Oltre la Soglia

Il capitale umano della montagna. Una conversazione con Anna Giorgi di Unimont



Prosegue la collaborazione editoriale tra Limina e UNIMONT – Università della Montagna, polo d’Eccellenza dell’Università degli Studi di Milano a Edolo, nel cuore delle Alpi, specializzato nella promozione dello sviluppo delle montagne attraverso attività di formazione, ricerca e terza missione specifici per questi territori. A UNIMONT sono attivi il corso di laurea in “Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano” volto a formare specialisti del sistema montano e il Centro di Ricerca Coordinata per la Gestione Sostenibile della Montagna (Ge.S.Di.Mont.), in cui lavorano attivamente numerosi giovani ricercatori per innovare e rendere competitivi i territori montani. Dal 2017, negli spazi di Unimont va inoltre in scena “RacCONTA LA MONTAGNA”, una rassegna letteraria dedicata alla saggistica e alla narrativa di montagna che vuole metterne in risalto il “potere” culturale ed evocativo.
Con l’obiettivo condiviso di raccontare la montagna, l’ambiente, la natura, le mutazioni del paesaggio e della società, i modelli economici sostenibili, i nuovi stili di vita e la crescente sensibilità green, la redazione di Limina e Unimont percorreranno insieme il lungo sentiero del racconto di un cambiamento nel quale è giunto il momento di essere protagonisti, interrogando le voci di studiosi, scrittori, docenti, pensatori e studenti riuniti nella consapevolezza che non sono più rinviabili un dibattito e una riflessione, letteraria, critica e formativa, sul futuro del pianeta e di chi lo abita.

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Un’aula universitaria come punto di osservazione sul mondo, non racchiuso tra quattro mura ma sintonizzato sulle frequenze del cambiamento. Anna Giorgi, originaria dell’alta Valle Camonica, è docente ordinario, da diversi anni direttrice di Ge.S.Di.Mont, centro di ricerca coordinato, e presidente del corso di laurea triennale in “Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano”. Un percorso che dagli studi l’ha portata a dirigere una realtà nazionale che in poco tempo è diventata un fondamentale osservatorio permanente delle nostre montagne e dei cambiamenti in corso nel mondo, che ad esse ci appaiono endemicamente collegati, nei mesi in cui il cambiamento climatico sembra assumere un volto nell’alluvione in Vestfalia, negli incendi nel sud Italia e nell’uragano Ida che si è abbattuto su New York. L’abbiamo incontrata mentre era in viaggio tra Milano e le sue amate montagne.

Lei è a capo di Unimont, un progetto che trasuda passione, tenacia, competenza. Un polo d’eccellenza in Italia che ogni giorno lotta per fare didattica. Possiamo definirla una missione?
Siamo un distaccamento dell’Università Statale di Milano, tra le più prestigiose e antiche d’Italia, e stiamo a Edolo, un piccolo comune con meno di 5.000 residenti. Facendo una ricognizione a livello nazionale, non è possibile trovare nulla del genere. Facciamo un’attività formativa quotidiana, per giovani studenti che un giorno potranno lavorare conoscendo a fondo le peculiarità della montagna, non solo perché studiate ma anche perché le avranno vissute direttamente. I nostri studenti che vivono a Edolo si misurano con una realtà montana che ha bisogno di essere valorizzata, diversa da quella di centri come Trento o Bolzano. Essere qui rappresenta una sfida epocale.

Una sfida che può lanciare messaggi forti, e forse essere un’apripista per qualcosa che verrà.
Siamo un piccolo esperimento che dimostra che si può collegare il micro con il macro, la piccola realtà delle comunità periferiche di montagna con le metropoli, soprattutto pensando a Milano. Il valore della nostra esperienza è dimostrare che si può fare un’ottima didattica e ricerca universitaria, nonché una significativa attività di “terza missione”, a 170 km dalla casa madre, purché queste attività siano collegate alla specificità del territorio. Vogliamo formare esperti di montagna, facendolo in montagna. Il territorio diventa la materia vera e propria su cui si studia e si lavora. Siamo consapevoli che si tratta di un esperimento molto difficile, che richiede una visione precisa e un impegno costante. Bisogna inventarsi da zero un sentiero: non c’era nulla prima di noi che designasse questo principio. Oggi ci siamo noi che cerchiamo di declinarlo con forza.

