Oltre la Soglia

La marionetta, gli eterni, il fanciullo: una metamorfosi post-moderna

Lo dormì, il mondo

R. M. Rilke, Sonetti a Orfeo

Nell’introduzione alla Cospirazione contro la razza umana Thomas Ligotti presenta l’essere umano come una marionetta. Più precisamente, come una marionetta che si libera dei suoi fili e si muove da sola, o perlomeno si illude di farlo. Un paradosso perturbante, di cui l’umanità non vuole prendere atto, che il filosofo delinea nel corso del libro alla luce del pensiero di Peter Wessel Zapffe. Nell’Ultimo messia il pensatore norvegese articola quello che Ligotti definisce il paradosso di Zapffe, ovvero la nostra capacità di autoingannarci, attribuendo alla vita un valore che non ha. Questo processo sarebbe l’esito di una relazione di quattro differenti strategie – l’isolamento, l’ancoraggio, la distrazione e la sublimazione – che gli esseri umani mettono in atto per sentirsi vivi, coscienti, autonomi. Ligotti sintetizza questa condizione con una visione angosciante:

«Senza questo imbroglio cognitivo saremmo messi a nudo per quello che siamo. Sarebbe come guardare in uno specchio e, per un istante, scorgere sotto la pelle il teschio che ci guarda di rimando con un sorriso sardonico. E sotto il teschio… solo le tenebre, il nulla. Qui c’è qualcuno, così ci sembra, eppure nessuno è qui: il perturbante paradosso, l’orrore visto di sfuggita. Un piccolo pezzo del nostro mondo è stato scorticato via e sotto c’è una desolazione cigolante, un luna park dove tutte le giostre sono in movimento ma nessun visitatore occupa i loro sedili. Non siamo presenti nel mondo che abbiamo creato per noi stessi. Forse se potessimo osservare isolati e con gli occhi ben aperti le nostre vite, comprenderemmo che cosa siamo realmente. Ma questo fermerebbe la giostra e noi preferiamo pensare che girerà per sempre.»

La Cospirazione vuole mostrare la validità filosofica del pessimismo, storicamente schiacciato dalla maggioranza di ottimisti che ha orientato lo sviluppo del pensiero, al fine di liberare la mente umana dall’autoinganno e prepararla all’unica realtà: l’orrore della morte. Nel tempo trascorso in vita, dunque, l’umanità si trascinerebbe come un’orda di zombie su questo cosmo scadente, oscillando tra la menzogna e la depressione. Una peregrinazione – ontologica della specie quanto argomentativa del filosofo – unilaterale e incessante, ma non per questo priva di potenti immagini e profondi riferimenti. Oltre a Zapffe, Ligotti si rivolge direttamente al pessimismo cosmico di Howard Phillips Lovecraft e naturalmente al pensiero di Arthur Schopenhauer, il primo autentico pessimista della contemporaneità.

 Per Schopenhauer, che attualizza Platone alla luce di Kant e di parte della filosofia indiana, la realtà è illusoria. Di fatto «tutto ciò che esiste per la conoscenza, e cioè il mondo intero, non è altro che l’oggetto in rapporto al soggetto, la percezione per lo spirito percipiente; in una parola: rappresentazione». Dietro a quest’illusione fenomenica (tutt’altro che oggettiva al contrario della teoria kantiana) si cela il noumeno, la volontà, che è cieca, inconscia, unica, indivisibile e spinge ogni cosa ad autoaffermarsi, oggettivandosi nel tempo e nello spazio in diversi gradi. Nascono così le idee e conseguenzialmente gli enti individuali, tra cui l’essere umano, segnato irrimediabilmente dall’insoddisfazione. L’incessante ansia di autoaffermazione, infatti, si scontra con la strutturale manchevolezza. L’impotenza dà così origine alla sofferenza, che genera il dolore, in uno sfondo continuo caratterizzato dalla noia. L’autentica liberazione può avvenire soltanto attraverso la rinuncia alla volontà di vita (Wille zun Leben) al rifiuto dell’individualità e all’accettazione dell’unica verità: la noluntas, l’oceano di quiete, il nulla. Nelle pagine conclusive del Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer sancisce l’inevitabilità di tale approdo, con la consapevolezza dello svuotamento di senso che ne deriva:

«Per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla.»

Pedine nelle mani di una volontà oscura. È la realtà che sperimentano anche gli esseri umani di Sandman, la visionaria graphic novel di Neil Gaiman, un vero e proprio esempio di grande letteratura a colori. L’intricata vicenda e le numerose sotto-trame si svolgono in un mondo, il nostro mondo, plasmato dall’azione perpetua degli eterni. Queste sette entità – Destino, Sogno, Desiderio, Disperazione, Distruzione, Delizia/Delirio, Morte – possiedono regni propri, determinano gli eventi, delineano storie, si intromettono in altre, amano, odiano, abdicano, muoiono, rinascono. Come sottolinea Gaiman:

«Gli Eterni non sono dei, dato che, quando le persone non credono più negli dei, loro smettono di esistere. Ma finché ci saranno persone in grado di vivere, sognare e distruggere, desiderare, disperarsi, provare delizia o impazzire e influenzare le vite altrui, allora gli Eterni continueranno a esserci e a svolgere le proprie funzioni. A loro non interessa che voi crediate in loro o no.»

