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Per una grammatica della sottocultura. Intervista a Massimiliano Guareschi

Un dialogo per addentrarsi in un universo che parla di punti di rottura e autenticità



Massimiliano Guareschi è un testimone privilegiato delle esperienze e dei mutamenti che hanno delineato l’underground e continuano a definirne i contorni. Grazie a una scrittura che coniuga rigore accademico e spontaneità quasi diaristica, ha dato vita a Going Underground. Stile, gusto e consumi nelle sottoculture giovanili (Agenzia X, 2023). Il libro si addentra nell’universo culturale che ha osato sfidare le convenzioni e plasmare le dinamiche sociali ed estetiche dentro le generazioni degli ultimi decenni. Nella conversazione a seguire, approfondiremo le radici storiche e l’evoluzione di questo fenomeno, esplorando le sue intime connessioni con concetti quali avanguardia, subcultura e autenticità.

Per accompagnare la lettura dell’intervista, puoi ascoltare la playlist Going underground su Spotify.

going underground

In che modo l’underground si è evoluto nel corso del tempo e quali sono le sue radici storiche? 
Le radici dell’underground rimandano agli Stati Uniti degli anni Cinquanta. In fumosi locali dove si ascolta be bop si muovono le figure dell’hipster, laconico e disilluso, e del beat, frenetico ed entusiasta. William Burroughs e Allen Ginsberg possono essere visti come le due polarità entro cui si disegna un campo di possibilità espressive ed esistenziali che coinvolgono, a geometria variabile, la musica black, l’uso di droghe, la critica agli stili di vita correnti, il mito del viaggio, l’uso sregolato della ragione, l’esplorazione di nuove modalità di espressione letteraria e un approccio selettivo alla cultura di massa. I repertori di questa cultura minoritaria e dissidente (che si dà propri tempi, luoghi e itinerari) verranno poi rilanciati nella seconda metà degli anni Sessanta, in termini meno esclusivi e a partire dalle sollecitazioni di un rock intenzionato a uscire dagli angusti limiti del rock’n’roll. Sarà l’epopea della controcultura psichedelica, cui reagirà, al declinare del decennio successivo, il punk.  

Come si differenzia dall’avanguardia e quali sono gli elementi che definiscono il suo carattere distintivo, sia in termini sociali che estetici? 
A mio parere si tratta di due matrici differenti, anche se aperte a continui intrecci e sovrapposizioni. Le avanguardie nascono e si sviluppano all’interno del campo artistico, pur con forti accenti polemici e propositi di rottura rispetto alle coordinate stilistiche e ai modelli prevalenti. Diversamente l’underground fin dalle origini si muove in un circuito parallelo, e stabilisce in autonomia i propri quadri di riferimento. Inoltre, produttori e fruitori appartengono allo stesso ambiente, circolano negli stessi luoghi e aderiscono a condivisi modelli esistenziali e politici.

Cosa differenzia il concetto di “subcultura” da quello di “sottocultura”? 
Nella traduzione italiana del libro di Dick Hebdige, che ha avuto un ruolo fondamentale nel costruire l’oggetto analitico delle culture spettacolari giovanili, si era scelto di renderlo con “sottocultura”, in quanto “subcultura” nella nostra lingua ha una connotazione negativa, incorpora un giudizio di valore. Per esempio, in tempi recenti, il termine è stato ampiamente utilizzato in riferimento ai NoVax o ai sostenitori delle teorie complottiste, che parteciperebbero di una sottocultura, intesa come pseudocultura o manifestazione di ignoranza. Nell’accezione dei Cultural Studies, invece, il termine ha una valenza neutra, anche se emerge in sottofondo una malcelata empatia, e rimanda a una variazione all’interno di una cultura più ampia. Nell’analisi di Stuart Hall e Dick Hebdige, le sottoculture giovanili sono colte in riferimento alla cultura parentale, quella dei genitori, rispetto alla quale si produce uno scarto in termini di gusti estetici e modelli comportamentali.

