Oltre la Soglia

Ascensione. La cerimonia in piazza Duomo e la resurrezione del berlusconismo



Una transenna gira intorno al monumento a Vittorio Emanuele II in piazza Duomo. Una mezz’ora prima dell’inizio della cerimonia, decine di simpatizzanti del defunto hanno scavalcato la transenna e si sono sistemati sui gradoni del basamento. C’è solo una signora che per qualche ragione ha deciso di sedersi a cavallo della transenna. Di conseguenza, quando qualcuno si arrampica per oltrepassare la transenna, cosa che accade ogni pochi secondi, la transenna vacilla, e allora questa signora, in maglietta grigia, jeans e scarpe sportive bianche con piccole borchie dorate, si lamenta, è infastidita, come se quella transenna fosse un qualcosa che le appartiene, che ha comprato, e su cui ora, a malincuore, non può esercitare il controllo che pretenderebbe di avere.
Manca poco alle quindici e piazza Duomo attende in silenzio l’arrivo del carro funebre. Apro su Instagram il video di una giornalista di Canale 5, Elena Guarnieri, in collegamento dalla piazza. Sembra commossa dal coro «Chi non salta un comunista è\è», come se in quel coro ci fosse una testimonianza di affetto che la emoziona e stupisce. Resto spiazzato. Il coro si leva da un punto antistante il sagrato. Dalla zona in cui mi trovo, cioè seduto al di là della transenna su un lato del monumento, ho una vista solo parziale. Da qui scorgo i bandieroni rossoneri del Milan, piantati sul pavimento come le insegne di un’armata mercenaria al servizio di un signore medievale. Si tratta di pezzi di stoffa particolarmente grandi, e in alcuni casi un po’ frusti e logori, onusti di gloria, testimoni di non so quale trionfo, ora riesumati per la circostanza della morte di Berlusconi (acclamato con il coro «Un Presidente\C’è solo un Presidente»). Perciò la scena – e in particolare il modo in cui le bandiere si trovano raccolte in un punto preciso della piazza e non altrove – mi ricorda confusamente un quadro, forse la riproduzione di un quadro pubblicata su un manuale di Storia utilizzato al liceo.

Prima dell’arrivo di un trio di adolescenti queer – due ragazze e un ragazzo con gonna, anfibi neri e calze a rete rosa, evidentemente in piazza Duomo per una legittima curiosità o morbosità – vedo radunato intorno al monumento a Vittorio Emanuele II un intero spettro del popolo berlusconiano. Conto ben poche donne. Forse è perché è in corso uno sciopero delle donne, tanto ampio quanto invisibile e silenzioso. Mi colpisce però che alcune tra le donne presenti sono qui da sole e vestite con una mise seducente – tacchi, rossetto, camicette sbottonate e push up – come se fossero in piazza, ancora innamorate, per mostrare la propria inossidabile volontà di amare e di compiacere i desideri del Presidente. Di colpo ho un sospetto. Forse in questi anni sono esistite accanto a me, senza che me ne accorgessi, decine e decine di vestali legate a un culto del Presidente, amato, sognato, desiderato, e ora alcune di queste donne sono qui, sotto il sole di giugno, ciascuna per i fatti propri, emerse dal cono d’ombra di un rapporto puramente platonico e clandestino. Sono tante vedove e amanti, sparse qua e là e mescolate tra la folla. Mi ricorda la scena di certi film, quando al funerale di un uomo si affaccia inattesa una bella e misteriosa signora, che nessuno dei parenti conosce. Noto la presenza di un ragazzino elegante e imberbe, con i mocassini con le nappine, il blazer blu, i capelli biondo cenere ben spazzolati e l’aria rampante e un po’ ridicola dell’aspirante milionario. Chissà se ha perfino la «r» moscia. Anche lui è innamorato di Silvio Berlusconi. Si tratta di tipologie umane che esistono solo qui a Milano e ancora oggi replicano movenze e codici vestimentari portati sullo schermo tv dal personaggio dell’industriale Camillo Zampetti, interpretato dall’attore bergamasco Guido Nicheli (è sepolto nel cimitero di Zelata, frazione del Comune di Bereguardo, e sulla lapide è incisa la battuta «See you later»). Accanto a loro compaiono zarri della periferia, col tatuaggio sul collo e il marsupio contraffatto, venuti a omaggiare il Presidente rossonero e il grande uomo che ce l’ha fatta. Farcela, competere, vincere, arrivare da qualche parte e in qualche modo, del resto, sono valori tanto nel rap e nella trap amate nell’hinterland di Milano, quanto nella storia e nella vita di Berlusconi. È più la prova di un esempio che ha attecchito, che non una semplice coincidenza. Vedo un tale in polo rosa, con gli occhiali a specchio e il bicipite abbronzato. La postura impettita comunica una certa fierezza, forse perché è soddisfatto di prendere parte a una giornata storica. Come altri, anche lui vuole testimoniare il proprio amore per un uomo che ha stimato immensamente. Un modello.