È presidente del corso di laurea in Valorizzazione e tutela dell’ambiente e del territorio montano, che da anni ospita centinaia di studenti. Cosa significa oggi formarsi su questi temi, e magari farne una professione?
Abbiamo provato a costruire qualcosa che non c’era. E abbiamo dimostrato che funziona. Oggi ho consultato gli aggiornamenti delle domande di ammissione, che scadranno l’8 settembre. Ad oggi le domande sono 71, un dato davvero significativo, che dice come la dimensione “locale”, il “micro”, rappresentato dal comune e dal polo di Edolo, non spaventa affatto i giovani appassionati di montagna, anzi! Oggi misuriamo da parte dei giovani la volontà di esprimersi in direzioni diverse da quelle delle grandi metropoli. Cresce l’esigenza di spostarsi dalle città e andare a vivere in un piccolo contesto di montagna dove svolgere attività sostenibili affrontando varie difficoltà, perché siamo in una fase di “transizione” e il sistema non è ancora in grado di facilitare concretamente questi processi. Noi siamo solo un piccolo esempio di come si possa essere facilitati. Offriamo un’esperienza di rapporto diretto, cercando di capire con i nostri studenti le loro aspettative e la possibilità di costruire percorsi adeguati insieme a loro e al territorio, con cui abbiamo una importante relazione e un costante confronto. Stiamo formando in questi anni un numero significativo di laureati specializzati, e analizzando le loro interviste post-laurea scopriamo che sono soddisfatti del loro percorso, che utilizzano le conoscenze acquisite, che sono in buona posizione rispetto al benchmark nazionale. Significa che costruirsi un percorso in queste tematiche funziona.

Unimont

Un percorso che mette al centro la presenza umana, la conoscenza.
Abbiamo bisogno della presenza di capitale umano sempre più capace. L’occidente viene definito la “società della conoscenza”, perché oggi possiamo giocarcela solo su quel piano, quello del sapere e dell’innovazione. Sul piano della produzione delle quantità è finita già da un pezzo, ci sono paesi molto più competitivi di noi che producono con costi inferiori e hanno spostato la grande produzione. Oggi i ricchi paesi dell’occidente possono competere solo se innovano: possono produrre e vendere innovazione, e conoscenza. Da italiani, dovremmo ricordarci di appartenere a un popolo che sulla conoscenza e l’innovazione ha ancora molto da dire. Ce lo scordiamo troppo spesso. Puntiamo troppo poco sulle persone, sul nostro grande capitale umano. Non dobbiamo più guardare soltanto all’operaio abile e ai modelli di sviluppo del dopoguerra, a cui dobbiamo comunque essere grati perché hanno determinato il boom economico e il benessere che ne è derivato, oggi la partita la giochiamo su altri asset e nuovi modelli di sviluppo devono essere sperimentati. Noi nel nostro piccolo cerchiamo di creare eccellenze partendo da un piccolo comune di montagna.

Da questo piccolo comune state dimostrando che un cambiamento è possibile. Che ruolo hanno la ricerca e l’innovazione in questa fase?
Siamo inseriti in tutte le reti a livello nazionale e internazionale, dimostrando che oggi è possibile essere connessi con il mondo anche da un piccolo comune di montagna.. I giovani sono ricettivi, è in atto un processo spontaneo verso il cambiamento, e il nostro compito è quello di agevolarlo, di facilitarlo. Oggi innovare è la parola d’ordine per le montagne, che da anni sono rimaste indietro. Perché tutti gli sforzi e gli investimenti si sono concentrati sui centri urbani. I modelli di sviluppo su cui si è costruita la società moderna sono più facilmente realizzabili in quei contesti, facilmente raggiungibili e senza la “verticalità” delle montagne, luoghi dove la mobilità è più facile e si sono sviluppate connessioni e vie di collegamento. È un modello dominante che ha portato benessere alla nostra società dal dopoguerra ad oggi, un modello che si basa sulla produzione di grandi quantità di merce realizzando economie di scala, che oggi non basta più. Un paradigma che oggi è in cambiamento.