Qual è l’influenza dei Cultural Studies e in che modo sono stati recepiti in Italia?
I Cultural Studies nascono in Gran Bretagna, in ambito letterario, con figure come Richard Hoggart e Raymond Williams interessate a evidenziare e valorizzare l’autonomia culturale della working class. Successivamente, con l’assunzione della direzione da parte di Stuart Hall del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham, si ampliano i riferimenti teorici, da Gramsci al marxismo althusseriano o alla semiologia di Roland Barthes, e ci si indirizza verso nuovi “oggetti” di analisi, in particolare le sottoculture giovanili e i media. Più avanti, a innestarsi saranno le tematiche del gender e della razza. Nel frattempo, i Cultural Studies si internazionalizzano, attecchendo in special modo nel mondo accademico statunitense, al prezzo di un certo degrado. Qui emerge una fastidiosa tendenza all’eclettismo teorico, a mettere insieme acriticamente prospettive diverse fra loro, e ad attribuire una valenza emancipatrice e di resistenza a qualsiasi cosa. Per quanto riguarda il nostro paese, la fase aurorale e letteraria dei British Cultural Studies aveva suscitato un certo interesse, come testimoniano le traduzioni dei testi di Williams e Hoggart. Meno fortuna aveva avuto, al tempo, la fase caratterizzata dal magistero di Stuart Hall, con l’eccezione degli studi sulle sottoculture giovanili negli anni Ottanta. Negli ultimi decenni, invece, l’allineamento, spesso supino, della nostra accademia alle tendenze “angloparlanti” ha comportato una massiccia importazione dei Cultural Studies, in termini spesso passivi e subalterni, con l’atteggiamento provinciale di chi pensa che tutte le novità debbano venire necessariamente dal di fuori e dimenticando come, parallelamente, e spesso anche in anticipo rispetto alla Gran Bretagna, diverse delle problematiche affrontate dai Cultural Studies avessero trovato in Italia originali e autonome elaborazioni, sul piano della ricerca empirica e della riflessione teorica. Basti pensare, per esempio, in primo luogo a Gramsci, peraltro autore di riferimento fondamentale in una stagione dei Cultural Studies, ma anche a Danilo Montaldi, Ernesto De Martino, Rocco Scotellaro, Gianni Bosio. 

Che rilevanza attuale hanno parole chiave come “stile”, “gusto” e “autenticità” nell’analisi delle dinamiche sociali e culturali? 
Le sottoculture giovanili sono essenzialmente culture del gusto, in quanto l’aggregazione avviene, o avveniva, essenzialmente a partire dalla condivisione di una serie di preferenze estetiche, relative alla musica, all’abbigliamento, al gergo, alla postura. Si tratta di elementi reciprocamente correlati, che acquisiscono significato dalla loro connessione. Per questo si parla di stile. Come è stato osservato, le sottoculture giovanili storicamente non hanno proceduto alla produzione materiale degli oggetti divenuti qualificanti del loro stile, ma hanno percorso la strada della loro risignificazione attraverso un gioco di contestualizzazione e ricontestualizzazione. Prendiamo il punk, la sottocultura per eccellenza: il collare borchiato non ha nulla di strano se viene messo al cane ma diviene perturbante se indossato da una persona; la lametta da barba era un oggetto della quotidianità maschile, che muta di segno se trasformato in ornamento. Decodifica e ricodifica, in sintesi, appaiono le operazioni attraverso cui si definisce lo stile sottoculturale. La contrapposizione di una dimensione sottoculturale autentica, da contrapporre ai poseurs o ai venduti, a chi ostenta solo superficialmente i segni di appartenenza, costituisce una delle chiavi dell’autorappresentazione della sottocultura. 

