Oltre la Soglia

Elegie del fuoco. Una conversazione con Daniela Pes



Come rinvenendo le anfore di un canto perduto, la terra reitera da millenni la propria rotazione alla ricerca della voce con la quale abitò la sua prima notte, e con essa il folle sogno della presenza umana ad invadere il suo ventre. Ma da quale suono sprigionare quel rito arcaico, e a partire da quale lingua ricomporre le visioni di quell’ignoto sognatore celeste? Emergendo inaspettato dal silenzio che accomuna tutte le opere prime, la scorsa primavera ha visto la luce Spira, il disco d’esordio di Daniela Pes, artista nata nel 1992 in Gallura, nel cuore della Sardegna, un sorprendente lavoro musicale che, superando ogni intento teorico, contribuisce ad organizzare una risposta attorno a queste domande, trovando un’inaspettata fusione tra la formazione jazzistica dell’artista e la sperimentazione elettronica più avanzata, condotte in dialogo da una vocalità che, lasciato il sentiero sicuro della forma-canzone, si abbandona lungo la strada più oscura. Quella che, inevitabilmente, saprà condurre a mondi inaspettati.
Il disco, targato Tanca Records e toccato dalla mano di Jacopo Incani alias Iosonouncane, fluttua tra la matericità dei fondali fino ad arrampicarsi su verticalità atmosferiche attraverso sette tracce impastate di terriccio e vento, laddove il canto della tradizione irradia gli alveoli sintetici del contemporaneo. Così, in brani come Carme e Llla sera il sonno primordiale dei pastori erranti si risveglia popolandosi di synth e drum machines, e l’origine si tende fino a sporgersi sul suo doppio tecnologico in una danza ipnotica; Ora e Arca risvegliano il discorso spezzato con il sacro attraverso una metalingua giunta a noi da una civiltà sconosciuta, fino a richiudere il cerchio con la suite di oltre dieci minuti di A te sola, il ritorno al termine del viaggio al femminino in un rituale officiato incrociando l’iride della Grande Madre, rievocata nella multiforme vocalità dell’artista.
Ne abbiamo parlato con Daniela Pes, premiata con la targa Tenco Opera Prima, in occasione del suo live del 9 settembre sul palco di Ferrara Sotto le Stelle.

daniela pes

Spira è il disco che molti in Italia stavano aspettando. Lo è perché rompe il flusso logorante dei linguaggi musicali oliati in favore di un territorio imprevedibile. Come sei arrivata alla tua opera d’esordio?
Mi sono sempre definita una musicista da palco, e se proprio devo relegarmi a qualche mondo sceglierei quello dell’improvvisazione, dopo molti anni a fare jazz inseguendo un senso di scoperta estemporaneo sul palco e una scrittura poco definibile in relazione alla struttura-canzone. Questo disco è una sintesi, il confronto tra la mia natura di improvvisatrice e la dimensione della struttura: è stato per me un percorso di comprensione durato tre anni, la mia prima vera prova, quasi una scoperta. Mi sono compresa per la prima volta, capendo cosa significhi scrivere canzoni. Ma ancora oggi preferisco parlare di brani, di tracce.

Dunque Spira non è un disco di canzoni.
Non sono propensa a scrivere canzoni, e non mi sento a mio agio nella categoria della cantautrice o della cantante. Non riesco a scrivere pensando alle strofe e ai ritornelli, sento di avere una maggiore propensione a creare per sezioni, per paesaggi. Sono mossa dalla melodia, dalle immagini che mi suggerisce la musica nella mia testa. Credo sia il frutto di ciò che negli anni ho vissuto e ascoltato, passando per artisti che hanno utilizzato la voce come uno strumento oppure per gruppi come Pink Floyd o Beatles che hanno slegato e sconfinato la forma canzone tradizionale. Il confronto con Jacopo (Incani, NdR) è stato fondamentale, abbiamo sentito in comune un senso di libertà, oltre che di astrazione. Gli ho scritto una mail in un momento in cui avevo in mano molte idee ma mi sentivo confusa, sentivo un forte malessere perché non riuscivo a mettere ordine. Non lo conoscevo ma sentivo di potermi fidare di lui e del suo punto di vista: lui mi ha risposto incoraggiando il mio lavoro, e in quel momento ha avuto inizio un confronto che non si è fermato per tre anni, tra scambi di messaggi, idee, scontri, pareri.

