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La lingua sorgiva. Una conversazione con Massimo Silverio



È un canto che sembra sprigionarsi direttamente dal cuore di tenebra della montagna, quello di Massimo Silverio. Classe 1992, nativo di Cercivento, un piccolo paese di circa seicento abitanti nel cuore della Cjargne, la Carnia, laddove l’Austria si riversa sul confine e le Alpi si fanno selvagge, Silverio ha esordito nel novembre dello scorso anno con Hrudja (Okum produzioni), disco rivelazione per le maggiori riviste di settore, accolto come un lampo luminoso nel panorama nazionale (e internazionale, leggasi alla voce Iggy Pop per la BBC).
Un album, quello di Silverio, che traduce in partitura musicale per voce e melodia il genius loci carnico, un lavoro che sembra assorbire tutta l’irrequietezza di una terra di confine e della sua lingua, il cjarniel, lingua minoritaria delle Alpi Carniche, che oggi appare come la rifrazione di un mondo arcaico e primordiale, un alfabeto sotterraneo intriso di lirismo e di musica che Hrudja riporta alla luce attraverso dieci brani tesi e sognanti, tra i quali spiccano Šchena con i suoi violoncelli nervosi, l’inquietudine sotterranea pronta ad esplodere di Jevâ e l’andamento onirico di Nijò. Un ponte, quello creato dall’artista, che sembra coniugare l’antico con il contemporaneo, passando dall’acustico all’elettronico, dal canto popolare alla poesia. Dal bisbigliare delle streghe al canto angelico di un cielo oscuro improvvisamente rischiarato da un nuovo sole, attraverso parole-radice come algò (da qualche parte), grim (grembo, madre), criure (il gelo, la morte) e colâ (cadere, il sogno).
È dunque una nuova dimensione, quella ricreata dalla musica di Massimo Silverio. Un personale modo di guardare e di sentire, al centro dell’intervista che abbiamo realizzato in occasione del concerto che terrà domani sera a Brescia al MITA Centro Culturale all’interno della rassegna Voices. Hybritude Music, che esplora le ibridazioni possibili tra voce e suono.

massimo silverio

Hrudja è un avvenimento musicale che non può passare inosservato. Eppure definirlo “disco” mi appare riduttivo, quasi semplicistico, perché lo relega solo nell’ambito musicale, quando mi sembra rivolgersi a un territorio artistico più ampio. Forse sarebbe più corretto parlare di progetto. Come nasce?
In questi anni mi sono spesso interrogato sulla mia identità, e l’ho fatto con più insistenza quando sono arrivato ai trent’anni. In passato avevo fatto molti esperimenti musicali, avevo già scritto canzoni in italiano. Chiedendomi quale fosse la mia vera identità, quella più profonda, ho capito, soprattutto cantando le mie canzoni davanti a un pubblico, che quando canto in questa lingua, che è il carnico, è come se rappresentasse per me una presa di posizione. Sento di abitare completamente quelle parole, le sensazioni che sentivo in quelle canzoni: nel momento della scrittura, il carnico mi riporta a quello che voglio trasmettere, e mi permette di farlo nel modo più puro possibile. È come se dentro la mia anima, quando rifletto tra me e me, parlassi in quella lingua, in quel friulano arcaico.

Una riflessione, la tua, che ha trovato infine una forma, ed è sfociata in quest’opera della quale si sta molto parlando.
Ad un certo punto si è presentata la possibilità di registrare il mio disco d’esordio, e ho preso la decisione di farlo mettendo al centro la mia lingua. Si trattava per me anche di fare un tentativo, di mantenere viva una certa fiamma, alimentata da una lingua sempre meno usata nella musica, e oggi in via di sparizione anche dalle bocche di chi abita le mie terre. È nato così questo disco, che è sicuramente legato a un discorso territoriale ma che può potenzialmente comunicare a chiunque. Durante la fase di registrazione, in molti pensavano che la mia scelta sarebbe stata un limite per questo lavoro, ma io non l’ho mai vista in questo modo. Continuo a pensare, al contrario, che sia una potenza. Un linguaggio che aggiunge sincerità a ciò che canto, perché sgorga in modo spontaneo. Credo ne sia nato un disco sincero, che parla direttamente a chi lo ascolta.

