Oltre la Soglia

Nomi, cose, città: cantare lo stato di crisi. Ascoltando Forever di Francesco Bianconi

C’è un punto nell’Educazione sentimentale di Flaubert in cui la tolleranza verso il sentimentalismo furioso del protagonista Frédéric Moreau si stempera in qualcosa di imprevisto, che costringe la lettrice o il lettore a formulare una parola sospetta: «maturità.»
In un romanzo così cinematico, fatto della ricerca di un sé artistico e della realizzazione di ogni forma d’amore, da quello spirituale a quello mercenario attraverso l’osceno spettacolo della borghesia, la maturità si addensa come qualcosa di molesto e noi, come il protagonista, sul momento non sappiamo che farcene. La sua apparizione ci delude, ma alla maturità si sopravvive. Che sia subita o ricercata, spontanea o programmatica.
È il primo tema che viene in mente ascoltando Forever di Francesco Bianconi.  Il tema di una maturità che a un certo punto «deve» addensarsi, farsi carne e mostrarsi; una maturità che può aggredire il corpo che la ospita, rosicchiandolo fino a fargli cantare parole prevedibili e necessarie alla sussistenza del Grande Cantautorato Italiano, oppure che sa farsi da parte, e si diverte ad avere pesi e leggerezze diverse.
Forever presenta tutte e due queste forme di maturità: quella che aggredisce e si impone, e quella talmente sicura di sé stessa da affacciarsi solo per un attimo, prima di defilarsi in un’altra stanza. E proprio quando la gravitas, quando una prova di cantautorato formato e adulto si nasconde dietro una tenda, sotto al tavolo, o semplicemente si defila per dirigersi in una delle dieci camere che formano questo disco, Francesco Bianconi dà il suo meglio e diventa sinfonico.

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Uno dei meriti principali di Franco Battiato, pure nelle sue evoluzioni più mistiche e tardive, è stato dimostrare che la canzone italiana «matura» non ha necessariamente bisogno del Vangelo. Anzi: le sacre scritture, che siano quelle di Dio o quelle della cultura popolare, vanno maneggiate con una cura inconsapevole e dimentica di sé stessa.
Durante una vecchia intervista con Emidio Clementi all’epoca di Aspettando i barbari, riferendosi a Vic Chesnutt, a Buckminster Fuller e agli altri protagonisti di un pantheon laico evocato nelle canzoni, Clementi mi disse: «È difficilissimo dire Charles Bukowski.» Lui ci ha provato, ci provava, ma ciò non toglieva che dirlo fosse difficilissimo. Mi è sempre sembrata una definizione molto elegante per evocare uno spettro comune nel cantautorato che vive di riferimenti incrociati: la paura di ridurre il verso a una riga di diario, di contraffare la poesia con l’accademismo minimo di contrabbando, di trasformare la scrittura in carta moschicida: qualcosa che attira le particelle minuscole del nostro essere, e ci fa finire inevitabilmente appiattiti.  

La storia della musica italiana degli ultimi venti anni, una storia che Francesco Bianconi e i Baustelle hanno contribuito a scrivere, è anche la storia di come si gioca a Nomi, Cose, Città.
Di come si cita, cosa si cita, nonostante il pastiche sia morto da un pezzo, e del postmoderno abbiamo conservato tutto, tranne quello che ci serve: ovvero come saper mandare una forma in pezzi. Ma fare a pezzi la forma per poi ricomporla in maniere non autoassolutorie è un esercizio che richiede un’ostinazione feroce, difficilissima da conseguire, e propria della musica sperimentale.
Nella canzone d’autore italiana, invece, i tentativi migliori sono avvenuti cercando di tenere insieme pezzi di passato e di futuro, di combinare tanti generi – dalla colonna sonora darioargentesca alla musica da camera, dalle varie anime latine alle polluzioni di Battiato – e di aggirare la pedanteria dell’impegno riflesso in sé stesso di certi anni Settanta e la sciatteria socialmediatica degli anni Duemila, bilanciando dogmatismi vecchi e nuovi, sciocchezze vecchie e nuove.
E quando tutto questo tentativo trova una forma spontanea e non dichiarativa, rinunciando al manifesto d’intenti per farsi pura esperienza di suoni e parole, si arriva a una specie di grazia.
Se c’è una canzone su tutte in Forever a cui riesce questa sintesi, è Zuma Beach.
Zuma Beach è una canzone senza Vangelo, è una canzone che sa citare, che saprebbe dire Bukowski anche se è difficilissimo. Preserva l’impertinenza e il citazionismo dimentico di sé stesso, e riflette un’eleganza e malinconia da marziano.