Mi sembra di capire che da una parte c’è il flusso del tuo personalissimo processo creativo, e dall’altra la necessità di arrivare alla forma-album, che è per forza di cose un’opera organizzata e coerente.
Come dicevo, io derivo dalla musica improvvisata e questo disco mi ha aiutata a fare ordine, a scegliere tra il vasto materiale che avevo accumulato. Un album è un sistema compiuto, con un inizio e una fine, e in questo senso possiamo considerare Spira un grande lavoro sulla scelta e sulla rinuncia, in un mare di infinite possibilità creative. Quando si scrive una strofa che deve essere seguita da un ritornello esiste un grande ventaglio di libertà, si tratta di una possibilità stimolante ma la scelta è sempre difficile, e scegliere significa saper rinunciare a qualcosa.

daniela pes
In studio con Jacopo Incani e Bruno Germano

All’ascoltatore rimane quello che hai scelto di costruire, ed è tanto. Sette tracce ricche di echi e di rimandi, nelle quali a colpire immediatamente è il lavoro sul linguaggio. Come nasce questa lingua impossibile, che assembla il gallurese all’italiano e al latino, un impasto fonetico che sembra fuoriuscire dagli antri più primordiali della terra?
Durante il processo creativo non ho prestato particolare attenzione a questo aspetto, che sto guardando soltanto ora a livello cosciente. Ho lavorato da autrice, totalmente immersa nella mia opera, inserendo alcune parole che affiorano in un mare apparentemente senza significato, quasi dei punti evocativi che possono immediatamente portarti a una figura o a una fotografia, come avviene in Carme. In quel brano, ad esempio, alcune parole sorgono e affiorano come delle secche, come scogli, dei termini di senso compiuto che catapultano l’ascoltatore in un universo specifico. Per me è importante che ognuno possa costruirsi la propria fotografia, la propria storia. Mi capitava ogni volta che ascoltavo certe voci e certi dischi, penso ad esempio a Ella Fitzgerald o Joni Mitchell: la parola diventa un tutt’uno con la musica, uno stesso nucleo, e così si tramuta in immagini che plasmiamo attraverso la nostra immaginazione.

Un territorio, questo, che ci porta vicino al linguaggio poetico.
È una bella connessione, perché tempo fa ho iniziato a comporre partendo da alcuni componimenti di un poeta del Settecento del mio paese. Mi serviva del materiale linguistico che non fosse né italiano né inglese, cercavo una cosa che fosse mia. Nel mio processo compositivo parto sempre dalla musica, e mi sono presto accorta che quando aggiungevo i testi in italiano immediatamente la parte musicale perdeva qualcosa. Così ho iniziato a lavorare su queste poesie molto musicali: ho passato oltre un anno in questo modo, interrogandomi sulla relazione tra la musica che avevo in testa e il linguaggio. Ma da un certo punto in poi ho sentito che anche queste poesie mi limitavano, e che avrei dovuto trovare un modo per svincolarmi dalla metrica. Questo significava, in parole povere, plasmare e cambiare le linee melodiche che avevo in testa.

Dunque, radere tutto al suolo e ricostruire, ripensare ad un nuovo linguaggio?
Mi sono detta che era giunto il momento di abbandonare il significato, e di svincolarmi dalla metrica. Cosa accade se non devo più domandarmi se è giusto o sbagliato inserire una determinata parola in un testo? E ancora: cosa succede se non mi faccio più domande? Così, ho portato avanti il processo creativo senza più interrogarmi sui significati, lavorando sui fonemi e le radici, e alla fine mi sono trovata con moltissimo materiale che suonava bene, ma soprattutto che rispettava il mio istinto e quello che avevo in testa. Solo successivamente ho lavorato sulle sfumature timbriche delle parole, per liberarle a livello espressivo e performativo.

