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Giacomo Matteotti. Una storia sbagliata

Ricordare l’eroe antifascista a cento anni dalla morte

Roma, 10 giugno 1924. Alle 16.30 un uomo politico molto noto, segretario del maggiore partito di opposizione parlamentare al governo – il Partito Socialista Unitario – esce dalla sua abitazione romana di via Pisanelli, al civico 40. Non indossa il gilet (cosa rara, ma a Roma fa molto caldo) e non si sa dove sia diretto, alla moglie Velia ha detto che tornerà per cena, ha una cartelletta di fogli e di appunti sottobraccio, forse si sta recando alla biblioteca della Camera dei Deputati per sistemare il discorso che dovrà tenere il giorno dopo: si discute di bilancio, materia nella quale è ferratissimo. Svoltato l’angolo di via Mancini si ritrova sul lungotevere Arnaldo da Brescia. Ad attenderlo ci sono alcune figure sospette, sono i membri di una polizia segreta costituita dopo le elezioni del 6 aprile agli ordini del capo del governo, che da poco più di un anno e mezzo è Benito Mussolini.

Una breve e violentissima colluttazione, il deputato socialista viene caricato in auto, una Lancia Kappa molto appariscente che riparte a tutta velocità. Due bambini hanno assistito alla scena, sono Amilcare Mascagna e Renato Barzotti, che forniranno una attenta ricostruzione dell’accaduto e un identikit degli aggressori. La macchina si è diretta nella campagna romana, verso la località della Quartarella. Durante la colluttazione, l’onorevole è riuscito a gettare all’esterno dell’abitacolo il suo tesserino parlamentare. Il cadavere viene lasciato in una boscaglia e sarà ritrovato in uno stato di avanzata decomposizione alla metà di agosto da un carabiniere fuori servizio, figlio del custode della tenuta di Francesco Ludovisi Boncompagni, futuro sottosegretario del governo e senatore del Regno.

Termina così tragicamente la vicenda biografica di Giacomo Matteotti, figura che da un secolo è l’emblema di un paradosso tutto politico, tutto italiano e novecentesco, comprensibile solo attraverso le lenti ideologiche della Guerra Fredda. Matteotti è “l’eroe dell’antifascismo”, la nemesi storica di Mussolini, figura che ha subito un processo di sacralizzazione laica, con battaglioni costituiti in suo nome durante la guerra di Spagna e brigate durante la Resistenza partigiana, e che forse è il personaggio più menzionato nella toponomastica italiana, con monumenti, strade, piazze, vie, viali e scuole a lui dedicati in Francia, Belgio, Austria, Argentina, Uruguay. Eppure, se un fascio di luce ha illuminato il mito del martire, un cono d’ombra è calato sul Matteotti “vivo”, sulla sua dimensione biografica, ideologica e politica. Fortunatamente esistono gli anniversari, in questo caso un centenario potente, anche perché coincide con la presenza ai vertici del governo e delle istituzioni italiane degli eredi politici del fascismo storico, epigoni di quello stesso “album di famiglia”. E questo deve farci riflettere.

Quando muore Giacomo Matteotti ha trentanove anni, viene da una formazione giuridica e socialista, è sposato con Velia Titta, sorella del celebre baritono Titta Ruffo, ha tre figli ed è deputato dal 1919, alla terza legislatura. Matteotti viene dal Polesine, terra poverissima, ma la sua è una famiglia borghese, di piccoli proprietari terrieri, e lui stesso dirà di sentirsi un “disertore di classe”. È uno di quegli apostoli del socialismo rurale nell’Italia giolittiana di inizio Novecento, assieme a figure come Camillo Prampolini e Nicola Badaloni, organizzatore di leghe di miglioramento contadino, giovanissimo amministratore locale, consigliere comunale, sindaco di Villamarzana e presidente della provincia di Rovigo. Matteotti è la figura di riferimento del socialismo polesano, che alle elezioni amministrative del 1920 vede eletti 63 sindaci su 63 comuni e 38 consiglieri provinciali su 40; e proprio il Polesine, che vede una così schiacciante egemonia socialista, diventa il laboratorio di quella che sarà la logica della violenza e dell’intimidazione del fascismo agrario, preludio alla presa del potere.