E infatti le vostre attività mirano alla riduzione delle distanze tra zone centrali e zone periferiche. Crede che in futuro le zone cosiddette marginali potranno avere un ruolo?
Questi luoghi possono diventare eccellenze nel momento in cui si punta su capitale umano, innovazione e la capacità di fare rete. Se vent’anni fa non potevamo dire queste cose, oggi è possibile farle. È possibile stare in un piccolo comune di montagna con una connessione internet e lavorare tutti i giorni con New York. Le distanze si sono accorciate, e la pubblica amministrazione deve mettere a disposizione infrastrutture e strumenti.
I fatti oggi dimostrano che è necessario pensare che il modello dominante vada riequilibrato. Fino ad oggi è stato squilibrato da un punto di vista sociale, economico e dal punto di vista degli effetti sociali. Il senso dell’orientamento che le direttive europee stanno dando è questo, e va verso una transizione ecologica e digitale per mettere a punto nuovi modelli che possano permettere di distribuire gli esseri umani su superfici maggiori, riducendo il loro impatto sull’ambiente.

Sta dicendo, in poche parole, che dobbiamo ripensare il nostro modello sociale. La grande sfida del nostro tempo.
Sicuramente dobbiamo pensare sistemi più resilienti, meno sbilanciati. Dobbiamo ridurre i gap e le differenze socio-economiche. È un discorso globale che cerchiamo di prendere e portare sulla nostra scala locale, che chiama in causa i territori montani, che hanno problemi specifici. Il grande problema è lo spopolamento, che è l’indicatore dello stato di salute di questi contesti. Quanti uomini rimangono e quanti se ne vanno? Mediamente le montagne italiane si stanno svuotando, e anche per questo oggi dobbiamo metterci in gioco per creare modelli di sviluppo coerenti con le caratteristiche dei territori, che consentano a tutti i territori di esprimere al meglio i valori che posseggono. La sfida è dunque essere competitivi, riducendo l’impatto sull’ambiente e valorizzare al meglio le proprie specificità. Oggi ciò che ci serve è un nuovo sguardo, uno sguardo che deve partire dall’impegno di ciascun cittadino a consumare meno e meglio.

In questa ottica, possiamo considerare i territori montani come luoghi di produzioni di qualità, nelle quali la mano artigiana può conferire un valore aggiunto.
Oggi sappiamo che omologare tutto rende la nostra esistenza impraticabile. I prodotti standardizzati perdono caratteristiche distintive e uniche. I territori montani su questo fronte stanno diventando maggiormente consapevoli del potenziale che hanno. Si stanno riscoprendo le produzioni tradizionali, di nicchia. C’è un forte collegamento tra tradizione, cultura e prodotti. In montagna abbiamo una varietà di risorse, e non sappiamo ancora per quanto tempo saranno disponibili. Abbiamo una grande agro-biodiversità, il sistema vegetale, tante razze animali, e possiamo pensare a modelli di produzione molto differenziati e fruibili direttamente sul territorio, insieme alla bellezza del paesaggio, l’ambiente, la natura e la cultura. Il cittadino delle metropoli ha sempre più fame di tutto ciò. La grande partita è cercare di organizzare questi potenziali generatori di valore, e questo lo possono fare solo persone consapevoli e formate.

Tra le urgenze della montagna, cosa è fondamentale fare, oggi?
È necessario che in montagna si inneschino processi economici competitivi, non assistiti. È ora che la pubblica amministrazione smetta di sostituire l’impresa in montagna. Bisogna dare spazio ai giovani con le loro idee innovative e la loro visione. Aiutarli non attraverso forme assistenziali, ma togliendo loro i fardelli. Anzitutto riducendo il carico burocratico che nel nostro paese blocca ogni iniziativa e aggrava soprattutto le piccole realtà. E bisognerebbe ridurre la tassazione: invece di finanziare opere bislacche, bisogna fare in modo che questi giovani abbiano agevolazioni sui costi che gravano sulle imprese, come la corrente elettrica, la connessione internet, ecc. E poi c’è la partita della conoscenza. Bisogna mettere a disposizione servizi di supporto che li aiutino ad acquisire elementi di base per affrontare un contesto speciale come quello della montagna, dove gli asset strategici sono legati all’ambiente.