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Ne è nata una lingua che sembra poggiare pienamente nel sacro, tutta rivolta all’indicibile dell’origine.
Anche questo aspetto mi è chiaro solo ora, mentre durante il processo creativo non ne ero apparentemente consapevole. In molti hanno scritto che nel disco è presente il tema del sacro, del rito, dell’atavico. Ma anche e soprattutto della parte femminile. Sono presenze che sto scoprendo passo per passo, anche io le sento molto presenti in tutte le tracce, costruiscono uno stesso nucleo. Sono elementi che mi sento dentro, ma che non ho scelto di proposito. Non c’è nulla che io abbia volutamente inserito, è stato un processo naturale che non ho controllato. Questa evidentemente sono io, e fare questo album mi ha fatto capire cose di me che prima ignoravo. È stata una rivelazione, mi sono scoperta. Per me fare musica è una ricerca prima di tutto personale: per arrivare a scrivere una linea melodica devi scavare dentro di te, e ti scopri. Lavorare su Spira mi ha portata a scoprire qualcosa che c’era in me ma che era sepolto.

Qualcosa che ha anche a che vedere con la tua terra, la Sardegna?
Sicuramente c’è un filo che unisce tutto. Il sacro, il mantrico e il primitivo sono da sempre elementi che appartengono alla mia tradizione, basti pensare alla civiltà nuragica, basata sulla pietra, sull’acqua, sul rapporto diretto con l’ambiente naturale selvaggio. Fino ad oggi ho sempre vissuto in questa regione, e ho assorbito moltissimo la sua identità. Qui la tradizione è intensa, e ne percepisci la forza ogni volta che cammini per strada o fai un viaggio. Sicuramente tutto questo incide, a livello sotterraneo, in ciò che scrivo perché la mia vita entra sempre nel mio processo creativo. Un po’ come accade in Ca Mira, il brano d’apertura del disco, costruito su un bordone che dal minore passa al maggiore grazie alla voce che canta la linea melodica, questo rimanda molto alla tradizione dei canti sardi. Io provengo da questo luogo, e questo luogo continua a parlare in me.

Eppure questa specificità sembra parlare a un pubblico più ampio, ha trovato corde universali. Ti stupisce che questo lavoro così personale stia avendo importanti riconoscimenti nel nostro Paese?
Sì, mi ha stupito e continua a stupirmi, non mi aspettavo una risposta così forte. Durante la scrittura del disco ho avuto grandi momenti di sconforto, mi dicevo: ma cosa sto facendo? Dove mi porterà questo lavoro? Sarò capita? A tratti non capivo più neppure io dove stavo andando, era un continuo up and down emotivo, un’onda quasi fisiologica per chi vuole tradurre all’esterno il proprio messaggio personale. La cosa che oggi mi gratifica di più è salire ogni sera sul palco e vedere tante persone, in larga parte giovani, che vogliono ascoltarmi, che capiscono quello che sto facendo, che vogliono comunicare con me. Ragazzi che alla fine mi ringraziano con le lacrime agli occhi. Io credo che queste persone sentano che Spira è un lavoro che va nella direzione del coraggio e della verità.

E forse sentono che Spira è un disco urgente, necessario. Dunque, a discapito della narrazione corrente, credi sia ancora possibile oggi per un artista creare oltre le regole e le facili ricette imposte dal mercato?
Io credo che non serva a molto dire che bisogna andare oltre. Quello che è fondamentale è ricordarsi che bisogna avere fiducia nella propria idea e perseguirla con ostinazione. Che va portata fino in fondo, senza paura. Non serve a nulla fare qualcosa di alternativo per il gusto di essere alternativi. Bisogna fare quello che si ha dentro, perché è possibile essere capiti, c’è molta gente disposta a mettersi in ascolto. La chiave sta nel porsi una domanda: quanta verità sono disposto a mettere nel fare ciò che voglio fare?