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Ladri di anime. Viaggio in Basilicata con Notarangelo, Pasolini e Levi

In uno scatto divenuto iconico, un elegante Pier Paolo Pasolini si affaccia su uno squarcio di Matera, in una posa plastica che ruba la scena Enrique Irazoqui, il Gesù protagonista della pellicola Il Vangelo secondo Matteo (1964). A scattare quella fotografia, su quel set entrato nella storia del cinema, era Domenico Notarangelo, per tutti semplicemente Mimì, corrispondente dalla Basilicata per l’Unità e attivista politico lucano, uomo di passioni e di lotte che, imbracciando una macchina fotografica, ha fissato per sempre i cambiamenti della sua terra.
Una figura che oggi torna a vedere nuova luce, grazie al documentario Notarangelo, ladro di anime firmato da David Grieco, che torna alla regia dopo La macchinazione (2016) con un lavoro sulle tracce dei luoghi del fotografo, tra piccoli paesi, storie di emigrazione e di battaglie politiche per i diritti degli ultimi. Un viaggio intimo ma anche materiale, che decido di intraprendere con Peppe Notarangelo, il figlio di Mimì che oggi mantiene vivo il nome del padre conservando e valorizzando uno sterminato archivio fotografico, insieme al regista David Grieco e allo storico locale Michele Cecere.

Saliamo a bordo nella nostra macchina a Ferrandina, un paese di poco più di ottomila abitanti in Val Basento. «È un piccolo centro agricolo, come tutta la zona» mi racconta Michele. «Negli anni Settanta è diventato un cimitero industriale, pieno di scorie considerate pericolose, come abbiamo mostrato anche nel film». La speculazione edilizia e industriale sembra essere un tratto distintivo del territorio. «Durante le riprese volevamo riprendere questi siti, ma è arrivata un’auto che ci ha cacciati» mi racconta Peppe, mentre osservo i mostri di cemento armato, ormai abbandonati, dominare la valle. «Questa era la Lucania dell’emigrazione. Le risorse umane se ne andavano, l’unica prospettiva qui era quella di essere servi della gleba. Era gente destinata alla miseria. C’è stato un periodo in cui la politica si è occupata di questo luogo, ma hanno prevalso lo sfruttamento energetico dell’ENI, le trivellazioni, l’industrializzazione gonfiata degli anni Sessanta che era in realtà un’azione politica».
Mentre maciniamo chilometri, osserviamo linee ferroviarie quasi deserte. Infrastrutture deboli, sonnolente, così lontane dall’efficienza nordica. Penso alla figura di Domenico Notarangelo, che ha lottato insieme alla sua gente per costruire un futuro per la sua terra.

PN: Il documentario nasce da un innamoramento di David per la figura di papà. Nel 2016 è venuto a Matera per presentare il suo film su Pasolini, così l’ho chiamato spiegandogli delle foto sul set fatte da mio padre, e ci siamo incontrati. Rimase qui due giorni in più, perché voleva vedere le fotografie dell’archivio.
DG: Quando ho potuto vedere qualche foto di Notarangelo diversa dalle poche che conoscevo, sono rimasto di stucco. Mi sono detto: questo è Salgado, è come Salgado, solo che non si è mai mosso da qui.
PN: Dopo qualche giorno mi ha chiamato: è tornato per vedere altre foto. Poi mi disse: «Peppe, dobbiamo fare un documentario sulla figura di tuo padre». Così è nato il lavoro, intervistando i personaggi del luogo che hanno conosciuto papà.
DG: Sono riuscito ad incontrare Mimì una volta sola. È successo in ospedale. Io volevo intervistarlo, lui era d’accordo, ma stava troppo male. Ha capito chi ero e mi ha chiesto di aiutarlo a proteggere il suo archivio: a quel punto ho pensato che il documentario sarebbe potuto servire a questo.

Notarangelo
Foto di Domenico Notarangelo

La prima volta che ho visto il film, mi sono chiesto come fosse possibile che questa figura fosse così poco conosciuta. La storia di Notarangelo, nato a Sammichele di Bari nel 1930, sembra infatti riassumere in sé il seme dell’Italia del Novecento, tra le rovine delle guerre mondiali e un Dopoguerra dominato dalla ricostruzione e da idee politiche che hanno mosso milioni di persone.

