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Gli amanti mancati. Ingeborg Bachmann e Hans Werner Henze rivivono a teatro

Se ci può essere un contagio nel teatro, questi è dato senza alcun dubbio – e non vi è vaccino che lo possa rendere innocuo – dalla capacità di attrarre e modificare a proprio piacimento, una volta messi in scena, testi e accadimenti, reali o di fantasia, provenienti dai più disparati contesti.
Nello studio drammaturgico condotto da Marco Tullio Giordana, anche regista, sul carteggio intercorso tra la poetessa Ingeborg Bachmann e il compositore Hans Werner Henze, entrano in gioco più fattori. Fuga a tre voci, presentato in anteprima al 45mo Cantiere d’Arte di Montepulciano, festival peraltro fondato proprio dal musicista tedesco nel 1975, e ripreso nella sezione Prosa di quest’Estate Teatrale Veronese, diretta da Carlo Mangolini, è il titolo della selezione operata da Giordana del carteggio tra i due artisti ed intellettuali. La presenza sul palco di due intensi Alessio Boni e Michela Cescon ha consentito al regista di attuare una sorta di transfert psicanalitico tra i due attori, consuetudinari del suo cinema. Questo straordinario documento ha avuto anche un’uscita in edizione italiana, Lettere di un’amicizia, nel 2008 per EDT, ed è il racconto di un’ossessione fatale ed imprevedibile tra due sensibilità estreme del XX secolo, le cui attrazioni e repulsioni venivano riempite in un disperato e viscerale epistolario, per fortuna giunto fino a noi.

Bachmann

Uno scambio che, osservato con lo sguardo contemporaneo di chi ha il corpo proteso in avanti e gli occhi fissi su uno schermo, sembra quasi un fatto biologico. Qualcuno scriveva, scomodando gli antichi, che «in un’epoca di comunicazione quasi istantanea via e-mail, telefono e social media, è facile dimenticare quanto fosse importante la corrispondenza come tecnologia per colmare le distanze sociali. Le lettere, come scrisse Cicerone, molto amato da Petrarca, rendevano presenti gli assenti».
Un sentire antico che la vista sul futuro d’oggi rende vecchio anche un semplice invio di corrispondenza che poteva, talvolta, “divenire angoscioso”, se la risposta tardava o affatto ad arrivare. Certamente lo sguardo d’oggi è diverso come le forme di comunicazioni che aggirano nell’immediatezza del messaggio tutte le possibilità, per l’appunto, di fuga dalla risposta.

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Alessio Boni e Michela Cescon in scena

Forse, questa è la chiave che Giordana ha girato nella toppa delle sliding doors dei due mancati amanti. Ma amici, sì. Pur con i distinguo del caso che emergono dalle parole dell’uno come dalle risposte dell’altra, e viceversa, in uno scambio, di cui inevitabilmente s’intravede la fine e che similmente a quanto uno possa credere non è solo nell’impossibile desiderio di Ingeborg di amare l’omosessuale Hans Werner. Perché questo è anche il cruccio di Henze. Quando, a rovescio, con la voce della donna affidata al compositore e la sua alla poetessa, si intuisce che proprio in questo solco sentimentale risiede quella divaricazione esistenziale che li allontanerà l’un dall’altro. Niente potrà invertire una rotta già segnata, nemmeno le astrazioni musicali dei piccoli pezzi per chitarra di Henze, suonate dal vivo da Giacomo Palazzesi, e la passione tutta intellettuale per l’Italia (più di una patria d’elezione o di una madre adottiva).
Sono solo la lunga punteggiatura di un rapporto screziato già alla sua nascita. Fin qui non si può dire tutto bene. La fine è nota, con la Bachmann che morirà ustionata dopo essersi addormentata con una sigaretta accesa. E a niente servirà – consolatorio e amaro happy end voluto dalla scabra e critica regia di Giordana – la reunion postuma tra i due, quando sappiamo che Henze sopravvivrà all’amica molti anni.

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