Mi sbilancio subito: riderete come pazzi, e sa il cielo se ne abbiamo bisogno ogni tanto, leggendo questo libro prodigioso. Invettive musicali è pubblicato da Adelphi e il curatore dell’opera è Carlo Boccadoro, uno dei più grandi autori e interpreti italiani di musica contemporanea. L’autore, Nicolas Slonimsky, è stato una figura mitica della musica del Novecento, morto a centouno anni dopo una vita che è tutta un romanzo, intrecciata con quelle dei principali compositori del secolo scorso. Il suo manuale di teoria armonica è stato la Bibbia non solo dei musicisti classici ma dei più grandi sperimentatori nel jazz, da Coltrane a Mingus, e la sua fama di collettore di nuove idee ed eccellente pianista era tale che nel 1981 Frank Zappa lo convinse – a ottantasette anni! – a esibirsi in concerto con il suo gruppo.
In cosa consiste il libro? Si tratta di oltre un migliaio di estratti da stroncature di musicisti, da Beethoven fino al Novecento, scritte da critici conservatori che li accusavano di novità incomprensibili, dissonanze insensate, arditezze orripilanti e molto peggio. Già è umoristico il fatto che il compositore di volta in volta trattato come un incapace, poniamo Beethoven o Berlioz, venga poi puntualmente invocato quando, col passare degli anni, sulla scena compaiono musicisti che a questi critici sembrano addirittura dementi, come Wagner o Debussy; salvo che poi anche questi sono rivalutati nelle recensioni che rinfacciano ai successori di essere dei veri criminali assassini della musica, come Stravinskij o Schönberg. D’altronde, come diceva Schopenhauer, tutte le verità passano attraverso tre stadi. Primo: vengono ridicolizzate; secondo: vengono violentemente contestate; terzo: vengono accettate dandole come evidenti. E le innovazioni musicali altro non sono che piccole o grandi verità.
Nel saggio che conclude il libro (ma in appendice c’è un imperdibile “Insultario”, un catalogo in ordine alfabetico delle invettive ricorrenti), Slonimsky osserva spiritosamente che esista una «legge del ritardo di quarant’anni»: ci vogliono vent’anni perché un certo pezzo, accolto come una mostruosità, cominci a venire considerato se non altro una curiosità artistica, e altri venti perché venga celebrato come un capolavoro. Esempio perfetto è il Sacre du printemps di Stravinskij, eseguito per la prima volta a Parigi nel 1912 fra berci di disapprovazione e riproposto dallo stesso direttore d’orchestra nel 1952 suscitando applausi sfrenati. Il coraggioso direttore, Pierre Monteux, osservò ironicamente: «L’altra volta il pubblico fece più o meno lo stesso chiasso, ma in una tonalità differente!».

Ciò che rende però irresistibile il libro è che questi critici saranno anche stati ottusi, ma le loro invettive sono meravigliose. A forza di scambiarci sui social insulti banali e ripetitivi ci siamo dimenticati che l’invettiva è un’arte, che può mobilitare (e nobilitare) tutte le risorse espressive alla ricerca di metafore e iperboli fantasiose e distruttive.
Si va appunto da Beethoven («Mi suona come dei sacchi di chiodi che vengono rovesciati, a cui ogni tanto si aggiunge la caduta di un martello», questa è di John Ruskin) a Berlioz («Viene considerato un compositore classico solo a Parigi, la città dei ciarlatani»: in una riga sistemati musicista e città!), da Brahms, di cui apprendiamo con un certo stupore che era considerato un modernista sfegatato e indigeribile («Chiunque sia in grado di mandar giù il suo Concerto per pianoforte con appetito, può attendere senza paura l’arrivo di una carestia… saprà vivere magnificamente nutrendosi di vetri, tappi di sughero e tubi di stufa») all’odiatissimo Debussy del Preludio al pomeriggio di un fauno («Il fauno deve aver passato un pomeriggio terribile perché, povera bestia, ragliava sopra i corni e nitriva sui flauti»; ma anche il poema sinfonico La Mer suscita tale raccapriccio che un critico lo ribattezza Le mal de mer) e a Liszt il cui Lamento è paragonato a «una mucca che su un sentiero sconosciuto cerca invano un vitello rapito».