PN: Da ragazzo, papà si era formato per diventare prete ed è invece diventato un comunista militate. Con il sogno ortodosso della stella rossa di Stalin, diventando poi berlingueriano e vicino alle posizioni di Pasolini. La sua storia di comunista è particolare, si avvicina con un atteggiamento ortodosso, con Marx e Engels sottobraccio, e diventa poi un uomo che osserva la fase del compromesso storico.
MC: Era sempre controcorrente. Quando la storia tirava da una parte, lui guardava già ad altro.
DG: Nonostante fosse un responsabile politico, Notarangelo aveva un’apertura mentale inimmaginabile. Perché era sempre vicino ai più deboli e ne conosceva le problematiche e le esigenze. La sua attività culturale era a 360 gradi, senza mai nessuna preclusione.
PN: Da bambino gli regalarono una macchinetta fotografica, ma lui la smontò e la ruppe perché voleva capire come funzionava. Più avanti, quando si fidanzarono, mia madre aveva avuto in dono una Comet III, e iniziò a usarla. Nel 1960 era diventato corrispondente per l’Unità, e iniziò a corredare i suoi pezzi con le fotografie. Mandava il rullino a Roma in redazione, attraverso una rete di compagni ferrovieri: dettava l’articolo al telefono e mandava il rullino. Il ferroviere lo prendeva in federazione, poi arrivava a quello di Bari e infine a quello di Roma. Poi gli rimandavano tutti i negativi, ci teneva molto e li ha conservati tutti: un archivio che conserviamo ancora oggi, sono centomila immagini scattate in quegli anni. Fotografava gli eventi, gli scioperi e la cronaca locale, oltre ai volti dei braccianti, la conformazione dei paesi, la campagna, i riti devozionali, le feste patronali, i santi.

Notarangelo

MC: Questa passione della fotografia gli ha anche nuociuto. Quando girava nei paesi, alcuni con disprezzo dicevano «È arrivato il fotografo!». E persino dentro il PCI veniva visto con un certo sospetto, perché ovunque andasse portava con sé la macchina fotografica. 
PN: I dirigenti del Partito erano tutti sobri, seri, con il lungo cappotto grigio. Invece mio padre era quasi un hippie, indossava grossi maglioni, camicie rosse, era più informale. I benpensanti, l’aristocrazia lucana, lo vedevano di cattivo occhio. Non è stato facile essere suo figlio. Comunista, giornalista… una figura scomoda. Il Partito l’ha osteggiato, la gente per strada a volte lo insultava per le sue idee. Ma mi ha lasciato una lezione importante, e poi teneva molto all’educazione: ricordo che sin da piccolo mi faceva leggere libri impegnativi, dei mattoni. Mi lamentavo, ma poi a scuola prendevo dei bei voti.

Notarangelo

Sono gli anni delle lotte sindacali, e Notarangelo va di casa in casa a parlare con i braccianti e i contadini, oltre a seguire i comizi e gli scioperi. Instaura un rapporto personale con gli ultimi, intrecciando passione politica e ideali di solidarietà cattolica, «portando il Verbo delle idee nelle case». Diventa così segretario provinciale del PCI, e in quegli anni cresce vorticosamente il numero di iscritti al Partito, col culmine delle votazioni del ’76. Anche negli anni successivi, della zona si parlerà di un territorio di sinistra, arrivando addirittura ad essere definita con disprezzo dai berlusconiani come «la fogna rossa».
E, parlando di lotte, arriviamo alle porte di Aliano, neanche mille abitanti, un piccolo comune della Val d’Agri arrampicato su un colle argilloso che sembra poter precipitare da un momento all’altro. È qui che nel 1935 Carlo Levi viene mandato al confino, e proprio qui scriverà il suo capolavoro Cristo si è fermato a Eboli, forse il più grande manifesto poetico che sia mai stato dedicato alla Basilicata.

