Oltre la Soglia

L’unica lotta perduta è quella che si abbandona. Intervista a Miguel Benasayag



Gli idealisti si riconoscono tra di loro, portano addosso un segno inequivocabile: l’inguaribile amore per la vita, in ogni sua forma. Credo che in fondo sia questo il motivo per cui io e Miguel siamo diventati amici. Quando Limina mi ha chiesto di intervistarlo per l’uscita in Italia di un volume in cui si raccolgono insieme due scritti storici, non potevo essere più felice: dopo questi anni così duri e difficili, dopo la paura e il disagio, dopo essere stati circondati dall’incertezza e dalla morte, poter parlare con Miguel Benasayag è come poter riprendere un respiro profondo dopo una lunga apnea. Il libro che ci offre il pretesto per questa chiacchierata si intitola Malgrado tutto, lo pubblica Jaca Book.  Raccoglie l’omonimo memoir pubblicato per la prima volta nel gennaio 1982 e lo unisce a Percorsi di vita, libro intervista apparso nel 2001 e scritto insieme alla filosofa e psicanalista francese Anne Dufourmantelle. Due parole su di lei, morta tragicamente in mare nel 2017, travolta dalle stesse onde da cui è riuscita a salvare due bambini che stavano annegando. Ci ha lasciato due libri emblematici che celebrano la forza del rischio quale motore del cambiamento e la forza della dolcezza come emblema di potenza e di resistenza. Fu lei a proporre a Miguel un dialogo in cui fare il punto, al giro di boa del millennio sulla possibilità di costruire alternative possibili. Sono passati vent’anni, ci sono stati la repressione di Occupy, i ripetuti affossamenti delle commissioni parlamentari sulle violenze durante il G8 di Genova, poi le Torri Gemelle, i fake-dossier per legittimare la guerra al terrorismo, il pasticcio Afghanistan, la mucca pazza; e ancora: il crack del 2008, il fallimento dell’Islanda, l’emersione delle democrature, Trump, Bolsonaro, i social network, i gigacapitalisti, la consegna dei corpi delle donne ai Pashtun, ai Pasdaràn, a Boko Haram, alle repressioni neo-con dell’Occidente omofobo, razzista e neocolonialista. Mi fermo qui, perché questo non è certo lo spazio per emulare Patrik Ourednik e il suo emblematico volo radente sulla storia del secolo scorso (che è ora uno spettacolo in tournée nei teatri italiani). E non di meno, quando il mondo va dove non pensavamo, abbiamo bisogno di leggere e parlare con qualcuno che ci aiuti a ritrovare il nostro centro, a capire, per rubare a Miguel un’espressione diventata ormai celebre, se stiamo “esistendo o funzionando”.

Benasayag

In questo libro troviamo, insieme alla cronaca del carcere, una lunga riflessione sul nostro tempo. C’è un punto di inizio – il racconto del carcere, della prigionia, di un’esperienza francamente impossibile da definire, ma che è non di meno diventata una rinascita e un motore di vita – e un’urgenza attuale, che riguarda il significato e il valore oggi del pensiero radicale, della creatività rivoluzionaria, dell’impegno civile. È un libro che restituisce il tuo impegno nel collettivo Malgré Tout.
Avevo scritto Malgrado tutto poche settimane dopo essere arrivato in Francia, al punto che ancora non sapevo che tutti i desaparecidos erano morti, tra cui anche la mia compagna. Avevo bisogno di raccontare questa esperienza, ma dal lato umano: quando sono arrivato in Francia sono diventato subito un simbolo, un guerrigliero; ma io volevo descrivere cos’era stato veramente quell’inferno, benché ancora non sapessi che presto sarebbe diventato anche peggiore per chi, a differenza di me, non era stato scarcerato. Le persone però non volevano sapere la verità: preferivano fermarsi all’immagine, al simbolo. Sono passati vent’anni, durante i quali l’inquietudine non mi ha abbandonato e ho continuato con il mio impegno e con la mia ricerca, scientifica e clinica. Poi la psicanalista e filosofa Anne Duformantelle mi ha proposto di fare un libro intervista raccontando il mio rapporto con il mondo e con la vita. Ne è uscita un’autobiografia in cui ho tentato di mostrare, in un’epoca molto cambiata, il valore del percorso fatto: di fronte al trionfo della postmodernità e all’individualismo come orizzonte insuperabile, molti sembravano pentiti delle lotte fatte ed era per me importante raccontare come invece io continuavo a vivere dando valore ai legami oltre qualsiasi possibile dogmatismo. Se quando uscì L’epoca delle passioni tristi io ventilavo l’avvento di un futuro minaccioso, oggi non è più il futuro a essere minaccioso: è la realtà che è diventata terribile. Il futuro minaccioso è rimasto un futuro, ma noi abitiamo un’epoca di non-futuro: la sopravvivenza stessa della specie umana è minacciata, respiriamo un’aria intossicata dall’inquinamento, dal pessimismo e dal dolore. Quando guardiamo i nostri figli non possiamo non chiederci in che mondo vivranno: il cambiamento e la distruzione evolvono in modo precipitoso (in Francia è appena emerso un nuovo scandalo sulla contaminazione dell’acqua, solo per fare un esempio). Per me era importante ribadire che, in tre epoche molto diverse, ho conservato la stessa apertura al mondo, non vivere in modo semplicemente indivualistico: l’unico punto di vista possibile rimane quello che parte dal vivente e lo difende.

