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Trash o son desto? Dichiararsi senza pretese possedendole tutte



Durante alcune conversazioni con Aurelio Pes, saggista e pensatore esorbitante, che si svolgevano a casa sua alcuni anni fa tra languori decadenti, numeri introvabili di Franco Maria Ricci, un Praz e un catalogo di Beardsley o Guido Reni, quest’uomo affascinante descriveva la sua eccitante idea sul rapporto tra «i frustrati estetici e la Bellezza», dicendomi: «è difficile avere buon (bel) gusto, trovare il Bello, identificarlo, saperlo valorizzare, impiegarlo in qualche modo sublime, farselo brillare addosso, più o meno intellettualmente o edonisticamente… è una delle cose inconsciamente più ambite, persino da chi dispone di mezzi elementari, voglio dire persino dai peracottai o dai “votacessi”, nel loro piccolo, quando sognano un diamante. E in genere, chi non possiede questo gusto, che poi ovviamente è una specie di chiave del tesoro, ha un risentimento naturale verso chi invece ne ha. Il cattivo gusto è qualcosa che mi suona come una specie di inafferrabile narcisismo del sottoproletariato».

Secondo questa visione, imputabile di snobismo, il piacere che nasce in queste anime risentite è lo sfregio a mo’ di chiazza di sugo, rivendicando uno spazio per il brutto e lo squallore, ergendo un trespolo apposito e avviando una cerchia di compari per sfogare l’esclusione subìta. Questa cosa a primo sguardo somiglia a un meccanico teppismo di periferia degradata, quindi né crudelmente sofisticato (Arancia Meccanica?), né a pretesa rivoluzionaria (black bloc?). Il produttore di trash e il cliente hanno in comune qualcosa? Il gusto bullo per la violenza gratuita dello sfregiatore di statue, che egli sfascia proprio perché sa che sono belle e lui invece probabilmente no. Un fruitore di trash “istruito” e avveduto, perché c’è anche lui ovviamente, sa benissimo che esiste un qualche tipo di beltà. Ma c’è pure la «soddisfazione dello sputo» (altro che il trash all’antica, fra scenette New Dada, arti popolari, sfottimenti della pubblicità sovietica…), forse in lui più bramoso che quello dei piaceri verso il bello. Un bello che forse percepisce ancora più distante e inaccessibile, ostile, rispetto ai “rifiuti” da cui pure ha fatto molto per distaccarsi, ma che certamente non sottolineano i suoi limiti, non pungolano la sua condizione.

In passato lo sfregio veniva effettuato in modi più tradizionali, non audio-visivi, e il modo condiziona probabilmente il risultato finale e l’effetto che fa. I «goliardi» erano goffe lamelle di materiali letterari che stravolgevano, o sfottevano, generi più illustri. Esiste anche una storia di Roma rifatta goliardicamente, a base di violenza, e c’è una infinita sequenza di «vite dei santi» che connette il genere sacro al genere trash, quindi questa operazione non è ovviamente qualcosa che si è inventato l’uomo contemporaneo. Questo genere di letteratura deviante dal comune senso estetico e del “pudore”, è antico quanto la letteratura colta e per fare le cose bene occorreva un certa ansia catalografica sterminata da archivista memoriale degli usi e dei fatti, alla Aulo Gellio, Macrobio e Valerio Massimo. Oggi però ci sono i trash-producers dei social e dei canali video di YouTube, con rituali comici come canzoncine o mantra, che sono un tic molto ripetitivo e sguarnito, in grado di entrare subito nella rubrica mattutina di ogni “follower”, pietrificando i contenuti come tavole della legge, rendendoli visibili migliaia di volte fino al rincoglionimento.