PN: Quando nel 1945 esce Cristo si è fermato a Eboli, mio padre lo divora. Erano gli anni in cui lo cacciarono dal seminario, perché leggeva Karl Marx ai braccianti. In qualche modo, mio padre aveva già nel sangue quel romanzo: la visione di un Meridione dominato dalla miseria, l’esigenza di fare qualcosa per dare una speranza a quelle persone. Così, quando Carlo Levi torna in questa terra diventa amico di mio padre. Fino alla sua morte, ogni volta che passava dalla Basilicata lo chiamava: «Dai Mimì, andiamo a Grassano a parlare ai contadini!». Passava a prenderlo con la macchinetta del Partito, prima una Cinquecento, in seguito una Seicento, e percorrevano queste stesse strade che stiamo facendo oggi, alla scoperta dei piccoli paesi lucani. Papà mi raccontava che Levi parlava e parlava, e lui stava ad ascoltarlo. Era un’amicizia intima, personale.
MC: Poi nel 1975 Levi muore. Il partito comunista, per mettere pace tra le parti in forte disaccordo della famiglia, decide di seppellirlo ad Aliano. Incaricarono di risolvere i problemi proprio Mimì, insieme a Maria Santomassimo, primo sindaco donna della Basilicata, eletta nel 1973 nelle liste del Partito Comunista.

Mi colpisce molto la figura di questa sindaca, donna e per giunta pure comunista nel Sud degli anni Settanta. Quando chiedo se è ancora in vita, mi propongono di conoscerla. La mia risposta è ovviamente positiva. Maria ci accoglie in casa sua, nella piazzetta del paese; in corridoio e in salotto, mi perdo a osservare alcuni scatti che la ritraggono con Levi. Nella foto che più mi colpisce, Maria sta scendendo dalla scalinata della casa di Levi nel giorno del suo funerale: la posa fiera, che emana una grande dignità e una forza endemica, mentre l’abito svolazza leggermente nell’aria. «Quando era al confino, Levi stava spesso in questa stanza dove ci troviamo ora» ci racconta. «Ci siamo conosciuti quando io ero sindaco, prima non sapevo chi fosse. Da ragazzi, gli insegnanti non ci avevano mai parlato di lui, era una figura scomoda». Maria ci racconta che di tanto in tanto rilegge Cristo si è fermato a Eboli, dentro al quale ritrova molti personaggi che ha conosciuto realmente, dal Podestà Magalone a Donna Caterina, la donna che l’aveva accudita da piccola. Quella era un’Aliano d’altri tempi, che anche il cinema ha provato a raccontare nel 1979, quando Francesco Rosi in questi posti girò l’omonimo film con Gian Maria Volontè nei panni dello stesso Levi. «Volontè mi sembrava sempre triste o arrabbiato» racconta. «Mi diceva che non gli andava di fare questo film, qualcosa non lo convinceva ma aveva accettato per i soldi. Dopo qualche giorno, conobbe meglio il paese e la sua storia, e alla fine la sua interpretazione fu bellissima».
Quando le chiedo della tomba di Levi, Maria ci racconta perché lo scrittore riposi qui e non nella sua Torino: «Poco prima di morire, venne ad Aliano e mi disse che voleva essere accompagnato al cimitero a scegliere il loculo, quasi un presentimento. Quando morì, il partito tappezzò la Basilicata di manifesti mortuari. Tutti volevano la salma: i familiari la volevano, la provincia la voleva, Grassano la voleva, ma l’ultima visita l’aveva fatta da noi, e qui è ancora sepolto nel nostro piccolo cimitero».

Aliano, a casa di Maria Santomassimo
Notarangelo
Maria Santomassimo nel 1975
Aliano, la tomba di Carlo Levi