Per chi già ti segue, questo discorso non è nuovo: si relaziona con il tuo lavoro clinico, che ti ha attirato l’etichetta non sempre lusinghiera di «bioconservatore». Un disprezzo che francamente non ho mai capito: com’è possibile non essere bioconservatori? Tutti desideriamo che la vita, come la conosciamo, si conservi. Questo libro però si colloca a metà tra la tua produzione scientifica e quella socio-politica: l’esigenza stessa da cui nasce (superare l’incarnazione del guerrigliero per fornire il lato umano di un’esperienza atroce) tocca il tema della conoscenza. Spesso, infatti, hai spiegato come l’essere umano possa conoscere solo attraverso l’esperienza (nel senso letterale dell’esperire, ossia di elaborare la realtà attraverso i sensi e il corpo). Rispetto alla ripubblicazione di Malgré Tout e al tuo impegno ventennale di divulgazione delle esperienze radicali di impegno civile e sociale, mi incuriosisce sapere dove ti sta portando questo lavoro; in particolare, per quanto riguarda le esperienze radicali, così fuori dal sistema, antieconomiche, estreme nella forma, difficili da comunicare all’esterno. Ogni giorno, infatti, siamo sommersi in un flusso di informazioni su ciò che succede nel mondo eppure tutta questa informazione non ci permette di sviluppare l’empatia necessaria per agire, o anche solo per sentirci connessi o responsabili a quelle realtà. Quello dell’incomunicabilità civile è un tema che arriva da lontano: penso a Bertolt Brecht, che ha usato il teatro per spiegare agli americani com’era stata possibile l’ascesa di Hitler in Europa. Oggi abbiamo l’illusione, quando non l’ansia, di essere informatissimi su tutto ciò che succede, soprattutto attraverso il digitale; ma l’effetto più eclatante di questa infodemia si rivela la passività.
L’esplosione della comunicazione via internet ci rende apparentemente informati e in comunicazione permanente con tutto il mondo, in tempo reale. Il problema è che provoca la reazione contraria a quanto ci aspetteremmo: tutta questa informazione, infatti, non fa che schiacciare l’empatia verso l’altro, perché è rimasta troppo cosciente, non raggiunge un livello di esperienza corporea. Tagliamo sempre di più perfino la comunicazione con noi stessi: andiamo verso un rapporto di esteriorità con noi medesimi, ci guardiamo vivere attraverso la rete, mettiamo la nostra vita in scena e la valutiamo in relazione alla messinscena virtuale. Questo incide non solo nello sviluppo di un’empatia verso chi è lontano, ma anche verso chi ci è più prossimo. In realtà, stiamo perdendo la possibilità di agire, perché l’azione dipende dall’esperienza concreta. E questo è un problema mefistofelico: più abbiamo bisogno di reagire alle grandi minacce, meno siamo capaci di agire. Attenzione, però: non sto dicendo che la tecnologia sia cattiva; dico che facciamo fatica a usarla in modo ragionevole, evitando di sparire dietro la tecnologia. Il web è uno strumento potente che non sappiamo bene come utilizzare. La ricaduta negativa più evidente è il taglio dei legami tra noi e il mondo. 