Come si è evoluto il concetto di “gusto” nel pensiero occidentale e quali implicazioni ha questa evoluzione per la comprensione del bello e del giudizio estetico?
Il gusto è uno dei cinque sensi, tradizionalmente posto però in una posizione di rincalzo rispetto alla vista e all’udito, ribattuto sulla materialità di un piacere solo sensibile. Per uno strano paradosso, però, a partire dal Seicento, si afferma come il nome di una sorta di facoltà preposta all’identificazione e alla fruizione del bello. Ci si interroga se sia innato o lo si apprenda, se si basi sull’intelletto o sul sentimento. Un senso ritenuto interiore finisce per indicare la capacità di cogliere gli elementi più alti della dimensione artistica. Però, a partire dal momento in cui il bello, come criterio giudicativo, abbandona i mondi dell’arte, la stessa sorte tocca al gusto. Al contempo, però, possiamo registrare la riabilitazione del gusto inteso come senso, penso, in particolare, alle pratiche artistiche, e sono molte, che scommettono sulla riattivazione e rivalutazione dei sensi “subalterni”. In ambito gastronomico, poi, sono emersi modelli di cucina che svincolando il cibo dall’appagamento immediato si orientano verso una sorta di estetica pura in senso kantiano proponendo un’esperienza incentrata sulla sperimentazione sensoriale.

Quanto il punk è riuscito a modellare la costruzione di una linea interpretativa basata sulla “rivolta dello stile” e l’insubordinazione?
In effetti, Sottocultura di Dick Hebdige viene scritto in coincidenza con l’esplosione del punk, che costituisce lo studio di caso su cui vengono costruiti gli schemi interpretativi che vengono poi estesi alle sottoculture precedenti e saranno applicati ai fenomeni giovanili successivi. Da questo punto di vista c’è qualcosa di tautologico. Dal punk si estraggono i tratti che definiscono la sottocultura, specie in termini di guerriglia semiotica, di risignificazione degli oggetti, di espressione di dissidenza attraverso lo stile. E al contempo tali caratteristiche sono rintracciate puntualmente nel punk come oggetto di studio. In seguito, però, non sono mancate le critiche, che per esempio, hanno evidenziato come l’attenzione di Sottocultura sia rivolta solo alla fase spettacolare della nascita del punk, all’epopea dei Sex Pistols, di Malcolm McLaren e di Vivienne Westwood, e tralasci scenari più periferici e soprattutto successivi, in cui lo stile punk è soggetto a continue rinascite. Si pensi all’Anarcopunk, con le sue coordinate stilistiche ed “etiche” – auto-organizzazione dal basso, do-it yourself, orizzontalità – e a tutte le successive ondate di ribellione che si sono sviluppate nei più diversi contesti geografici.

E invece da cosa è stato influenzato il concetto di “autenticità”? 
Il concetto di autenticità è una delle ossessioni della modernità. Se ne volessimo cogliere le radici dovremmo risalire al Settecento, pensiamo a Rousseau, per il quale la ricerca dell’autenticità è la chiave di quella problematica realizzazione del sé intorno a cui ruota il suo pensiero e la sua biografia, avvitandosi su una contraddizione dopo l’altra. Venendo al presente, l’autenticità non riguarda certo solo l’ambito sottoculturale, in cui al commerciale e al poseur si contrappone la pretesa della vera incarnazione dello spirito delle origini. Oggi l’autenticità è anche un potente vettore di valorizzazione economica. Per esempio, Sharon Zukin ha scritto un bellissimo libro, Naked City.The Death and Life of Authentic Urban Places, tradotto dal Mulino con il titolo L’altra New York, in cui si evidenzia come la costruzione di narrazioni riguardanti l’autenticità dei luoghi abbia costituito il volano dei processi di gentrificazione del Lower East Side, di Brooklyn e di Harlem. Un altro capitolo si potrebbe aprire sul cibo, e le differenti narrazioni sull’autenticità che si fronteggiano. 

