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La trap è ancora il nostro specchio nero?

Dentro “Maxi-rissa. I diari della trap” di Piccinini e Robertini, tra apocalisse pop, sociologia popolare e realismo capitalista

Non sappiamo se la trap sia ancora lo zeitgeist. Forse lo è stata. Negli anni scorsi si leggevano paragoni più o meno legittimi con quel punk che nel 1977 cambiò la geografia urbana di Londra e del mondo intero, come il grunge che si dissolse tra i flannel di Seattle, o come l’hip hop di Public Enemy e degli Articolo 31 che per un decennio ci raccontò la periferia milanese nelle sue mille sfaccettature. Ora – nel pieno del 2025 – la trap è ormai uno dei più importanti fenomeni considerati “istituzionali”. Ecco perché la domanda non è se la trap rappresenta ancora questo momento storico, ma quanto tempo ci abbiamo messo per capirla davvero e parlarne da adulti, puntando il dito contro noi stessi?

In Maxi-rissa. I diari della trap (Nottetempo), Alberto Piccinini e Giovanni Robertini non pretendono di spiegare il fenomeno come farebbe un sociologo puro. Lo seguono. Lo ascoltano. Lo smontano e lo ricompongono come si fa con un oggetto troppo rumoroso per restare spento. Il loro approccio è “da dentro” e “da fuori” allo stesso tempo. Un viaggio tra Milano e Roma, nella“BerluscaTrapposfera”, negli after show e nelle fenomenologie che tanto hanno caratterizzato il momento di rottura. Piccinini e Robertini non fanno né retorica sterile, né sociologia da salotto, ma guardano con sincera passione e curiosità un fenomeno che non vogliono giudicare, ma comprendere.
È lo sguardo di due uomini di Generazione X — giornalisti, critici, agili equilibristi tra cultura alta (da XL a Alfabeta) e cultura di massa (da MTV ai party nel Bronx milanese) — che si mettono in ascolto nonostante tutto: l’età, il pregiudizio, l’abisso anagrafico. E nel farlo, regalano forse uno dei libri più vivi sulla trap italiana perché ci fa vedere il fenomeno attraverso gli occhi di chi l’ha vista nascere, crescere e tramontare (almeno come fenomeno di rottura) sotto gli occhi di Internet, dei talk show e dei talk show satirici.

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Molto spesso, quando si parla di trap i più critici (tra cui chi scrive) pensa spontaneamente: «Come fai ad ascoltare ’sta merda?». Questa è anche la prima frase del libro, un’esclamazione che più che generazionale è un’aggressione culturale. Non è l’osservazione di un boomer, ma l’espressione spontanea di un giornalista rock che si chiede se la trap — con i suoi testi su fucili, Rolex e soldi liquidi — sia solo un rumore insopportabile o un documento necessario. È lo schiaffo che molti si danno prima di accendere Spotify e fare finta che Baby Gang, Sfera Ebbasta e Shiva non esistano.
Le “track” del libro non sono canzoni, sono sezioni tematiche: «La trap e l’estetica del percepito», «Sanremo autotune», «Feat Neima Ezza», «Femminismo baddie», «Il Berluscaverso», «La fede di Fedez» e molte altre. È un flow con cui gli autori cercano la mimesi. Il risultato è un diario urbano in cui ogni capitolo è un collage di interventi rap e scritti critici, come se leggessimo un noir americano sotto autotune. Con piglio affilato e attenzione costante ai dettagli pop, gli autori attraversano il linguaggio, la mitologia e il contesto della trap italiana come se fossero cronisti di guerra culturale. Ogni tanto passano Mark Fisher («la bipolarità del tardo capitalismo»), Carla Lonzi («la mia porzione di luce»), Walter Siti e Kendrick Lamar per ricordarci che la trap è un prisma di molte influenze: soul, afro-beat, drill, soundcloud rap, emo trap. Non cercano padri nobili: li evitano. Ma ogni tanto storie di Er Monnezza, dee del rap francese, e il deepfake di O.J. Simpson in mezza frase ci ricordano che la trap, come ogni genere che conta, è un universo molteplice. Il risultato è sorprendente: più che un libro sulla trap, è una cartografia delle nostre ossessioni recenti.

Per anni siamo stati circondati da persone che cercavano di convincerci che la trap fosse il linguaggio del reale: i palazzoni delle periferie, il riscatto, le tensioni sociali. Era vero almeno quanto era vero che gli anni Novanta avevano il film di Ken Loach e le radio libere per raccontare la working class. Ma ora – nel 2025 – la trap è già stata metabolizzata dal mainstream: le hit di Sfera Ebbasta non scandalizzano più nessuno; le interviste al Corriere della Sera non fanno più notizia. Tutti sanno che «la vita vera è un reality show» e nessuno osa più dirlo. Maxi-rissa ci pone davanti a un’altra possibilità: che la trap sia già diventata una forma di estetizzazione postuma, un filone consolatorio, un meme in loop. Non più ribellione, ma ripetizione. Non più documento, ma formato. Non più scontro, ma merce. I ragazzini “maschi Tony” vogliono la felpa “I ♥ Tony” invece del pacchetto di sigarette a credito; le ragazzine vogliono irritare i genitori con il “femminismo baddie”, con filtri Instagram a colpi di lipstick. La trap è reale, ma forse non è più vera; e Maxi-rissa insinua il dubbio che lo sia stata davvero se mai lo è stata.