Tutto si inscrive sotto un nome, Cercivento. Seicento anime, l’austerità dei sentimenti, la vicinanza delle montagne che sono simili ad una presenza umana, dotata di una parola “altra”.
Da qualche anno vivo a Udine, ma sono nato e cresciuto a Cercivento dove probabilmente tornerò a vivere in pianta stabile molto presto. È un piccolo paese montano, la mia infanzia in questo luogo si può definire in qualche modo estrema, e mi reputo fortunato ad averla vissuta così. Mi interrogo spesso su questo enorme dono: un bambino che ha avuto la possibilità di crescere in mezzo ai boschi, tra i fiumi, giocando sempre nel verde e nella natura. Ricordo che spesso guardavo le montagne e mi chiedevo cosa ci fosse al di là, che tipo di vita si facesse. Poi è arrivata la crescita, quella voglia che ti porta ad uscire, a scoprire cosa c’è all’esterno. Volevo far uscire il mio canto al di là di quelle montagne. E ora, nonostante io sia più “sparpagliato” per il mondo, “su” ci torno sempre. Dove tutto è nato. Il mio bagaglio culturale sono tutte le persone con le quali sono cresciuto. Persone di tutte le età, i miei coetanei certamente, ma soprattutto gli anziani, coloro che mi hanno insegnato spontaneamente la lingua, senza lezioni ma semplicemente parlandola nel quotidiano. Nelle loro parole sono passate epoche, suoni, tradizioni, storia. Vivere accanto a loro mi ha fatto capire cosa significa esistere in una minuscola comunità che cerca di tenersi unita, nonostante ognuno abbia la propria sensibilità e il proprio percorso, un modo di vivere che mi ha molto aiutato nella mia crescita personale.

massimo silverio
Credits: Maja Ceschin

Sembra il luogo d’incontro ideale tra il piano del reale e una componente magica, legata allo spirito che risiede negli elementi naturali. E, del resto, nella tua musica e nei tuoi testi questo aspetto mistico non può sfuggire all’ascoltatore. È un elemento che senti appartenere al tuo percorso personale?
Cercivento in latino significa “circondato dai venti”. In passato è stato un luogo ricco di echi e suggestioni. Sopra al paese, sulla cima del Monte Tenchia, c’è un luogo chiamato il Pian delle Streghe (Plan das Strias), e per forza di cose sono cresciuto ascoltando molte leggende sulle aganes (streghe in friulano) e altre storie fantastiche che arrivano direttamente dalla tradizione. Un universo narrativo per me decisivo. Da piccolo facevo spesso passeggiate con mio padre, risalendo montagne, crinali, boschi remoti. Durante queste intense esperienze, mi venivano raccontate in diretta curiose storie sugli spiriti che abitavano i boschi, ma soprattutto i crepacci incastonati tra le montagne, dimora della Aganes. In un qualche modo tutto questo mondo è entrato nel mio immaginario. Infatti, per un bambino di cinque o sei anni che partecipa alle feste paesane, sentire le donne più anziane cantare le tradizionali “villotte” (che prevedono voci particolarmente piene e potenti) equivaleva a sentire il canto di un gruppo di streghe. Sono canti di montagna, una volta le cantavano le signore che andavano a fare fieno sui prati alti. Uno di questi recita: «Fasin un Cjant, a la Cjargnele, ca nus sintin di lontan» (Facciamo un canto alla carnica, che ci possano sentire da lontano). La volontà che il canto valicasse la montagna per raggiungere le valli circostanti, quasi alla ricerca di un contatto umano attraverso la voce, infatti poi continua: «Ca nus sintin in che cjasere, la ca l’è il gno curisin» (Che ci sentano fino a quella casera, là dove c’è il mio amato). È un canto spontaneo, forte, una tradizione che in qualche modo mi ha portato a questa volontà di arrivare oltre le montagne e a cercare una mia personalità.

Forse, nel passato, la gente del paese associava quel canto antico alla voce delle streghe delle montagne.
Forse. O forse era semplicemente la percezione di un bambino immerso nella sua fantasia. Ma si trattava in realtà del canto intonato da donne che lavoravano nei boschi, madri di famiglie numerose, immerse in un’esistenza strettamente legata alla natura. Queste voci, accanto ai simboli evocati dagli elementi naturali, hanno sempre avuto un ruolo nella mia parte più fantasiosa, un legame che mi ha portato a una sensibilità più mistica, che negli anni è cresciuta e che ha trovato una sua forza quando ho scoperto la poesia, in ogni sua forma. Mi sento più a mio agio in questa modalità di espressione, che si allontana dalle cose materiali per una visione più aerea, per affrontare quella parte legata a ciò che si sente internamente: mi colpisce come si possa parlare di una persona paragonandola ad un albero, e ancora di più come si possa considerare gli alberi come delle persone, come spiriti. Sento che in questa sensibilità c’è una forza indefinibile. È come un’immagine che arriva da altri tempi, che ci è stata passata da chi ha abitato la terra prima di noi, e che improvvisamente esplode e viene a galla nel nostro vivere quotidiano.