In questo processo, oltre al nostro Paese c’è il ruolo dell’Europa. Sentite un’attenzione, una sensibilità a livello internazionale attorno al mondo della montagna e a modelli economici che promuovete?
Dopo anni di lavoro, siamo presenti in tutti i tavoli europei dove si discute di montagna. Da Euromontana, associazione con sede a Bruxelles che aggrega più di 70 istituzioni pubbliche e private delle montagne d’Europa, molto attiva e ben organizzata. Ci sono inoltre reti di grande valore come Iscar e Nemor, il network per la montagna europea di cui siamo fondatori. Siamo coinvolti nella strategia macroregionale alpina, che comprende sette stati e 48 regioni, e nel mese di ottobre testimonieremo le montagne italiane al forum mondiale di Expo Dubai dedicato alle montagne del mondo, una grande occasione. Lo scenario europeo è in cambiamento, frequento questo mondo da una quindicina di anni, inizialmente quello della montagna era un tema a margine. Oggi se ne parla con maggiore attenzione anche se poco è concretamente cambiato nell’ordinamento legislativo: quando si parla d montagne si continua a non considerare la verticalità, grave errore, perché tutto ciò che si fa in montagna ha a che fare con questa dimensione. Ci sono ancora vecchie partite da affrontare, ma oggi siamo di più, siamo più agguerriti e con competenze diversificate. Quindi lentamente la situazione sta migliorando, sono ottimista perché credo che il quadro della transizione ecologica e digitale, il green deal, possa fornire una grande opportunità alle montagne.

Restando alle resistenze ai cambiamenti: cosa si prova a essere una direttrice donna in un mondo ancora prevalentemente maschile?
Ho avuto la fortuna di lavorare con ciò che mi appassiona, anche se non sempre è stato facile. Ho costruito la mia via professionale lavorando tantissimo. Essere donna ha richiesto forse più determinazione, più impegno, ho dovuto e devo faticare di più. Quello che ho voluto fare l’ho fatto a prescindere dal mio genere: questo mi dà molta forza ed è ciò che vorrei comunicare alle altre donne. Non bisogna avere paura. Credo che le donne siano più attrezzate dalla natura a sopportare i “carichi” e ad attutire i “colpi”. La forza per andare avanti l’ho sempre trovata guardando al grande obiettivo che avevo. Che non sono io, io sono solo uno strumento. E questa prospettiva ti fa venire la forza. Costi quel che costi, con pazienza.

Dalla sua esperienza, cosa consiglierebbe oggi a uno studente che vuole iniziare un percorso formativo nel mondo della montagna?
Deve provare a viverci. Vedo tanti nostri studenti che arrivano dalle città e vanno in montagna nel tempo libero, a Natale o ad arrampicare e fare trekking d’estate. Viverci è un’esperienza diversa, e per questo bisogna sperimentare la vita in montagna e prepararsi a questo contesto. Lo studio e la sperimentazione vanno a braccetto. Nel nostro corso di laurea cerchiamo di declinare il nuovo paradigma della montagna, intesa come luogo che si interfaccia col mondo. Consiglierei poi di avere una visione di futuro nel contesto montano. Sviluppare un’idea progettuale e magari imprenditoriale, da affrontare con le stesse armi e la stessa professionalità richiesta dai contesti macro, con business plan e analisi nel dettaglio. Infine, serve tanto coraggio, determinazione, e tanta caparbietà. Caratteristiche fondamentali per affrontare un contesto non facile, ma che può regalare una qualità di vita e un framework esistenziale straordinario.





In copertina: Paul Klee, Mount Niesen, 1915