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Kendrick Lamar / Dark Polo Gang

Eppure, come scrivono gli autori, questa estetica iperrealista continua a parlare a chi non vuole più sentirsi raccontare favole educative. Vengono citate le risse di Baby Gang e Simba La Rue, la “trap e genocidio” a Rovereto, la “sparatoria nel cortile della Dark Polo Gang”. Il successo non è morale, è meteorologico: piove Rolex come pioveva pioggia acida negli anni Ottanta; e chi non ce l’ha si bagna lo stesso. È il capitalismo che si guarda allo specchio e si trova cool. Nessuno si salva, nemmeno chi scrive sul durissimo di un campo da basket.
Kendrick Lamar o Travis Scott ci hanno insegnato che meta-poesia e autoanalisi sono all’ordine del giorno. Qui in Italia, il disegno è lo stesso: svelare l’innesco di violenza e consumismo. Ma dal momento in cui Fedez si è fatto selfie con Draghi, il confine tra opposizione e mainstream si è polverizzato. La trap non è placata dalla politica, ma alimentata da ogni talk show pomeridiano che vorrebbe riprodurre lo stesso schema di paura e clickbait.

C’è qualcosa di molto interessante nell’atto di Piccinini e Robertini, ed è lo sguardo della Generazione X, quella dei padri cinquantenni di oggi, che ha vissuto la prima onda di rap italiano negli anni Novanta. In Maxi-rissa, ogni capitolo è un dialogo invisibile con la Gen Z: quella che a tredici anni sogna di fare il trapper invece del calciatore; quella che si sveglia alle quattro per postare i video su TikTok o fare collab con Lazza e Lazza risponde con un follow su Instagram. Il risultato è una sorta di guerra fredda culturale: chi ha vissuto la mutazione post-rock e post-rave, ora sopravvive in un mondo dove il silenzio è diventato un beat e la parola non ha più grammatica se non quella dell’odio. Gen X e Gen Z sono unite dalla convinzione che la musica possa ancora dare un senso. Ma sono divise dalla consapevolezza che la sua forza dirompente, per la Gen X, fosse la promessa di cambiare il mondo mentre per la Gen Z è la ricerca della celebrità, anche solo per ridere. La Gen X si chiede se la trap sia ancora un atto di resistenza o semplicemente un prodotto confezionato dalle etichette major.
È interessante anche leggere come la trap sia una possibile lente per comprendere meglio lo stato culturale del paese. In questo, si tratta di un vero e proprio aggiornamento dei ‘costumi di casa’ di cui parlava Umberto Eco. Sembra che ogni volta che la classe dirigente cerchi un nemico, scelga il rap come capro espiatorio. Così le accuse di misoginia a Tony Effe, la richiesta di censura di Elena Donazzan per Simba La Rue e Niky Savage, diventano una farsa grottesca.

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Travis Scott / Simba La Rue

Così, mentre la politica declama guerra alle “cattive influenze” (EXPLICIT LYRICS), la Gen Z compra borsette Miu Miu e va a concerti che costano settanta euro in prevendita. Abbiamo sdoganato la trap, adesso il problema è sdoganare la realtà. In un paese che sta vivendo un clamoroso, interminabile interregno, la trap diventa il nuovo nemico pubblico: lo specchio in cui i politici, i giornalisti, i blogger vedono riflesso il proprio terrore di perdere consenso. È la generazione che ha inseguito il sogno di cambiare il mondo, ora mentre la Gen Z passa al giro successivo, la Gen X cerca di capire se il nemico sia ancora quello di una volta. La domanda che dobbiamo farci nel 2025 quindi non è più se la trap sia violenta, sessista o volgare. Bensì: perché ha rappresentato così bene questo momento storico e come mai abbiamo cercato di usarla come meccanismo di redenzione?

Maxi-rissa restituisce un’immagine a tutta larghezza di un fenomeno sinceramente generazionale. Forse la trap è ancora lo specchio nero del Paese perché non ha mai preteso di salvarci, non ha mai avuto una forma salvifica. È la musica di chi non crede nel lieto fine, ma nel finale a effetto. Di chi non chiede il permesso, ma una story da cancellare all’alba. E in questo, è ancora lo specchio di un’Italia che non riesce a guardarsi in faccia se non truccata.
Il libro di Piccinini e Robertini non ci riconsegna la trap, ma ce ne mostra le contraddizioni e i suoi punti di interesse. Non è una mappa, ma un sismografo. E forse è proprio questo il punto: non serve più un manifesto. Serve un archivio emotivo. Un diario della catastrofe quotidiana, da leggere come una track. Come se nello specchio nero vedessimo riflessi i nostri fantasmi.

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