non gli unici: il suo profondo, autentico affetto per le creature in questione l’ha portata ad accoglierne in casa una quantità imprecisata ma decisamente cospicua, e infine ad aprire addirittura un canile (insieme a Stefania, figlia incontrata e scelta da grande e sua complice insostituibile).
L’altro è che, nel 2011, la Nostra è stata insignita del titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana. Una cosa bella, decisamente, ma anche sacrosanta e forse persino doverosa, no? Come peraltro il David di Donatello alla carriera che ha ricevuto nel maggio scorso («Che lusso!» ha commentato lei, e in quelle due paroline apparentemente innocue c’è tutto il suo understatement milanese, tutta la sua ironia sorvegliata e affettuosa, e soprattutto tutta la maestria di chi i tempi comici li governa senza sforzo alcuno).
E dunque non me ne vogliano le compagne di tante battaglie a favore della desinenza in -a (con buona pace di Carlo Dossi) se mi ritrovo ad affermare con decisione che la signora Valeri è, appunto, Cavaliere, o meglio ancora Cavalièr, con l’accento sull’ultima sillaba, a metà tra Ariosto e Goldoni e con una strizzata d’occhio a tutti i Roro della sua vita; ma Cavaliera proprio no, non se ne parla.
Sarà che a me (e forse anche a lei) viene subito in mente il povero scornacchiato Masetto (Don Giovanni, atto primo, scena ottava) che nella sua gelosa e goffa impotenza se ne esce di scena cantando «Faccia il nostro cavaliere cavaliera ancora te», fatto sta che Cavaliera non si può proprio sentire. Non senza ridere, comunque.

L’arme
Incruente ma potentissime, precise, implacabili; talvolta celate dietro schermaglie apparentemente soavi e marivaudages sublimi quanto efferati; efficaci, irresistibili, addirittura ipnotiche: dire che le armi di Franca Valeri sono le parole rischia di essere un’atroce banalità, me ne rendo conto.
Però è vero.
E come accade ai grandi condottieri, e a volte anche alle pulzelle francofone, coraggiose e un filo incoscienti, quelle armi hanno conquistato territori fino a quel momento inesplorati, almeno dalle donne.
Prima di Franca sono certo esistite altre attrici comiche, o brillanti (perlopiù caratteriste, ma insomma qualcuna ce n’era): ma nessuna era mai riuscita a essere anche autrice e regista, oltre che interprete.
La rivoluzione (che non sarà un pranzo di gala ma può essere una commedia, o meglio ancora una tragedia da ridere) lei l’ha fatta senza proclami, senza bollettini di guerra, senza spargimenti di sangue o di detersivo (questa è di De André, ma ci sta bene, no?): l’ha fatta dando voce e corpo a quelle parole contundenti, usando qualunque mezzo, dalla radio al cosiddetto cabaret, dalla televisione al cinema, dal teatro all’opera lirica. L’ha fatta col sorriso appena accennato, con la vertigine della comicità più pura, con la sapienza delle trame, con la pietas travestita da ironia.
Se non è una guerriera lei, non ne conosco nessuna.

Franca Valeri
Le catacombe – Teatro Valle, Roma (1962).

Gli amori
E non intendo quelli tradizionalmente intesi, più o meno romantici, più o meno orfici o dionisiaci o cavallereschi o idealizzati o carnali o spirituali o dituttounpo’ (i migliori, spesso).
Non intendo mariti ufficiali e amanti clandestini (gli aggettivi sono intercambiabili), intese platoniche e passioni travolgenti (come sopra): che nella vita della Nostra ci sono sicuramente stati, e dei quali lei ha ritenuto di doverci raccontare solo ed esclusivamente quello che riteneva interessante, o condivisibile, o inevitabile (bugiarda no, reticente…).
No, vorrei rispettosamente azzardare un altro punto di vista, un’altra versione dei fatti: che in realtà uno dei Veri Grandi Amori (non l’unico, ovviamente) della signora Valeri sia stato, e tuttora sia, il suo pubblico. Soprattutto quello del teatro, che – e di questo sono sicura, per osmosi – è quello che le manca di più.
A corroborare questa mia affermazione, oltre a quello che ha più volte dichiarato lei stessa sia pure con la consueta sobrietà, posso citare un episodio preciso.
Nel 2010 il CESVI, ong bergamasca che si occupa di cooperazione e sviluppo e di cui sono da sempre convinta sostenitrice, decide di dedicare l’annuale edizione del Premio Takunda alle donne. Vengono invitate personalità di rilievo da tutto il mondo femminile, a me viene chiesto di guidare in qualche modo la serata, e soprattutto si decide che l’ospite d’onore, quella che non poteva mancare perché avrebbe dato senso, dignità e grazia all’evento, debba assolutamente essere lei, anzi, Lei: la Franca. La quale, generosamente, accetta. E arriva puntualissima, nel pomeriggio, accompagnata da un autista ma sola, senza agenti o chaperon, minuta ed elegantissima come sempre. Io la accolgo al meglio delle mie capacità (la venerazione spesso si accompagna al timore reverenziale, e a volte ne fanno le spese disinvoltura e proprietà di linguaggio) e la accompagno in camerino.
Perché eravamo in un teatro, e che teatro: il meraviglioso Donizetti di Bergamo (chi lo conosce già sa cosa intendo, e chi non lo conosce faccia il favore di cercarselo su google che facciamo prima).
Fino al momento di entrare in scena sto con lei, mi assicuro che abbia tutto quello che le serve, e mi preoccupo un po’ perché la vedo fragile, esitante; mi chiedo se l’intervista, o meglio la chiacchierata a cui la costringerò non rischi di stancarla o infastidirla, mi riprometto di essere attentissima e protettiva, e prima di raggiungere il palcoscenico (lei in quanto ospite d’onore era prevista più o meno a metà della scaletta) la affido a una fanciulla (le chiamano hostess, mai capito perché) a cui intimo di non lasciarla un istante e di accompagnarla fino al centro del palco.
Arriva il momento, io palesemente emozionata la annuncio, e trepidante mi volto verso le quinte, pronta a lanciarmi in suo soccorso in caso di necessità.
Lei si avvicina a piccoli passi, al braccio della suddetta fanciulla, fino al limitare del palco; poi, un istante prima di entrarci, e dunque di diventare visibile dalla platea, la allontana con un gesto imperioso, assume la postura da regina che le è naturale e fa il suo ingresso trionfale col passo di una trentenne, ma di quelle sportive.
Il pubblico, ovviamente, la acclama.
Facciamo la nostra chiacchierata, lei è perfetta, non sbaglia un tempo o un modo (e non sto parlando di verbi), arriviamo alla fine, ci alziamo, anche il pubblico è in piedi e applaude entusiasta. Con vero terrore la vedo avviarsi non verso le quinte e i camerini ma verso la scala che dal centro del palco porta in platea (scala talmente instabile e pericolosa che se appena possono gli attori la evitano con cura, a meno che non siano imbragati). Con la coda dell’occhio vedo la fanciulla preposta alla sicurezza che si avvicina dalla quinta di sinistra, ma evidentemente la vede anche Franca, che infatti la blocca con un gesto inequivocabile e persino più imperioso del precedente.
Poi, sorridendo e salutando esattamente come la regina, o meglio l’imperatrice che continua a essere, affronta con totale nonchalance la scaletta, scende un gradino dopo l’altro senza neanche degnarli di uno sguardo, e si concede magnanima all’abbraccio del suo pubblico, che è letteralmente in delirio.
Ecco, cose così si fanno solo per amore.