Berlusconi

Ci sono turisti, curiosi e anche un lavoratore africano, con le scarpe antinfortunistiche ai piedi e i pantaloni grigi con i tasconi. Il lavoratore africano osserva con attenzione il maxischermo dove scorrono le immagini della diretta (il percorso del carro funebre è ripreso come le tappe del giro d’Italia, strada per strada o dall’elicottero, mentre si avvicina al centro della città). Se anche il lavoratore africano è innamorato di Berlusconi, forse è perché ha visto in lui un campione del self-made man. Il self-made man spesso è un’ispirazione per chi arriva da un altro paese e deve costruirsi tutto con le proprie mani. C’è pure un peruviano con un cartello di «condoglianze da tutti i peruviani». Un anziano dai capelli rossi, con il cappellino da baseball abbellito da una bandierina americana, ci tiene a dire che il cagnolino che lo accompagna si chiama Silvio. Arriva il sosia ufficiale di Luciano Pavarotti, tutto sudato e in completo di lino bianco, a braccetto con la sua signora. È in questo ritaglio di piazza Duomo che fa capolino un signore inerme, piccolo piccolo, diverso dagli altri anche per corporatura, munito di un cartello di modestissime dimensioni, dove è scritto: «Vergogna di Stato». Il signore è pacifico e innocuo, è arrivato qui da solo ed è un uomo senz’altro coraggioso. Anche se stanno per iniziare la funzione, annunciata dalle note solenni dell’organo, un tizio abbarbicato sui gradoni in granito rosso del monumento si sbraccia e si mette a urlare «Pagliaccio! Pagliaccio!», rivolto al signore col cartello. È così che il signore – forse un reduce dell’antiberlusconismo pittoresco e donchisciottesco che a ogni occasione si ritrovava di fronte al palazzo di Giustizia di Milano – viene circondato da un gruppetto di presenti, poi arrivano degli altri e degli altri ancora, fino a quando una decina di ultras rossoneri non attraversano con passo feroce da picchiatori mezza piazza per raggiungere l’omino col cartello, che viene circondato da un manipolo di persone sempre più folto e ostile, a cui si aggiungono fotografi, cameramen, giornalisti, curiosi, fino a quando nell’orgia non sopraggiunge la polizia che provvede ad allontanare il signore col cartello, che così scompare in un puntino ai margini della piazza gremita.