Per arrivare a questa esplosione, come la chiami tu, bisogna trovare una lingua adatta. Il carnico è la tua lingua adatta?
Come dicevo, sin dall’infanzia la mia fantasia si è plasmata su questa lingua. Sul significato ma anche sul significante e sul suo suono, sul modo in cui le lettere delle parole suonano insieme. È una combinazione che reca con sé le immagini stesse di questi luoghi, immagini personali ma soprattutto collettive, legate a un territorio intero. Ho passato molto tempo a confrontarmi con mia madre e con le persone del paese, ripercorrendo la mia memoria e i ricordi della mia infanzia e del suono che essa aveva. La mia generazione è con buona probabilità l’ultima ad avere avuto un legame diretto con questa lingua parlata dai nonni, per i quali il carnico era l’unica lingua. Una lingua soprattutto pratica, ricca di termini che definiscono strumenti rurali che oggi non si usano nemmeno più, spazzati via dall’avvento della modernità prima e ora della tecnologia: una lingua dunque che oggi è fatta di tante parole inutilizzate. Parole che ricorrono anche nella toponomastica di questi luoghi, che un giorno mi piacerebbe mettere al centro di un nuovo progetto.

massimo silverio
Credits: Maja Ceschin

Dicevo che Hrudja travalica la musica soprattutto per questo aspetto: scorrendo i tuoi testi si percepisce la complessità della ricerca semantica che hai affrontato, scoprendo parole portatrici di una grande forza.
Esistono alcune parole speciali, che indicano dei sentimenti complessi e spesso indefiniti. Nijò è tra queste, e non a caso è stata anche usata dal poeta Pierluigi Cappello per una sua raccolta poetica. È una parola che sentivo spesso dalla bocca di mio nonno, un termine che significa letteralmente “in nessun luogo”. Ma c’è anche un altro tipo di lettura, che la rende complessa: può significare in nessun luogo, e allo stesso tempo ovunque. Mi è sembrata la parola perfetta per descrivere quelle forze che permangono nei luoghi in cui ho vissuto, e allo stesso tempo rappresenta il lascito delle persone che li hanno abitati prima di me. È una parola che sembra richiamare tutti i pezzi della nostra anima, che lentamente disperdiamo ovunque. Nella canzone, infatti, chiedo: dove finisce tutto quanto? Dove finiscono i sospiri, tutti i nostri sforzi? Forse, mi dico, finiscono in questo “nessun luogo”, che però è ovunque.

C’è anche un altro termine che mi ha colpito, che è quello che presta il titolo al disco. Una parola che rinvia alla dimensione materiale, ma che mi sembra dire molto oltre.
Il termine hrudja è l’antenato longobardo della parola grusa, che dà il titolo ad un brano. È utilizzata per indicare la superficie di crosta che si forma sulla pelle quando una ferita si sta rimarginando. Mi sono chiesto più volte perché abbia scelto questa parola. Quel che è certo è che vi ho sempre sentito un suono e una forza che sembrano arrivare da tempi lontani. Sin da bambino, mia madre mi diceva che ero pieno di grusas, perché ero uno spericolato che passava “più tempo a terra che in piedi”. Avevo gambe e braccia martoriate. Ricordo che osservavo a lungo queste ferite, e le vedevo lentamente rimarginare fino alla guarigione. Era un cambiamento del corpo, ma allo stesso tempo era anche un cambiamento del mio modo di sentire. Forse in questa parola c’è il significato ultimo di tutto il disco, una storia di guarigione, una catarsi dal dolore.