Franca Valeri
Le catacombe (1962), regia di Vittorio Caprioli, con Angela Pagano, Maria Grazia Francia, Aldo Giuffré, Elsa Vazzoler, Paola Quattrini, Nora Ricci, Ennio Groggia.

Le cortesie
«Cortesia, sostantivo femminile.
1. Compitezza di modi, rispettoso e garbato comportamento nei rapporti col prossimo.
2. Arcaico o letterario. Il complesso di requisiti che rendevano idonei alla vita di corte e ne costituivano il carattere essenziale: si compendiava nelle virtù della gentilezza e della generosità, ed era uno degli elementi fondamentali dell’educazione cavalleresca.»

Come volevasi dimostrare.

Le audaci imprese
Non avere avuto paura di riconoscere una vocazione tanto insolita quanto in contrasto con la famiglia, l’ambiente sociale, la formazione culturale da cui proveniva.
Non avere avuto paura di cambiare radicalmente la propria vita.
Essere riuscita a lasciare la città che amava e a innamorarsi anche di un’altra città, che soprattutto allora appariva come un mondo a parte, misterioso e anche un filo pericoloso.
Essere riuscita ad appartenere a entrambe, e a farsi amare da entrambe.
Non avere mai rinnegato le proprie origini, sociali e culturali.
Non essersi mai vergognata di avere studiato, e tanto, e bene. Di parlare un italiano perfetto, e di averlo saputo tradurre, a volte semplificare, senza mai tradirlo. Di parlare addirittura altre lingue, talmente bene da poterci recitare.
Avere fatto dell’ironia la cifra prediletta, l’arma preferita, la sintesi del suo punto di vista sul mondo.
Essere stata autenticamente aristocratica, autoironicamente snob, acutamente intelligente, prodigiosamente teatrale.
Avere sistematicamente preso in giro gli aristocratici, gli snob, gli intellettuali e i teatranti.
Essere riuscita a intercettare gli umori e i gusti di molti tipi di pubblico, e averli incantati e divertiti tutti senza compiacerne nessuno.
Essere stata nazionalpopolare pur frequentando l’avanguardia, e trasversale quando era un aggettivo che si usava solo in toponomastica. Avere saputo recitare da sola o con altri, sempre con risultati straordinari. Avere saputo scrivere per se stessa e per gli altri, sempre con risultati straordinari.
Essere stata eclettica senza farlo pesare, autorevole senza farsi detestare, divertente senza farsi pregare.
Avere aborrito e bandito ogni forma di retorica.
Avere sempre rivendicato autonomia di pensiero e di giudizio, e preso posizione per convinzione, mai per appartenenza.
Aver saputo padroneggiare una partitura musicale esattamente come un copione teatrale.
Avere amato il pubblico senza riserve.
E avere realizzato tutto questo col suo modo inconfondibile di essere donna: a volte da vera pioniera, spesso in solitudine, sempre con la grazia inarrivabile di un talento unico di cui noi – happy few – non saremo mai abbastanza grati.

(E comunque, finalmente so cosa rispondere ai molesti intervistatori che ciclicamente vogliono sapere quale libro – ma rigorosamente uno solo, eh, mi raccomando – mi porterei su un’isola deserta: questo qui, precisamente.)