Sul tema bovino, Verdi si prende del «toro impazzito», mentre di Wagner leggiamo: «Wagner scrive come un maiale ubriaco, Berlioz come uno scimpanzé alticcio»; un giornale parigino, più misuratamente, osserva che «dopotutto non esiste una legge che proibisce di scrivere quando non si hanno idee. Il lavoro di Wagner, dunque, è perfettamente legale». Figuriamoci cosa pensano questi critici riguardo a Mahler («Non aveva molto da dire nella sua Quinta Sinfonia e ci ha messo una sorprendente quantità di tempo per dirlo») e a Schönberg («Il comportamento del pubblico di Boston è stato davvero lodevole… nulla è stato lanciato contro l’orchestra»). Richard Strauss è paragonato a «un derviscio urlante che rotea follemente su se stesso fin quando diventa isterico, e a quel punto emette un muggito», mentre il già citato Sacre du printemps di Stravinskij viene ribattezzato Massacre du printemps. Sempre su Stravinskij, particolarmente aborrito dai conservatori: «Nel suo Fuoco d’artificio Stravinskij scaraventa un’intera orchestra addosso al pubblico e la chiama musica… non riusciamo a immaginare cosa volessero dire certe dissonanze degli ottoni, a meno che chi ha acceso i fuochi si sia bruciato le dita e abbia commentato di conseguenza». Ma lo sberleffo più sublime rivolto al compositore russo è questo, degno di Jerome: «La Sinfonia per strumenti a fiato è dedicata alla memoria di Debussy. Non avevo idea che Stravinskij detestasse Debussy fino a questo punto. Se i miei ricordi di un amico fossero penosi come quelli che Stravinskij sembra avere di Debussy, cercherei di dimenticarlo».

Questo primo assaggio dà un’idea del resto del libro. Ma alla fin fine cosa viene rimproverato ai musicisti presi di mira? Anzitutto la mancanza di melodia, che viene rinfacciata non solo a Verdi («L’unico compositore italiano incapace di creare melodie», e tanti saluti al coro del Nabucco che certuni vedrebbero bene come inno nazionale) ma perfino a Puccini.
Una prerogativa particolarmente sgradevole delle varie generazioni di nuovi musicisti viene individuata nell’eccessivo volume sonoro, bollato come espediente per nascondere la mancanza di idee del compositore: Beethoven fa più fracasso di Mozart, Liszt più di Beethoven, Strauss più di Liszt, Schönberg e Stravinskij più di tutti quelli venuti prima di loro. Nel Ritratto di Dorian Gray, Oscar Wilde fa dire seraficamente a uno dei personaggi: «Io amo la musica di Wagner più di quella di chiunque altro. È talmente rumorosa che si può parlare tutto il tempo senza che la gente intorno senta quello che viene detto».
Slegate dai valori musicali, e per questo ancora più insensate e divertenti, sono peraltro le critiche mosse ai contenuti e al decoro morale dei libretti d’opera. Si lamenta che la Traviata sia ambientata «nei bordelli e abominii della Parigi moderna» e addirittura si ammoniscono le signore sul pericolo che a mariti e figli venga «inoculato il peggior vizio parigino»: Parigi era popolarissima presso i non parigini, come si vede. Della Tosca, oltre alla mancanza di melodie, si deplora a più voci il crudo realismo nella scena della tortura di Cavaradossi, della Valchiria wagneriana l’abominevole incesto fra sorella e fratello. Una Lady Macbeth nel distretto di Mcensk di Šostakovič passa per opera da camera, sì, ma «camera da letto». Quanto alla Carmen viene definita né più né meno opera degna di Satana!
Insomma, i tratti di stile che suscitano le furie dei critici sono tutti quelli che derivano da un nobilissimo ma asfittico ideale di compostezza classica: argomenti osceni, ritmi intricati, dinamiche aggressive e soprattutto armonie dissonanti. Giustamente George Bernard Shaw osserva che la storia dell’evoluzione dell’armonia in musica è in fondo una storia di come cresce la tolleranza dell’orecchio umano verso accordi che, al loro apparire, suonavano assurdi e privi di senso. Non si poteva dire meglio di così, se si considera che oggi anche quando siamo al supermercato ascoltiamo canzonette banalissime che contengono più arditezze armoniche di Berlioz e Debussy messi insieme… solo che non lo sanno. E nemmeno noi lo sappiamo.
In copertina:
Theodor Zasche, Caricatura di Mahler e di Jahn ©2025 akg-images/mondadori portfolio