Si sente, nel tuo modo di intendere le parole, un’attenzione letteraria speciale. Che valore hanno avuto i libri nella tua formazione?
Ci sono due libri in particolare che mi hanno formato, letti entrambi alle superiori, proprio nel momento specifico in cui stavo iniziando a trovare una mia voce. Due libri che mi hanno in qualche modo spinto, sono riusciti ad attivare qualcosa in me. Il primo è una raccolta poetica di Dylan Thomas, ogni sua poesia aveva lo straordinario potere di sconvolgermi. E poi Il libro dell’inquietudine di Fernando Pessoa, ricco di pensieri profondissimi. Ovviamente c’è anche Pier Paolo Pasolini, che era legato a questi luoghi e a questa lingua, un autore che è una fonte inesauribile di meraviglia. A tal proposito, ricordo uno strano aneddoto. Frequentavo le scuole medie nel vicino comune di Paluzza e un giorno, mentre stavo guadando il fiume But per andare a rientro pomeridiano (ci toccava guadare dal momento che il ponte che collegava i due paesi cedeva ogni volta che si verificava una piena), con mia grande sorpresa trovai su una sponda del fiume una copia abbandonata di Il sogno di una cosa di Pasolini. Rientrato a casa lo lessi e un mondo mi si aprii. Quelle pagine trovate fortunosamente mi portarono a sognare qualcosa, a guardare oltre.

massimo silverio
Credits: Maja Ceschin

Questo aneddoto mi fa pensare che Pasolini è stato l’intellettuale che forse più di tutti ha raccontato il rapporto tra l’Italia della tradizione e le pulsioni del presente, spesso problematico. Un po’ come fa la tua musica, nella quale si sentono i paesaggi islandesi dei Sigur Rós, ma allo stesso tempo è anche un tuffo nel limbo thomyorkeiano. Un modo di percorrere un sentiero ma anche di smarrirlo, come se la melodia sbandasse in continuazione tra un passato (i violoncelli, il pianoforte) e una forma contemporanea (i droni, l’eco dell’industrial).
La materia del suono di questi brani è tutto merito del lavoro con i miei grandi amici Nicholas Remondino (batterista, artista del suono) e Manuel Volpe (produttore e ingegnere del suono). È vero, si sente una parte legata a una musica più tradizionale e una improntata sulla sperimentazione: abbiamo da principio deciso che avremmo lavorato sulla nostra passione per l’acustico, e allo stesso tempo avremmo guardato anche a un lato più definibile sintetico che molto ci piace. Personalmente, non sono solito maneggiare troppo con pedali, effetti e sintetizzatori, anche se mi piacerebbe dedicarmi con più profondità, un giorno. Ascolto molta musica contemporanea, dominata da suoni appunto sintetici, ma sono allo stesso tempo ossessionato dal suono di un corpo che vibra. Anche quando siamo qua e là sfociati in sonorità più violente e plastiche per sottolineare gli andamenti del disco, abbiamo sempre mantenuto quest’anima naturale, a mio avviso.

E, in questo punto di contatto, improvvisamente la tua voce.
Ho da sempre uno strano rapporto con la mia voce. Ancora oggi, dopo questo disco, ho difficoltà a rapportarmici. Quello che è certo è che, in qualche modo, essa è sempre legata al mio stato emotivo del momento. Cantare per me ha una forza terapeutica. Quando sono entrato in studio a registrare i brani, ero in una fase difficile della mia vita: mi sentivo stanco di cercare, dopo aver provato a farlo per anni, provando a farmi ascoltare dagli altri. Mi sentivo limitato, mentre il mio sogno era, e resta, cercare di rendere la musica e il canto la mia vita. Così, quando abbiamo iniziato ad incidere l’album mi sentivo particolarmente fragile, e credo che questa condizione esistenziale si sia rispecchiata nel mio modo di cantare i brani. Il mio canto è sempre stato spontaneo, in continuità con la tradizione popolare friulana: non ho mai preso lezioni di canto, ho sempre cercato di cantare i miei testi con istintività, dal cuore, come unica regola. Le sensazioni che provo mi indicano come devo cantare. In sala di registrazione abbiamo così deciso che la voce dovesse essere davanti a tutto, come cantata dritta in faccia all’ascoltatore, senza mai ritoccare eventuali imperfezioni. Questa voce doveva parlare di verità, un po’ come nei canti delle donne carniche sulle montagne. Cantare è ricercare un contatto con una parte sorgiva, il modo di evocare in superficie qualcosa di occulto sepolto dentro di me.

La musica, dunque, è un processo di rivelazione?
Nella mia esperienza, senz’altro. Per quanto questi tempi la rendano una strada difficile da percorrere considerando gli immensi sacrifici e le rinunce, sono perfettamente conscio di quanto possa insegnarci delle verità su quello che ci circonda ma principalmente su noi stessi. Per come la vivo io, la voglio vedere come un percorso totalizzante e armonioso, che mi possa insegnare a migliorare per gli altri e per il prossimo.

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