In questo libro fai un’analisi molto efficace, che spero svilupperai in un ulteriore lavoro, del cambiamento del potere: laddove resiste un impegno radicale di piccole comunità, spesso isolate geograficamente e radicate in una relazione interdipendente con il territorio, nel resto del mondo “non esiste più il Palazzo d’Inverno”, ossia non esiste più un luogo riconoscibile del potere, che si è invece spostato in modo orizzontale. Volendo semplificare, possiamo dire che oggi, anche volendo, non sapremmo dove indirizzare la rivoluzione. Il potere assume oggi forme insidiose; Michael J. Sandel sostiene addirittura che non possiamo più nemmeno parlare di potere, poiché noi tutti siamo complici della finanziarizzazione massiva dei nostri valori etici. Non è un caso che sulla macroeconomia tu punti con decisione il tuo j’accuse. In questo scenario, ti chiedo dunque come percepisci tu oggi il cambiamento del potere e il ruolo del pensiero e dell’azione radicale, segnato anche da posizioni idealiste, come quelle di Greta Thunberg e di Friday for future, laddove sul versante opposto riemerge lo scenario della guerra nucleare.
Noi oggi sappiamo quello che trent’anni fa non era evidente per nessuno: il potere si è spostato, non è più nelle forme abituali (il parlamento, il presidente, ecc.). Il potere è sopra tutto questo: non è localizzabile geograficamente, è sovranazionale, va oltre le istituzioni riconosciute. Per le persone questo è un problema: possiamo eleggere un presidente di destra o di sinistra, ma dal punto di vista macro-economico perseguiranno entrambi la stessa direzione, seppure in modo diverso. È l’economia che dirige il mondo. Un’economia che è un’astrazione in rapporto alla realtà e verso la quale siamo obbligati noi a sistemare le nostre vite reali e non viceversa. Faccio l’esempio dell’Argentina, ma è così in tutto il mondo: non ci sono soldi per gli ospedali e dunque vengono annullate le terapie, chiusi i servizi, perché la realtà la esige. Qual è questa realtà evocata? Quella economica. I bambini che muoiono e gli ospedali che chiudono sembrano meno reali. Parlarne equivale a essere tacciati di idealismo: è questa la perversione del nostro tempo, dove l’astrazione macroeconomia è la realtà, domina il mondo. La macroeconomia non esiste da nessuna parte nel mondo. L’abbiamo visto con il Covid: prima si diceva che non c’erano soldi per pagare i salari, poi è arrivata la pandemia e i soldi ci sono stati lo stesso, anche senza lavorare. Per questo non si tratta più di “prendere il Palazzo d’Inverno” o di “prendere il potere”: si tratta di sviluppare le pratiche concrete che cercano a poco a poco di vedere come possiamo invertire questa situazione. Sono pratiche sistematizzate intorno alla vita reale delle persone e delle comunità e non in nome di questo nuovo dio dell’olimpo capriccioso che è la macroeconomia, che un giorno decide che in una regione vanno chiuse le aziende e spostate (diremmo: delocalizzate) in un altro Paese e questo porta sofferenza reale alle persone, una sofferenza causata in nome di questa sorta di divinità. Resistere a questo non è un ideale politico: deve essere una pratica che permetta, a poco a poco, di re-imparare che la vita non coincide con questa astrazione. E questo è un cambiamento fondamentale ma davvero sfidante: le persone sono infatti abituate a guardare in alto, verso chi incarna potere; che però oggi è, di fatto, assolutamente impotente. 

L’unica cosa che possiamo fare per leggere un futuro incerto e confuso è rifarci a esperienze del passato che spesso nemmeno abbiamo vissuto, bensì documentato attraverso la storiografia. Il nostro scenario appare simile a quello della prima rivoluzione capitalista: da una parte ci sono i gigacapitalisti, emblema di un sistema che autorizza il profitto a qualsiasi costo, dall’altra la difesa dei diritti sociali, che vorrebbe ricostruire l’equità dei diritti. Queste rivendicazioni non riguardano più esclusivamente l’Occidente, avendo superato l’ottica colonialista, e si estendono anche ai Paesi emergenti; dove però imperano gli stessi modelli capitalistici e dominano le medesime regole e ambizioni macroeconomiche. In tutto il mondo, la risposta della destra coincide con la negazione di questo scenario se non con posizioni ultra-conservatrici, che cercano rifugio nell’estremizzazione delle lotte sociali, nella militarizzazione del potere, nella cancellazione dell’alternanza democratica (pensiamo alla moltiplicazione delle cosiddette democrature), nelle dottrine sovraniste. Dall’altra parte, dove non c’è un vero e proprio vuoto, c’è comunque una situazione di confusione poiché la conciliazione tra macroeconomia e diritti sociali è materialmente impossibile. Rispetto a questi scenari, ognuno di noi è certamente troppo piccolo, eppure deve schierarsi, poiché chi non si schiera rimane passivamente dalla parte di chi schiaccia.
Il punto fondamentale è che oggi a essere messa a rischio è la sopravvivenza della specie. Nella grande estinzione che stiamo vivendo, destra e sinistra fingono di prenderla sul serio, ma in realtà continuano a pensare alla crescita, all’aumento della produzione di beni materiali. La nostra epoca è complessa perché non c’è un modello alternativo; e non di meno abbiamo la necessità urgente di sviluppare esperienze capaci di dimostrare che altri modi di vita sono possibili, un altro rapporto con il mondo è possibile. Soprattutto, abbiamo bisogno di superare l’antropocentrismo. Ad esempio, non può esistere un’ecologia antropocentrica: l’ecologia deve non essere antropocentrica.