Uno si chiede se fruire trash ammala di trash, se rende attivamente zombie-trash, se abbia o meno un potere diffusore, moltiplicatore e infettivo. La prossimità fisica e psicologica a un agente contaminante rende contaminati? Oppure l’illusione è di potersi calare nel fondo di una discarica indossando solo guanti e pinze per il naso, fuoriuscendo puliti? (Ma allora resterebbe l’incognita del perché avvicinarsi a qualcosa verso cui intanto si prendono precauzioni). Più simpatico immaginare che chi va in discarica possa trovare qualcosa di buono per lui, che in qualche modo sia un suo habitat. Il trash è pieno di intersoggettività, socialmente identificabile da un corpus di regolette (e non è un caso che un video trash possa essere riconosciuto come tale da più osservatori, il che non significa che il video sia oggettivamente trash, ma almeno intersoggettivamente riconosciuto come tale). Quindi è il risultato di una adesione, di un’ascrizione di una comunità sociale identificata su una preferenza e su una ragione morale condivisa. Non è poi così lineare però che il mondo trash sia davvero «politicamente scorretto», che mostri quello che le convenzioni sociali negano o vorrebbero negare, potrebbe tranquillamente essere il culmine di un intrattenimento consolatorio e digestivo, la ruota del criceto in cui frullare ciò che è fin troppo ovvio, accettato, forse volutamente ricercato.

Da non dimenticare c’è anche la consueta catarsi, per cui la rappresentazione violenta o volgare di una propria manchevolezza genera un senso di sicurezza relativa, quel confortevole non essere il peggiore fra i peggiori, «sapere di non essersi spinti così tanto in là». Addirittura il trash potrebbe attivare la sfida, per un moralista che vuole vedere l’immoralità nell’altro e rincuorarsi, e quindi morale non viene mai sospesa. Uno può imbattersi sulla strada della gravitas di un video trash non desiderandolo e solo aprendo Facebook, quasi sempre venendo assordati con burle ossessive da vecchio Sud ciociaro, pizze, cozze, melanzane e calamari, o con fenomeni da baraccone delle giostre medioevali riaggiornati agli attuali tormenti linguistici o visivi.

Il palinstesto burino è ricco in generale, ma ha trovato buon domicilio tanto più in area web oggi che alla televisione, dove resta confinato in format già rodati. Qualcuno dice che questo tritacarne sia arte, un gesto intellettuale e iper-cosciente. Ma come potremmo rifilare, agli ultimi esteti sopravvissuti a questo tempo – che poveretti difendono la redingote di velluto a ogni costo, anche se lisa – l’ennesimo elogio del détournement surrealista, presuntamente insito in ciascuna trashata, biscotto della fortuna che potrebbe soddisfare solo novellini? Un ritegno verso i dandys, certo, ma anche il riconoscimento che di overdose metaermeneutica sul trash si può morire, o nel migliore dei casi essere in piena nausea da bruttezze messe in onda a ripetizione. Troppe vertenze si sono accumulate oramai, e non viene voglia di esprimersi più. L’inevitabile e non invidiabile derby fra i “controcorrente” difensori del brutto, esperti avvocati del diavolo contro anime pie e belle, e puntatori armati della riprovazione morale automatica, non ha portato lontano lasciando tutto com’è.

Non bastano più nemmeno i richiami alla riverita ombra di Labranca, gotha in materia. Restano solo dubbi. Il cinismo pop, dentro il trash, è ancora cinico, o nel frattempo ha cambiato identità ed è diventato velocemente e facilmente un’epica, declamatoria e cheap, del giudizio morale? Perché in effetti dovrebbe interessare comprendere cosa sia il mescolare la discesa in campo di Berlusconi agli abbracci e baci di nonna Papera ai nipoti, tangentopoli alle prediche di un prete in paese, bagasce che raccattano clienti a bambini in coda per la mensa dell’asilo, immagini del sequestro Moro ed esagitate ballerine di danza “lap”, frammenti di documentario sulle guerre puniche a peti e rutti di Boldi o Pierino (e non si invochi al banco dei testimoni il virtuoso caso Blob, per esempio, che non c’entra)? 