Berlusconi

Quando a Jena Hegel vede Napoleone Bonaparte in sella al cavallo, registra un cedimento interno, uno smottamento psichico, frutto di una brusca accelerazione della realtà, che il filosofo fugacemente avverte e lo informa che qualcosa nel mondo si è modificato. È per questa ragione che poi Hegel annota la celebre frase: «Ho visto lo spirito del mondo passare a cavallo». In piazza Duomo provo qualcosa di simile. La doppia visione concomitante prodotta dalla piazza affollata sotto il cielo azzurro, insieme alle immagini ultranitide della cerimonia trasmessa sui maxischermi a LED, danno luogo a un momento e a un’esperienza non banali. La piazza sente. È stupita dal suono aereo e gentile dell’organo in cattedrale diffuso dagli amplificatori. Pare di essere tutti dipinti in un grande affresco, con la volta del cielo pennellata di azzurro denso, un Duomo mai così eloquente e partecipe, e ciascuno che svolge la propria parte: il potere spirituale, il potere temporale e la gente comune. Ripenso alle famose foto con la folla sterminata radunata in piazza Duomo per i funerali dei diciassette morti della strage di Piazza Fontana. Riguardare mentalmente quegli scatti è come passare dall’Ultra HD della visione attuale alla tv a tubo catodico degli anni Sessanta. La regia televisiva alterna il racconto della maestosa architettura gotica – i totali dell’imponente presbiterio velato dagli sbuffi d’incenso, delle vetrate monumentali, dei pilastri in marmo di Candoglia, della sbalorditiva pavimentazione decorata con motivi geometrico-floreali – con gli stacchi sui volti provati dei figli Marina, Piersilvio, Barbara, Eleonora e Luigi. Il viso opalescente ed enigmatico di Marta Fascina viene omaggiato di continui primi piani. Come dev’essere partecipare a un funerale, sapendo di essere sorvegliati dall’occhio di milioni di persone, per di più piene di sospetto? La storia della famiglia Berlusconi, e con essa la sua cultura, la sua cattiva estetica, il suo profano mondo editoriale e televisivo, le soap opera Vivere e CentoVetrine, i reality, Striscia la notizia, la pedagogia post-human predicata nei corpi perfezionati dalla chirurgia estetica, entrano in quell’eternità artificiosamente evocata dalle guglie svettanti e dal movimento ascensionale dell’architettura gotica. Mondi lontanissimi arrivano a fusione. Non è banale. La piazza vede, sente. È testimone del decollo in cielo del berlusconismo, che non equivale alla sua scomparsa, ma alla sua santificazione nel mondo. Seguono le inquadrature solenni a Giorgia Meloni, a Ignazio La Russa, al Presidente della Regione Attilio Fontana, al religiosissimo Presidente della Camera Lorenzo Fontana. Segue la ripresa attenta dello scambio del segno di pace, con mani e sguardi che si cercano tra le panche, e poi dei palmi delle mani enfaticamente ostesi durante il Padre Nostro. E alla fine la narrazione tocca il suo apice, con un’altra camera che inquadra la statua della Madonnina e il volo di decine di palloncini azzurri che si perdono nel cielo. Si capisce perché la destra e il Governo hanno tanto tenuto alla giornata di lutto nazionale. Hanno capito che il trapasso di Berlusconi non sarebbe stato un evento insignificante, ma l’occasione per trarre un profitto e creare le condizioni per costruire una rendita simbolica e politica, per riscrivere la storia del berlusconismo, per piantare le radici nel XXI secolo e consolidare una già robusta egemonia culturale.

«Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena», dice nell’omelia l’arcivescovo Mario Delpini. «Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita. Vivere e resistere e non lasciarsi abbattere dalle sconfitte e credere che c’è sempre una speranza di vittoria, di riscatto, di vita». La gente in piazza annuisce. E ancora: «Amare ed essere amato. Amare e desiderare di essere amato. Amare e cercare l’amore, come una promessa di vita, come una storia complicata, come una fedeltà compromessa. Desiderare di essere amato e temere che l’amore possa essere solo una concessione, una accondiscendenza, una passione tempestosa e precaria […] Essere contento e amare le feste. Godere il bello della vita. Essere contento senza troppi pensieri e senza troppe inquietudini. Essere contento degli amici di una vita. Essere contento delle imprese che danno soddisfazione». Parole e concetti non mediocri, armoniosamente sospesi tra terra e cielo, ma che avrebbero potuto valere, per esempio, anche per il funerale di un ipotetico gangster, vitale, intelligente, romantico e innamorato della vita quanto Berlusconi, come lo fu, in effetti, un altro milanese: penso al rapinatore Renè Vallanzasca. «Ecco che cosa posso dire di Silvio Berlusconi. È un uomo e ora incontra Dio», ha concluso Delpini.
Tanti complimenti alla bellezza del piacere e dei sensi, così rari da ascoltare nella navata di una chiesa, e tanta insistenza sull’importanza di amare e godere, mi spingono a pensare che Delpini sia stato un assiduo lettore di Giuliano Ferrara, quando Ferrara, una quindicina di anni fa, nei suoi interventi sul Foglio magnificava il vitalismo e discettava in lungo e in largo a proposito della carica erotica di Berlusconi. Una visione davvero molto parziale dei fatti, a cui non si sa più che cosa rispondere. Finita l’omelia, sul granito del monumento a Vittorio Emanuele II, mi colpisce la conversazione tra due ventenni seduti al mio fianco. In realtà non è una conversazione. Uno parla e l’altro ascolta. Il primo si prodiga per sviscerare al secondo il significato morale delle parole di Delpini. Sembrano due studenti di teologia dopo una lezione che li ha entusiasmati. Poco dopo, la bara coperta di fiori spunta dal portone bronzeo e viene caricata sul carro funebre.






Le immagini nell’articolo sono di Ivan Carozzi