Sandman è uno spaccato mitologico in una società postmoderna, in cui gli dèi tradizionali hanno perso potere nelle vite delle persone, ma in cui il mondo è comunque orientato dall’azione di queste forze, tutt’altro che infallibili e non sempre responsabili verso sé stesse e chi le circonda. Di contro all’ineluttabilità del fato, contenuta nel libro che Destino tiene perennemente incatenato al suo polso destro, Morfeo, il re dei sogni, è il personaggio che più suggerisce la possibilità di incidere nella propria vita. Non soltanto attraverso la commistione tra il regno del sogno e quello della veglia, che stravolge le vite degli umani coinvolti, ma anche con le sue azioni. Nel primo numero il protagonista, dopo una prigionia di settant’anni, è in viaggio tra i reami per recuperare i suoi strumenti. Per riprendersi l’elmo si reca all’Inferno, dove è costretto a sfidare il duca infernale Choronzon, suddito di Beelzebub, mettendo in gioco la sua libertà. La battaglia è verbale, l’arma è la dialettica. I due contendenti si alternano nella creazione di un’entità in grado di sconfiggere la precedente. La preda viene uccisa dal lupo, che viene trafitto dal cacciatore e così via. Si giunge alla fine quando:

C:  «Io sono una nova che tutto fa esplodere e annienta i pianeti».

M: «Io sono l’universo che comprende ogni cosa e abbraccia la vita».

C: «Io sono l’anti-vita. La bestia dell’apocalisse. Sono il buio alla fine di tutto. La fine degli universi, degli dèi e dei mondi, di ogni cosa. Sss. E ora tu che cosa sei, signore dei sogni?»

M: «La speranza».

Si chiude il sipario. La speranza riempie il nulla, Morfeo sconfigge Choronzon, Gaiman annienta Schopenhauer. Magari lo ha anche pensato, mentre scriveva.

Tuttavia tra i due c’è una certa affinità di fondo. Nel Mondo come volontà e rappresentazione, Schopenhauer ricorda come i Veda e i Purana presentano il velo di Maya – il manto che avvolge il noumeno e lo deforma in rappresentazione – alla stregua del sogno. Il presunto mondo reale, dunque, è modellato dai sogni, che sono rappresentazioni delle idee, a loro volta oggettivazioni della volontà. Similmente, nel celebre mito della caverna contenuto nella Repubblica, Platone accosta la dimensione onirica alla realtà sensibile. Sintetizza puntualmente la studiosa Isabella Capitani: «Come gli abitanti della caverna sono ingannati dalle ombre, così noi, finché siamo coinvolti nella rete dei sensi, crediamo di essere desti e invece stiamo dormendo». Per Platone, però, il confine tra il mondo del sonno e quello della veglia è netto, tanto che il filosofo è colui in grado di allontanare le ombre del sogno con la lucidità della ragione. Diversamente la visione schopenhaueriana e le visioni gaimaniane sembrano coincidere negli echi onirici dei Sonetti a Orfeo di Rainer Maria Rilke:

«Solo nel duplice regno le voci si fanno miti ed eterne»

Il sogno come metafora dell’esistente, in cui i confini tra i regni sono labili, proprio come in Sandman. Dal canto suo, nella Cospirazione contro la razza umana, per bocca del Professor Nessuno, Ligotti afferma lapidariamente: «Se la vita non è un sogno allora nulla in essa ha senso. Perché in quanto realtà, la vita è un grossolano fallimento». Il sogno come riscatto dell’esistente, in cui i rispettivi eventi si ripercuotono vicendevolmente, proprio come in Sandman.

 Alla fine del penultimo numero della graphic novel Morfeo, Sogno degli eterni, muore. Viene ucciso dalle erinni, dopo essersi macchiato del sangue di suo figlio Orfeo (che l’ha implorato di farlo) e aver generato una concatenazione di eventi sviluppata durante tutto l’arco narrativo. Subito dopo rinasce, in forma rinnovata, con una nuova individualità, ma con la medesima essenza. Perché questo è, è stato e sarà: eterno. Sulla scia di Schopenhauer, Friedrich Nietzsche riconosce l’insensatezza della vita derivata dal dominio passivo della volontà, segnata dall’affermazione di un destino immutabile che ritorna eternamente. Di contro all’ascesi schopenhaueriana, però, indica nella volontà di potenza la via da seguire. Non la rinuncia, bensì l’accettazione della vita nella sua insensatezza e paradossalità è l’orizzonte di senso dell’Übermensch, al di là del bene e del male. In quel meraviglioso sogno a occhi aperti che è il Così parlo Zarathustra, annuncia le tre metamorfosi dello spirito per l’oltre-uomo. Da cammello, in grado di sopportare le sofferenze terrene, si dovrà fare leone, capace di dominarle, potendo dire no ai propri doveri. Infine dovrà mutare in fanciullo:

«Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un giuoco, una ruota ruotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il giuoco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì: ora lo spirito vuole la sua volontà, il perduto per il mondo conquista per sé il suo mondo.»

 Una metamorfosi danzante, rinnovatrice di valori, per dipanare le ombre del nichilismo e cavalcare le melodie distorte del grande gioco cosmico. Un processo umano, troppo umano, attraverso il quale anelare al divino pur restando fedeli alla terra, con la consapevolezza rilkiana di essere parte della totalità, a cui sempre tornare:    

«E se il mondo ti avrà dimenticato,
dì alla terra immobile: Io scorro.
All’acqua rapida ripeti: Io sono.»

L’affermazione della vita, nonostante i fili penzolanti sulle spalle, le trame degli eterni e il Destino che è, è stato e sempre sarà. Un sacro dire sì, nonostante tutto.

Immagine di copertina: Tina Modotti, Marionettes, 1929