Ripartiamo verso l’ora di pranzo, lasciandoci alle spalle la storia di Aliano mentre ci accorgiamo che, poco sotto, si erge il piccolo borgo abbandonato di Alianello, sfollato dopo il terremoto in Irpinia. Decidiamo di fermare l’auto e di addentrarci, tra porte sbattute dal vento, finestre cigolanti, gli interni delle cucine degli anni Sessanta che riportano indietro le lancette del tempo. Nella sua irreale fissità, Alianello mi appare come il simbolo di un territorio svuotato dall’interno, dimenticato dalla politica, abbandonato dai suoi abitanti. Nel soggiorno di una casa appare un murales con la foto di Pasolini: «Il cammino incomincia e il viaggio è già finito».
Tornando in strada, al bivio tra Grassano e Tricarico ci imbattiamo nel “Ristoro dell’Anno Santo”, dove sorgeva il bar aperto nel 1950 da Michele Mulieri, un contadino del luogo che qui aprì anche una rudimentale pompa di benzina manuale; quando un automobilista voleva il pieno, il Mulieri spingeva in uno stantuffo per far salire da un tubo la benzina, una faticaccia. Si racconta che una notte Notarangelo e Levi rimasero a piedi lì vicino e andarono a suonargli: Mulieri non aprì, perché temeva fosse una trappola, e chiamò la polizia. Ad ogni modo, l’attività di Mulieri ben presto si attirò le antipatie dell’ENI e della burocrazia statale, che lo cercò di ostacolarlo in ogni modo. Mulieri, anarchico di razza, proclamò allora la “Repubblica dei Piani Sottani”, rigettando le cartelle esattoriali e rifiutandosi di registrare all’anagrafe il figlio. Arrivò persino a scrivere a Mattei, sfidandolo a duello. E scrisse pure, per conoscenza, al sindaco di Tricarico, alla questura, al prefetto di Matera e, giusto per non sbagliarsi, anche al Presidente della Repubblica. Nessuno gli rispose mai. E alla fine vinse lui.

Alianello, la chiesa abbandonata
Il Ristoro dell’Anno Santo

Ma il nostro viaggio è ancora lungo, e dobbiamo ripartire. La tappa successiva è Irsina, altro luogo che Notarangelo negli anni ha fotografato a più riprese, catturandone i movimenti, gli strappi, le ripartenze. Un paese di poco più di quattromila abitanti, nel cuore della Valle del Bradano, da sempre nucleo di tumulti e irrequietudini politiche, fulcro del sogno rosso del Dopoguerra.

MC: Irsina è sempre stata una roccaforte del PCI, sin dal termine della guerra. C’era un’organizzazione sindacale radicata, e c’erano molti tesserati.
PN: Papà era quotidianamente sul territorio a tesserare, a raccogliere firme, a discutere con queste persone. Papà ha vissuto il rapporto col partito come una missione. Poi negli anni è subentrata la disillusione, è stato costretto a lasciare il PCI perché, in quegli anni di compromessi, il pensiero di mio padre dava fastidio. Berlinguer, come mostriamo nel documentario, disse «Notarangelo ha ragione, ma non si può fare». Il PCI era al centro di pressioni, tra Moro, Kissinger, la strategia della tensione, gli americani e i servizi segreti. Oggi sappiamo com’è finita quella storia.

Anche Irsina sembra vivere in una dimensione lontana. La piazza è quasi deserta; resistono alcune insegne del Dopoguerra, come il “Comitato Festa Patronale”. Ricordo gli scatti di Notarangelo: in questa piazzetta un gruppo di bambini giocava a calcio con quella spensieratezza che si può cogliere solo nei volti dei bambini di quegli anni. Chissà dove sono ora. Nel frattempo sulla soglia della Chiesa di San Francesco incontriamo Don Gerardo e il signor Antonio, che ci invita a seguirlo per scoprire una cripta ricca di affreschi, commissionati nel Trecento alla bottega degli allievi di Giotto. Nessun restauro, nessun intervento: abbiamo la sensazione che qui dentro il tempo non sia passato. Mi chiedo se Mimì conoscesse questo posto.

Notarangelo
Irsina negli anni ’60, fotografia di Domenico Notarangelo
Irsina, la piazza oggi
Irsina, la cripta di San Francesco

Dopo ore di pellegrinaggio, ci dirigiamo verso Matera, il nucleo del nostro viaggio. Il 2019 è stato un anno speciale per la città, che ha visto migliaia e migliaia di turisti scoprire i suoi angoli. Centinaia di eventi, realizzati dai comitati, dalle associazioni, dai privati – come il bellissimo festival “Terra del pane” organizzato dalla Fondazione Sassi dall’11 al 20 ottobre in collaborazione con la Milanesiana, il festival ideato e diretto da Elisabetta Sgarbi – per un rilancio culturale e sociale della città. Un punto d’arrivo di un cammino che viene da lontano.