Siamo riusciti perfino a rendere l’idea di dio antropocentrica, con l’immagine di un papà ariano canuto, inflessibile ma giusto, inventandoci che è stato lui a crearci a sua immagine… e tu vorresti che superassimo l’antropocentrismo per salvaguardare gli ecosistemi? 
Assolutamente sì! Se perfino dio è a nostra immagine, siamo impantanati in un paradosso simile a quello dell’uovo e della gallina! E però è questa la grande sfida: vedere come noi siamo capaci di re-integrare questo tutto, marginalizzando un’idea dell’uomo che coincide con il modello patriarcale, paternalista e coloniale, che sa qual è il bene, modifica il mondo, risolve i problemi. Si tratta di acquisire la saggezza di comprendere che siamo tutti parte di cicli biologici ed ecologici; questa è la sfida. I popoli indios dell’America latina, malgrado la sofferenza e la difficoltà, hanno continuato a vivere così; noi però non possiamo pretendere che nelle nuove Babele delle megalopoli – New York, Buenos Aires, Milano, Roma – si possa vivere seguendo il modello degli indios. Il punto non è quello di “fare come gli indios”, ma di capire come all’interno delle grandi metropoli esistano possibilità di adottare comportamenti più organici, più saggi, più regolati. È questa una forma di resistenza; ed è mille volte più difficile di quella che ho praticato con i miei compagni di lotta contro le dittature. Perché c’è una differenza fondamentale: tutto il popolo argentino – attivi o non attivi –- era contro la dittatura, mentre oggi le persone desiderano questo mondo, dove dominano il funzionamento, la performance, la crescita, il consumo. La speranza che vedo è che esistono sempre più movimenti di giovani e meno giovani che cominciano ad assumere, vivere e desiderare di avere un rapporto con il mondo e con se stessi diverso. Benché nulla sia sicuro. 

I nostri figli non hanno mai conosciuto un mondo senza digitale. E sono affascinati dal metaverso, che viene sempre più spinto perfino come dimensione in cui apprendere. Dire a questa generazione che l’esperienza reale è più autentica e formativa di quella digitale significa dar loro un messaggio che non capiscono.
Anche i genitori sono così affascinati dal digitale che non riescono nemmeno a porsi nella condizione non di opporsi, bensì di imparare ad avere un rapporto più sano con il digitale. Non si tratta di essere tecnofobi, bensì di imparare ad avere un sano distacco dalla tecnologia, evitando di fondere ogni esperienza corporea e diretta nel mondo cibernetico, imparando a relazionarsi agli esseri viventi come, per l’appunto, esseri viventi e alla macchina, correttamente, come macchina. Faccio un esempio banale. Io abito al sesto piano e ho un ascensore. Ma non è perché ho un ascensore che sono diventato fisicamente una gelatina: approfitto dell’ascensore ma continuo ad avere i miei muscoli. In rapporto al cervello e alla vita possiamo fare lo stesso parallelo: si tratta di utilizzare il mondo algoritmico senza che sia una pura perdita per noi. 

E come sempre, ci troviamo di fronte al tema dei temi: la vita, come tale, deve prendere coscienza dei propri limiti.
Il mondo cibernetico rifiuta ogni limite. Ma noi siamo umani e viventi proprio perché limitati. E questo limite protegge la vita, non la confina né la impedisce. 





Photo credits
Copertina – Une Cyrille Choupas