Matteotti si era laureato in diritto penale a Bologna, con una tesi sulla Recidiva, testo illuminante per l’epoca. Si consideri che a fine Ottocento ancora avevano credito le tesi lombrosiane sulla genetica delle tendenze criminali; il giovane Giacomo invece spiega che a determinare la ricaduta o la tendenza a delinquere sono le condizioni sociali, e non dei presunti e innati caratteri ereditari. Sono idee illuministe, di tradizione beccariana, che vedono nello Stato il “deus” che deve agire al fine di mettere in campo quelle strategie che possano consentire il recupero di chi ha compiuto atti di delinquenza e reinserirlo in società. Questo inciso sulla sua formazione di giurista non è inserito per puro vezzo, anzi, scriverà Leonardo Sciascia: «Matteotti era stato considerato, tra gli oppositori del fascismo, il più implacabile non perché parlava in nome del socialismo, ma perché parlava in nome del diritto, del diritto penale»[1], ed è infatti sempre in nome del diritto, della legalità, dell’attenzione ai bilanci, della condanna delle violenze generalizzate dello squadrismo fascista (di cui fu ripetutamente vittima) fatte di “manganello e olio di ricino” che lui muove le sue denunce in Parlamento.

Iniziamo dunque a capire come Matteotti si presenti sulla scena parlamentare nazionale nel 1919 come il simbolo di una politica razionale e ragionata, fatta di dati e di bilanci, talvolta di tecnicismi, ma mai fini a se stessi, sempre gravitanti attorno ad un nucleo ideale limpido, genuino, maturo: la libertà degli individui, un riformismo intransigente, la necessità di attuare i valori della giustizia sociale per il miglioramento delle condizioni di vita delle comunità. Dall’altra parte invece, proprio nel primo dopoguerra, la politica sembra incancrenirsi per effetto di quell’eredità di violenza lasciata dal conflitto, che aveva prodotto una politica fatta di slogan e di parole d’ordine populiste e semplificatorie, sia nell’estrema destra dei fasci di combattimento sia nell’estrema sinistra filo-bolscevica, entrambe avversate dalla concretezza di Matteotti, critico di ogni demagogia e di ogni rivoluzionarismo puramente verbale.

La prospettiva politica è quella di un riformismo graduale ma necessario, considerato l’unico strumento per migliorare da subito e in modo strutturale le condizioni di vita materiali delle persone più deboli, e quindi un riformismo destinato ad aumentare i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, un riformismo che non cercava soluzioni al ribasso e che non poteva scendere a compromessi sui valori fondamentali: un socialismo democratico, un antifascismo totale, una visione europea e antibellicista oggi più attuale che mai, la necessità di costruire un sistema di welfare state fatto di sostegno sociale, assistenza sanitaria, istruzione pubblica garantita, un’attenzione scrupolosissima e scientifica alla spesa e ai bilanci, parole chiave come libertà e dignità della persona umana. Questa si presenta come una piattaforma programmatica che – come scritto dall’on. Federico Fornaro nel suo recente libro Giacomo Matteotti. L’Italia migliore (Bollati Boringhieri) – dovrebbe essere parte integrante della cassetta degli attrezzi di un moderno progressismo di governo.

Matteotti

Il 30 maggio Matteotti, in quel momento il leader del maggiore partito di opposizione, interviene in Parlamento durante la seconda seduta della nuova legislatura. Il discorso che tiene risponde in realtà a una tecnicalità, in quanto viene portata all’ordine del giorno la convalida dei deputati eletti, ed è una convalida di oltre 300 nominativi, quasi tutti appartenenti al famoso listone fascista, che dovrebbero essere confermati in blocco; e qui i rappresentanti delle opposizioni vengono colti di sorpresa, addirittura tentando di proporre un rinvio degli atti a scopo di approfondimento alla Giunta per le elezioni. Matteotti, come dirà lui stesso nel suo intervento, parla a braccio, senza aver preparato un testo scritto.

«[…]L’elezione secondo noi è essenzialmente non valida. […] Per vostra stessa conferma dunque, nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà. […] Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse. […] Non continuate più oltre a tenere la Nazione divisa in padroni e sudditi, poiché questo sistema certamente provoca la licenza e la rivolta. Se invece la libertà è data, ci possono essere errori, eccessi momentanei, ma il popolo italiano, come ogni altro, ha dimostrato di saperseli correggere da sé medesimo. Noi deploriamo invece che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé e deve essere governato con la forza. Ma il nostro popolo stava risollevandosi ed educandosi, anche con l’opera nostra. Voi volete ricacciarci indietro»[2].

Matteotti

Il gruppo socialista e le opposizioni applaudono, c’è anche qualche voce dissonante come quella dell’onorevole Gino Baldesi, ex sindacalista della CGL e compagno di partito di Matteotti, che si rivolse al collega dicendogli che così facendo avrebbe messo a rischio la vita di tutti i parlamentari di opposizione. La maggioranza interrompe sistematicamente e in modo violento e volgare l’oratore, e Giorgio Amendola, figlio diciassettenne del deputato liberale Giovanni Amendola, presente in aula nelle tribune del pubblico, riporta di uno scatto d’ira di Mussolini che, rivolgendosi a chi gli si sedeva accanto, parlò della necessità di “dare una lezione” al coraggioso leader socialista. La richiesta di Matteotti è nettissima: dato che le elezioni politiche del 6 aprile si sono tenute in un clima di intimidazioni, di violenze, di illegalità e di brogli, quelle stesse elezioni andavano annullate.

«Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me»: ancora una volta profetico. In seguito alla sua morte, il governo e il fascismo sembrano essere irrimediabilmente compromessi. L’opinione pubblica rumoreggia e attacca, i sicari della ceka vengono presi, cadono teste importanti all’interno della struttura di potere del fascismo, come Cesare Rossi, Emilio De Bono, Giovanni Marinelli e Aldo Finzi, Mussolini stesso cede gli Interni al nazionalista monarchico Luigi Federzoni e inserisce elementi liberali nel governo, come Gino Sarrocchi ai Lavori pubblici e Alessandro Casati, amico di Benedetto Croce, cattolico e futuro antifascista che viene chiamato ad avvicendare il filosofo Giovanni Gentile alla guida del dicastero della Pubblica Istruzione. La posizione degli aventiniani è attendista, legalitaria, che punta tutto sulla questione morale, in attesa di un intervento della monarchia, che però non arriverà mai.

Come ha affermato Giovanni Sabatucci, grande storico del fascismo: «Prima di Matteotti c’era stata opposizione al fascismo, ma l’antifascismo come valore, come scelta consapevole e prioritaria, nasce solo nel 1924, nel suo nome»[3]. E quanto risulta vera questa sentenza se pensiamo al grande moto di sdegno e condanna che questo brutale assassinio genera in tutta Italia: dalla stampa alle opposizioni aventiniane, dal giovane Sandro Pertini che si iscrive al PSU in quelle settimane e volle che la tessera fosse retrodatata al “10 giugno”, sino alla vedova del grande irredentista Cesare Battisti, che alcuni giorni dopo il delitto velerà in segno di lutto il monumento in memoria del marito a Trento, e poi si pensi agli stravolgimenti nelle vite di personaggi come Piero Gobetti, Giovanni Amendola, Filippo Turati, Luigi Sturzo, Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Gaetano Salvemini, Emilio Lussu, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi, Sandro Pertini e le decine di antifascisti che – come scrisse Salvemini – avevano sentito il dovere di rispondere con un «no, risoluto e pubblico a quel regime», decisi così di mettere a rischio la vita, gli affetti più cari, scegliendo la clandestinità, essendo ostaggi e vittime di violenze, cosa che per alcuni significò l’esilio, per altri la galera o il confino, per altri la morte.

La Camera viene chiusa dal neopresidente Alfredo Rocco su richiesta di Mussolini, e sarà riaperta solo a novembre. Il 31 dicembre 1924 i consoli della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale raggiungono Mussolini a Palazzo Chigi, in quella che sarà una delle giornate personalmente più difficili della sua vita. La questione morale e i tentennamenti del governo devono finire, oppure la Milizia prenderà in mano la situazione: una seconda marcia su Roma? Una sostituzione di Mussolini? Il Duce risponde tre giorni dopo alla Camera dei Deputati:

«[…] Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo»[4].

È il discorso del 3 gennaio 1925, è il discorso che apre alla dittatura a viso aperto, e qui inizia un’altra storia, drammatica, che si chiuderà con la Seconda guerra mondiale. Quasi due anni dopo il delitto e pochissimi giorni prima della morte in seguito a pestaggio di Piero Gobetti, Gaetano Salvemini dal suo esilio londinese scriverà alla vedova Matteotti una stupenda confessione:

«Quando Lui fu ucciso io mi sentii in parte colpevole della Sua morte. Lui aveva fatto tutto il suo dovere: e per questo era stato ucciso. Io non avevo fatto tutto il mio dovere: e per questo mi avevano lasciato stare. Se tutti avessimo fatto il nostro dovere l’Italia non sarebbe stata calpestata, disonorata da una banda di assassini. Allora presi la mia decisione. Dovevo ritornare ad occupare il mio posto nella battaglia».

Viva la libertà, Viva la giustizia, Viva Giacomo Matteotti.



[1] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, Solferino.

[2]Dalla trascrizione stenografica del discorso parlamentare tenuto dall’on. Giacomo Matteotti, Segretario generale del Partito Socialista Unitario, alla Camera dei Deputati del Regno d’Italia il 30 maggio 1924.

[3] Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini.

[4]Discorso parlamentare tenuto da Benito Mussolini, Presidente del Consiglio dei Ministre del Regno d’Italia alla Camera dei Deputati il 3 gennaio 1925, in Scritti e Discorsi di Benito Mussolini, vol. V (dal 1925-III al 1926-V), Hoepli.

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