PN: Qui la gente viveva nei sassi in condizioni di miseria assoluta. Poi, grazie al romanzo di Levi, nel 1948 venne in visita Palmiro Togliatti, che per primo parlò di Matera «vergona nazionale» per le condizioni dei suoi abitanti. Due anni dopo, grazie all’azione di Emilio Colombo, venne anche Alcide De Gasperi: la politica decise che era il momento di intervenire. Iniziò una lunga fase di leggi e progetti che porterà allo svuotamento dei sassi. Paradossalmente, è stata l’occasione per proteggere i sassi da un assalto selvaggio dell’edilizia. Furono murati, e per un certo periodo furono anche considerati una zona malfamata, frequentata da piccoli delinquenti, luogo per nascondere le refurtive, qualche tossico. Da ragazzino ci facevamo “i locali”, con le strobo e la musica… oppure qualcuno ci faceva delle palestre rudimentali, o piste per motociclette tra i vicoli e le scalinate. In quegli anni vennero deportate 14.000 persone dai sassi alle nuove case. Fu una grossa operazione, iniziata nel 1954 e durata dieci anni. Pasolini, con Il Vangelo secondo Matteo, arriva praticamente alla fine di questo processo.
MC: Quando Pasolini arriva nel 1963, si accorge che qualcosa non va. Disse: «Avete svuotato i sassi e rischiate di svuotare anche la cultura dei contadini. Li avete deportati da casa loro». In un pezzo importante del documentario, Mimì parla di uno scontro tra lui e Pasolini: lui credeva che quell’operazione fosse giusta, mentre Pasolini aveva visto in anticipo quel problema. Anni dopo Mimì gli darà ragione.
PN: In realtà quell’operazione è stata un fallimento. I nuovi borghi che furono creati, come la Martella, Picciano e Venusio, dopo pochissimi anni sono stati abbandonati da quei contadini. Lo Stato gli aveva dato solo un fazzoletto di terra, che non bastava. E, inoltre, si era perso il vicinato.
MC: Col vicinato, le famiglie che abitavano nello stesso cortile vivevano insieme. La donna più anziana controllava i bambini delle famiglie mentre si andava a lavorare nei campi. C’era una funzione sociale. Oggi invece siamo al paradosso nel quale la nuova classe politica propone “il vicinato digitale”: invece di uscire a parlare nei vicoli, bisogna parlare in una chat.

Matera oggi
Notarangelo
Pasolini sul set di Matera, foto di Domenico Notarangelo

PN: Pasolini arrivò a Matera perché in Palestina non aveva trovato i luoghi adatti al suo film. Bolognini e Lucidi si recarono alla sede del PCI e chiesero di organizzare una sorta di servizio d’ordine che potesse difendere Pasolini dalle continue aggressioni che gli venivano rivolte per strada. Dissero a mio padre: «Mimì, occupatene tu», quasi fosse una seccatura. Pasolini era stato espulso dal partito, non era benvoluto. Mio padre fu entusiasta, aveva già visto Accattone e aveva letto i suoi libri. Quando si incontrano, Pasolini riconobbe in mio padre una persona interessante, e nacque subito un’amicizia. Pasolini iniziò a chiamarlo sempre più frequentemente, e David ricorda che, quando Pasolini tornò da Matera, aveva un pacco di fotografie di volti: erano le foto che mio padre gli aveva dato. La sede del partito stava a pochi metri dall’Hotel Jolly, oggi San Domenico. Papà lo accompagnava a scoprire i luoghi del film, quasi tutto girato nel territorio in luoghi come Barile, Lagopesole, Gioia del Colle, Massafra e Castel del Monte. A Matera c’è il Golgota e poche altre scene. Nel film, si ha spesso l’impressione che Pasolini metta in scena le fotografie di mio padre.
DG: Notarangelo è stato fondamentale per Pasolini. Gli ha trovato tutte le facce degli interpreti secondari, e tutti sappiamo quanto sono importanti quelle facce nel film di Pasolini.
PN: Il regista volle papà persino nel film, insieme ad Alfonso Gatto, Natalia Ginzburg, Elsa Morante e sua madre. Dovette insistere, perché mio padre diceva che aveva da fare. Alla fine lo convinse, a patto che gli facesse fare un po’ di fotografie sul set: Pasolini acconsentì. Mimì teneva la macchina fotografica sotto il gonnellino da centurione, in mezzo alle gambe. Nelle pause, tirava fuori la macchina fotografica e faceva le foto. Pasolini a volte si accorgeva delle difficoltà di mio padre, e quasi lo aspettava in posa. In alcuni scatti questa sua attenzione si nota: Pasolini percepisce la presenza della macchina fotografica, e si dona.
DG: Con le sue foto che hanno fatto il giro del mondo, Notarangelo ha fatto diventare il Vangelo di Pasolini un film ancora più mitico di quanto non lo fosse già. Senza contare che le accese discussioni politiche tra i due, cioè tra un comunista ortodosso e un comunista evangelizzato, hanno probabilmente influenzato qualche decisione del regista sul set.
PN: Tra Pasolini e noi si è creato un legame. Durante una delle tre giornate di riprese, papà mi portò sul set, e Pasolini mi prese in braccio. In seguito, nella mia vita ho letto e guardato le sue opere a più riprese, dai film ai documentari alle interviste. Comizi d’amore credo d’averlo visto almeno cinquanta volte. Pasolini ti conquista piano piano, per la brillantezza del pensiero. Mi ricordo bene quando lo uccisero, fu una morte che ci colpì tutti, pensammo subito che dietro alla versione di Pelosi ci fosse nascosto ben altro.

