Oltre la Soglia

L’Architetto venuto dal Futuro. Intervista a Franco Fonatti in arte Fonax



Sparsi su un vecchio tecnigrafo tra disegni e memorie I fiori del male, Tormento di Modigliani, Alles ist architetktur‘Tutto è architettura’ – manifesto programmatico di una rivista d’avanguardia pubblicata nel 1968 ma avanti anni luce ancora oggi. Nell’aria c’è musica: punk, grime, jazz. Tanto jazz. E tanto Miles.
«Suonavo il sax, poi a un certo punto ho smesso. Kind of blue è uno dei dischi che più ho amato. Abbagli, visioni, improvvisazioni: ho sempre cercato di dare ritmo alla mia idea di architettura, un’architettura ‘educata’, come spesso l’hanno definita, perché non ha bisogno di fare rumore per essere riconoscibile, apparentemente semplice ma con una costruzione morfologica molto complicata. Poetica, perché legata a un percorso intellettivo di creazione».
Travolta di dipinti, sculture, schizzi d’artista (uno, appeso alla parete, firmato da Carlo Scarpa nel cuore degli anni Settanta), migliaia di libri, volumi, saggi, edizioni limitate o addirittura limitatissime. La casa di Edolo, dove nel 2003 è tornato a vivere dopo una vita da romanzo iniziata proprio in Valle Camonica e poi decollata verso l’altrove, rappresenta oggi il porto sicuro dall’allure museale in cui Franco Fonatti in arte Fonax, professione architetto, 80 anni il prossimo 23 marzo, custodisce pezzi di vita, scritti, fotografie, bozzetti, riflessioni e utopie, progetti compiuti, ancora da compiere o anche immaginati e sospesi nella zona limbica fra le travi del passato. La fuga geografica in Svizzera, poco più che adolescente, quindi l’Austria, all’inseguimento del sogno, direzione Vienna, di cui è cittadino onorario nonché mente dietro ad alcune delle sue costruzioni più iconiche e futuribili.
Nel flusso della sperimentazione, naturalmente protese verso un senso del nuovo che continua tuttora a essere contemporaneo, per non dire avveniristico: «Architettura è la conquista e la costruzione dello spazio, anche se questo spazio è il vuoto» sostiene. «Progettare significa spingersi oltre». Una predisposizione della mente e dello spirito che da sempre accende estasi e turbamenti dell’architetto bresciano di fama internazionale recentemente premiato da LABA (Libera Accademia di Belle Arti di Brescia, dov’è stato anche docente) con un attestato di benemerenza «per il suo straordinario contributo alla ricerca culturale, espressa attraverso un’intensa attività progettuale che dalla parte pragmatica e costruttiva si è estesa all’estetica, alla forma, alla filosofia e all’arte in generale, con attitudine interdisciplinare, sguardo eclettico e visione globale».

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Franco Fonatti, in arte Fonax


La sua è una storia più unica che rara: quasi per caso si è avvicinato al mondo dell’arte alla fine degli anni Cinquanta, seguendo i lavori del nonno intagliatore e restauratore di mobili; da lì in avanti, niente sarà più lo stesso: studierà all’estero (Basilea e Vienna, appunto, città, quest’ultima, nella quale negli anni della formazione ha ‘respirato’ i movimenti delle principali tendenze dell’arte e dell’architettura europee e internazionali), pubblicherà saggi, realizzerà progetti sperimentali e avanguardisti in tutta Europa, intercettando – tra gli altri – figure cruciali del Novecento come Ernst Plischke. Che, seppur in modi diversi, hanno lasciato una profonda traccia nella morfogenesi del suo percorso. Già visiting-professor in numerosi atenei internazionali, da Monaco a Copenaghen, nonché titolare della cattedra di Teoria della Forma e della Figurazione e di Composizione Architettonica all’Accademia di Belle Arti di Vienna, nel 2003 Fonatti è tornato a vivere a Edolo, là dove tutto era iniziato. Un ‘ritorno alle origini’ durante il quale ha riversato le multiformi esperienze pregresse in pionieristici progetti contestualizzati nel territorio bresciano, dedicandosi parallelamente a concorsi di architettura e alla progettazione di edifici pubblici e privati. Per svelare la sua idea di architettura, che punta allo spazio della fantasia: «L’articolazione, l’evoluzione, la differenziazione, il ragionamento sullo spazio…sono questi i fondamentali dell’architettura. Se l’architettura non è in testa, non esiste in nessun altro luogo: è l’arte che rende necessario il superfluo».
E pensare, ironia della sorte, che il suo approccio alla materia fu del tutto casuale, questione di destini incrociati innescati più dalla necessità che dalle velleità.