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In realtà, in bocca a Bianconi certe parole non sono mai sembrate difficili. A differenza di tanti giovani uomini che si sono formati ascoltandolo e poi hanno iniziato a pubblicare dischi, Bianconi ha sempre saputo usare certe parole; i suoi «concerti dei Pixies», «la birretta del bazar indiano» e i suoi «tragici disboscamenti della Russia» appartengono pienamente alla partitura e non sono riflessi inconsulti di una specie di campionamento interiore.
I suoi nomi, le sue cose, e le sue città, sono quasi sempre strumenti che concorrono allo stesso fine, non davvero isolabili dal magma del discorso. In Forever a tratti risuonano persino amari, e di un romanticismo arreso che sa fare a meno della postura. Perché così come esiste una canzone italiana matura senza Vangelo, esiste una canzone italiana romantica senza lo Stilnovo. Una canzone italiana romantica che si dimentica di tutto quello che dovrebbe fare una canzone d’amore. In cui emittente e ricevente restano profondamente ambigui: quando ero ragazzina, e questa fede ingenua è rimasta, credevo che le canzoni d’amore migliori fossero quelle che parlavano sia di amanti, sia di madri, sia di droghe, sia di sé stessi. Le canzoni romantiche migliori erano quelle altamente fraintendibili, come lo è in parte Il bene, la traccia che apre il disco.

È il motivo per cui Justin Vernon durante un’altra vecchia intervista mi ha profondamente rassicurata quando mi ha detto che il ritornello di Skinny Love non si rivolgeva a una ragazza, ma era una cosa che diceva a sé stesso: «And I told you to be patient, and I told you to be fine, and I told you to be better, and I told you to be kind.» Non era un incoraggiamento, non era un’esortazione o una supplica alla persona che amava, ma un proposito di autodifesa. Non un tributo di sangue verso l’altro, ma un mantra per sé stesso. Una delle canzoni più citate dello scorso decennio, una delle canzoni cantate con maggiore sincerità e senza pudore durante i tantissimi festival delle estati passate, amata proprio per la sua dichiaratività, quando invece ha avuto un cuore ambiguo e fraintendibile tutto il tempo.
Quando questo cuore fraintendibile pulsa in Forever, quando l’assertività delle intenzioni lascia il passo alla polisemia e al dubbio, Bianconi fa un passo in avanti. Forse proprio per amplificare questo dubbio, uno stare in transizione e l’incapacità di essere sempre corrispondente alla superficie di se stesso, ci sono i duetti e le canzoni in lingua straniera: l’inglese, l’arabo, e poi la lingua sommersa e invisibile del disco, che è il francese. Go!, Fàika Llìl Wnhàr, The Sttenght e Andante cantata con Rufus Wainwright, dimostrano quanto sia indispensabile l’altro per conquistare una misura diversa del proprio sentire. Il cantautore può inventare una serie infinita di mondi e di ambienti, ma è solo quando arriva un’altra voce a popolarli che la sua scrittura diventa più sicura e paradossalmente più libera: è un peso angoscioso, sostenere l’intimità e la maturità di un disco come Forever affidandosi solo alla propria identità, per quanto curiosa e caotica.

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Ci sono molte scelte che può fare un cantautore che esordisce dopo una carriera ventennale all’interno di un gruppo, e dopo aver fatto tanta esperienza con un collettivo di solitudini: può continuare a cantare sé stesso o cantare contro sé stesso, può rovesciarsi in fuori attraverso rotture programmatiche o assecondare le sue fratture impreviste. Se è fortunato, mentre sta lì a comparare le varie divinità del suo pantheon personale e le varie mitologie di cui parlava il canadese Leonard Cohen, può imbattersi in una delle esperienze di cui scrive la canadese Anne Carson: «I miti sono storie sulle persone che diventano temporaneamente troppo grandi e ingombranti per le proprie vite, e allora si schiantano nelle vite degli altri o sfiorano gli dei. Nello stato di crisi, le loro anime diventano visibili.»

Il cantautore può esasperarsi, magnificarsi, contrarsi, ridursi o provare a fare tutte queste cose tentando di non far collassare un disco. Un album come Forever si regge tutto su questo sforzo, e su uno stato di crisi da camera. Vive di una ricerca contenuta, che a volte diventa molto verticale, a volte girà su sé stessa, e più spesso è un’aria che si diffonde per le stanze, e in cui l’ambizione si rimescola in maniera curiosa con il risparmio. Può vivere senza il Vangelo, può vivere senza lo Stilnovo, ma non può fare a meno del desiderio di rendere l’anima visibile. È il desiderio più rischioso, ma anche quello più meritevole per un cantautore che vuole farsi ascoltare.
La maturità, alla fine, proprio come accadeva a Frédéric Moreau, sopravvive ai suoi peggiori vizi, alle sue cattive abitudini, e cerca la sua via di uscita. A costo di diventare inaffidabile, antipatica, e di rivelarsi misteriosa persino a sé stessa, cerca la sua via di uscita: come fanno Certi Uomini, come fanno certe parole difficili, fino a trovare una bocca in cui diventano, almeno per qualche istante, così leggere, e così nude, e così gloriosamente semplici.