Notarangelo
Pasolini sul set di Matera, foto di Domenico Notarangelo
Il set di Matera, oggi

In questo luogo, che sembra poggiare le proprie fondamenta sul sacro, termina il nostro viaggio. Il mio pensiero non può non andare, un’ultima volta, alla passione di Notarangelo, e alla sua ossessione per la conservazione della memoria. Nel documentario, vediamo scorrere centinaia di fotografie storiche, alcune scattate da Mimì, altre salvate dal macero grazie alla sua caparbietà.

PN: Un giorno un compagno lo chiamò: «Mimì, c’è bisogno di un armadio libero e vogliono buttare tutti quei vetrini che tu hai detto essere preziosi». Corse lì, li salvò letteralmente dal secchio dell’immondizia. Alcuni erano rotti, furono riparati. Diceva sempre che la memoria va conservata, non va dispersa: aveva il terrore che non rimanesse traccia di quella Matera.
MC: Erano quattro scatole di scarpe, piene di vetrini del genio civile che documentavano le edificazioni della Matera degli anni Cinquanta, i rioni creati dopo lo svuotamento dei sassi. Dove c’era la campagna, ora c’è la città: via Dante, via Nazionale. Notarangelo salvò tutto quell’archivio.
PN: Tutto quel materiale finì nella mia cameretta quando ero un ragazzino. Praticamente vivevo in un magazzino riempito di scatole piene di vetrini, fotografie, riviste e giornali d’epoca. Tutto era memoria. Oggi l’obiettivo è tornare a dare una vita a quell’archivio grazie a questo documentario, e trovando una giusta collocazione a tutto questo materiale. Vorrei creare un centro multimediale molto simile a “Il Subbio”, la galleria d’arte che aveva creato mio padre negli anni Settanta, dando continuità alle sue idee e a tutto ciò che ha fatto nella sua vita. Ha sempre voluto preservare la memoria, il ricordo: far vivere un archivio significa portare avanti il suo pensiero.

Notarangelo
Domenico Notarangelo
Notarangelo
Matera, Lucania ’61

È ormai sera. Le nostre strade si separano sulla soglia di Palazzo Lanfranchi, dove oggi è custodito Lucania ’61, la grande tela di 18×3 metri che Carlo Levi dipinse in occasione dell’anniversario dell’Unità d’Italia. Levi scelse alcuni scatti di Mario Carbone, divenuti il modello per alcuni volti del quadro, che ne ospita centinaia; tra questi, quelli di Rocco Scotellaro, Giuseppe Zanardelli, Francesco Saverio Nitti, Giustino Fortunato e Guido Dorso.
E mentre saluto Peppe, David e Michele, non posso non continuare a indagare la sezione sinistra del dipinto, dove un gruppo di umili braccianti ci interroga e sembra emergere dall’oscurità dei sassi di Matera, quasi a riaffermare al mondo la propria presenza, con durezza, con forza, con dignità. Soprattutto, con uno sguardo. Troppo simile a quello catturato dalla macchina fotografica di Mimì.

Tutte le fotografie del viaggio sono scattate da Roberta Giuliano.
Limina ringrazia la Fondazione Sassi e Vincenzo Santochirico per l’accoglienza.

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