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Torre ‘IZD’ Vienna, 1966 con: N.F.O.G – E.Resetarits – W.Szolt

«Sono cresciuto senza padre, figlio della guerra» riavvolge il nastro. «A quattordici anni fuggii dalla Valle e andai in Svizzera, iniziai a lavorare in una fabbrica di guarnizioni. Mai mi sarei sognato di fare l’architetto. Eppure via via, curando i particolari di alcuni articoli, mi accorsi di avere una certa predisposizione per il disegno tecnico. Scoprii anche una certa fascinazione per i manifesti pubblicitari: allora erano tutti realizzati a mano, somigliavano a opere d’arte, mi appassionavano. Così decisi di iscrivermi al liceo artistico di Basilea e una volta conseguito il diploma di trasferirmi a Vienna: il primo incontro con Le Corbusier fu folgorante, inatteso, un’autentica rivelazione. Per strane storie della vita mi ritrovai così a frequentare l’Istituto di architettura dell’Accademia di Belle Arti. Lo Stato austriaco metteva a disposizione dei giovani studenti una borsa di studio, ma a quel tempo Vienna era una città inospitale, le ferite della guerra erano ancora aperte e sanguinanti: per un periodo dormii per strada, in riva al Danubio, con la mia valigia di cartone e un vecchio maglione color muschio, regalo di una fidanzatina, che nelle fredde notti d’inverno mi faceva da cuscino, coperta e materasso. Pranzavo sempre in questa specie di mensa popolare, un vecchio scantinato dove ricordo servivano gigantesche Wiener Schnitzel al sapore di cartone. Ne ordinavo due: una la mangiavo subito, l’altra la arrotolavo e la conservavo per cena».
Forte di un talento estemporaneo e fuori dall’ordinario – «da solo il talento però è niente: servono passione e dedizione» – qualche anno più tardi Fonatti diventerà assistente del suo maestro modernista Ernst Plischke, prima, e quindi titolare della cattedra di Teoria della Forma e della Figurazione di Composizione Architettonica proprio all’Istituto Superiore di Architettura dell’Accademia di Belle Arti di Vienna; intercetterà personaggi chiave come Gino Valle e Maurizio Sacripanti, echi Dada e gli albori decostruttivisti di Coop Himmelb(l)au, ma anche l’arte di Mark Rothko e Carlo Carrà, per cui curerà il catalogo di un’importante retrospettiva allestita a Vienna all’inizio degli anni ’80. Golden age protratta fino ai confini del decennio successivo, quando Fonax firmerà alcuni dei suoi progetti più celebri (su tutti, le pionieristiche torri del centro economico-residenziale Wagramerstrasse) e, parallelamente, svariati volumi in lingua tedesca, dai principi elementari di architettura agli elementi costruttivi del già citato Carlo Scarpa, passando per Giuseppe Terragni poeta del razionalismo, opere e progetti di Gustav Peichl e appunti di una visione personale divulgata e non omologata: «Un giorno la polizia postale mi chiamò dicendo che in Germania uno dei miei libri stava circolando ristampato clandestinamente dagli studenti…‘Be’, quale sarebbe il problema?’ ho risposto. L’imitazione è la più alta forma di ammirazione».


E se gli archistar «piacciano o meno, sono segno dei tempi», Fonatti non ha dubbi riguardo alla costruzione più bella del mondo: «Il museo israeliano di Gerusalemme, il santuario del libro, dall’inconfondibile forma di giara, costruito nel 1965 e progettato dal grande Frederick Kiesler!»
Nel mentre, fra riconoscimenti internazionali e nuove ispirazioni, immaginifico e al tempo stesso pragmatico e razionale, nella sua Teoria dell’architettura Sensomobile profetizzava: «L’uomo d’oggi vaga nello spazio, si serve dei computer, ha a disposizione un arsenale affascinante di macchine e cervelli elettronici ma perde le capacità di plasmare con la fantasia e con il sogno di un attimo il lavoro del suo tempo. La maggior facilità si trasforma in inerzia creativa. Il rischio dell’utopia si è dileguato; la città costringe l’uomo, l’uomo accetta». L’antidoto all’immobilismo passivo? «Il desiderio di un’architettura che si strutturi da sé, che si organizzi alle esigenze del tempo, che sappia rispondere alla casualità, che risenta dell’incidente momentaneo, in altre parole che perda qualsiasi carattere di rigidità». Fonatti affidava queste riflessioni ai suoi taccuini intorno alla fine degli anni Sessanta…incontrarlo alla luce del 2022, mezzo secolo dopo, oggi che si divide placidamente tra la quiete della Valle, il fermento della città e un bicchiere di Teroldego, è un’esperienza che induce stupore e meraviglia. Complice anche l’atmosfera mistica delle terre camune, un’avventura quasi catartica. Del resto, dice: «segregarsi e distinguersi rende l’esistenza fisica possibile ed è l’essenza dell’arte. Ciò che conta è l’originalità. Voglio dire, puoi provare tutta una vita a imitare Mies van der Rohe, ma rimarrai sempre un epigone. Meglio cercare la propria strada, no?»