Qual è stato l’impatto del movimento studentesco e operaio del Sessantotto in Italia, sia in termini culturali che politici? 
Nelle letture del Sessantotto, intendendo non tanto un singolo anno-evento ma una sequenza storica che dalla fine degli anni Sessanta attraverso l’autunno caldo giunge al 1977, solitamente l’accento cade sulle culture politiche legate al marxismo e alla tradizione del movimento operaio, nelle loro versioni ora innovative sul piano teorico e organizzativo, ora grottescamente imitative dei partiti comunisti. Si tratta di una componente senza dubbio fondamentale, ma si ignora come un’eguale importanza vada riservata alle correnti controculturali, da Mondo Beat e Onda verde agli indiani metropolitani del 1977 passando per “Re nudo”. Non si tratta di due binari paralleli, ma di percorsi che si intrecciano di continuo, con l’underground che precisa a contatto con le culture marxiste le proprie coordinate politiche, e le strutture militanti che assorbono molti dei tratti politico-culturali dell’underground: l’esigenza di coinvolgere nella critica la dimensione esistenziale nella sua totalità e di non sottomettere il presente al futuro, la creazione, qui e ora, di situazioni dove sperimentare differenti relazioni sociali, la sperimentazione sui linguaggi, la messa in crisi dei ruoli stabiliti. 

In che modo la “sottocultura”, come analizzata da Dick Hebdige nel suo libro del 1979, ha influenzato la comprensione delle tendenze giovanili legate alla musica rock e alla black music in Italia nei primi anni Ottanta? 
Oggi è scontato il fatto che all’università ci si possa occupare di tutto. In realtà, solo una quarantina di anni fa non era così, e si dava per scontato che in ambito accademico ci si occupasse della cultura con la C maiuscola, mentre la cosiddetta “pop culture” appariva come un tema illegittimo e non serio. Le sottoculture giovanili, da parte loro, erano considerate in termini di disagio e devianza, con un approccio patologizzante. Il libro di Hebdige ha contribuito in maniera decisiva – in un periodo dove ancora la traduzione era un veicolo fondamentale per inserire un testo in un contesto nazionale – a legittimare un certo tipo di temi e approcci. L’elemento interessante è che il libro è stato importante anche per molti aderenti alle sottoculture del periodo, che in esso hanno trovato un importante momento di riflessività sulle pratiche che portavano avanti. In tal senso, un episodio mi pare emblematico. Nel 1984 alcuni punx (versione radicale e crassiana del punk) intervengono alla presentazione di una ricerca sulle bande spettacolari giovanili, distribuendo volantini bagnati con il loro sangue. È interessante notare come la critica alla ricerca, incentrata sulla rivendicazione da parte dei punx di una valenza politica del loro agire, facesse ampio riferimento a Hebdige, che d’altra parte, era ampiamente citato anche dai sociologi messi sotto accusa.   

Quali sono state le esperienze più significative che hai vissuto durante la giovinezza, in particolare riguardo al ruolo della musica nella costruzione della tua identità? 
Come molti della mia età il punk ha rappresentato una rottura significativa, la possibilità di disporre di una grammatica per dare forma, in maniera avvertita come attuale e non anacronistica, al proprio rifiuto di una quotidianità avvertita come arida e insignificante. La stagione in cui sono cresciuto è stata falcidiata dall’eroina. A salvarmi da una deriva di quel tipo non potevano essere certo slogan vetusti o l’ebrezza dello svago cheap di età craxiana. Sul piano estetico, però, più decisivo è stata per me l’immersione nella new wave, con le curiosità intellettuali che portava con sé. Ma dal punk, al di là del fatto che quella musica ci potesse avere stufato, ci derivava soprattutto una mentalità orientata al DiY (do it yourself), a una particolare forma di attivismo, per cui se non c’era quello che ti interessava te lo dovevi costruire con i tuoi simili, muovendoti in prima persona e mobilitando le risorse disponibili per mettere su un gruppo musicale, fare una fanzine o un demo, organizzare un concerto o un evento,  senza farti troppe domande sul fatto se eri all’altezza o meno, se sapevi scrivere o suonare, se la cosa avrebbe avuto riscontro o no. Da quest’ultimo punto di vista avverto una marcata distanza rispetto alle nuove generazioni, che mi paiono ossessionate dal consenso e dal riconoscimento altrui.

Immagine di copertina di ARTRIBUNE
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