E se ormai lo sanno anche i nonni che il trash è un miscuglio di edonismo da palestra, risentimento sociale illetterato e di terzo livello, esaltazione per i mondiali, Paperissima e Telemarket? Labranca diceva che nel trash sta l’anima di un popolo, ma non diceva che sia obbligatorio nuotarci e nemmeno che la strada del kitsch sia preferibile, se è quella replica in serie di una monumentalizzazione amatoriale e vuota, procedimento per cui «la merda è tolta» (ma resta la pretesa masscult di fare piccola e grande artisticità per masse). Sicuramente trash e kitsch hanno in comune il tratto emulativo, l’eccesso di materiali poco o per nulla rifiniti, non il metodo, non il risultato. L’uno è neomelodificazione guitta e galeotta dell’esistenza, l’altro è cercare disperatamente di produrre qualcosa di bello senza gli strumenti necessari e in assenza di coscienza estetica. Inutile allora scomodare l’archivistica per un’archeologia dei costumi o la speleologia folkloristica delle buone intenzioni popolari (per poi farne ecumenico manualetto bolscevico!): il trash come puro riflesso incondizionato gradito all’uomo medio, che si alza le braghe a vita bassa mentre avanza un passeggino col culo mezzo fuori, è una definizione che potrebbe bastare, senza dedicare altra fatica. La tribalizzazione sociale, zelante com’è, si esprime anche nelle gioie degli attingimenti del brutto.

Ma questo trash, ormai pieno di riguardi nei confronti dei suoi seguaci che si aspettano cose ben precise e previste, è soprattutto ipocrita, nel dichiarare minuziosamente di non aver pretese possedendole tutte, urinando a getto continuo sui “codici” li rinverdisce, camuffando una morale anche molto robusta. Vuole essere «diiiiivertenteee!», «sconcertante», «dissacrante» e «scioccante» e «irriverente», ma il suo problema, insanabile all’origine, è che qualsiasi cosa faccia è sempre flat, iperdemocratico, e dunque noioso. E coatto, perché è per tutti e a tutti vuole arrivare, non perché canalizza fantasiosamente cascami e scarti audio-video, e persino ideologici, che nessuno ha voluto o vorrà. Chi pensa ancora che quello che c’è lì dentro sia il quadretto di uno «spaccato antropologico» e lo «specchio del paese»? I «nuovi mostri» del trash sui social sono la nota coprofagia e il solito grand guignol, solo aggiornato al mezzo.

Ed è così, a rutto libero, fra uno scrolling e un trolling, che si diventa abitatori di topaie e formicai, infettati da un tronismo perenne, in un secondo e con un click. Metaforicamente condannati ai tatuaggi in ogni giuntura, piercing sulle palle, botox fra le cartilagini, sopracciglia ad ali di gabbiano. Quando diventa assurda e ridicola la distanza fra i Giudizi Ufficiali e gli sbertuli privati, chi non ha una cassetta degli attrezzi per orientarsi rimane intrappolato fra le lamiere delle cose più inservibili, rappresentandole come un assessorato fuori dal web, forse anche nell’intimità del suo privato. Ma nobilitare il qualunquismo della boiata, oggi, è sempre un’operazione irritante perché ecumenica, ormai si sa che il «surrealismo», «l’incursione-verità», la voglia di «mescolare tutte le carte» per confondere ogni posizione sono ornamenti semantici dei cercatori d’alibi, per consumarlo essendone consumati. Siamo infine davanti al vecchio trucco accessibile a tutti, alla mamma consapevole, all’attivista diffuso, ai grafici ipertonici dello Ied, alle ambasciatrici Onu, compresi i ballerini di salsa e le professoresse di italiano.

Il trash che studiavano i Labranca è cambiato, non merita forse uno studio, è bullismo da pernacchia, esprime un ritardo. Il tono non è mai ironico, e ha superato la fase attraente della crudeltà. Gli umori dominanti sono un amaro disagio, una nausea disperata. Non è più la vecchia stonatura dei goliardi, lo sberleffo, la sfida al «buon gusto» (che comunque non si conosce: quindi come si potrebbe oltraggiarlo?), il misto di imagerie e clownerie, ciarpame carnevalesco dei ceffi, dei ghigni, dalle cabale e frappe bislacche, appariscenze sgangherate e diaboliche. È solo routine, nuova norma, ha denegato l’allure sabotante, o anarcoide, che magari aveva un tempo. Persino gli ammiratori sotto sotto sono tristi, ne sono assuefatti, si sono abituati.




Photo credits
Copertina – Foto di Max Letek su Unsplash

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