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Uomini o bestie: La pelle dell’orso di Joy Sorman

Ogni discorso rispetto all’antropomorfizzazione degli animali nei media siede comodamente su un immaginario comune: dalla classicità di Esopo e Fedro fino ai giorni nostri, le rappresentazioni che si sono succedute hanno visto indissolubile il connubio bestie/uomini, in una gara di somiglianza allegorica che non ha ancora esaurito le sue dissertazioni.

Prescindendo dagli esempi più celebri – non può non tornare alla memoria la nota Fattoria orwelliana – che, in quanto tali, non sono discutibili, e bypassando casi come quello di Richard Adams (è suo La collina dei conigli degli anni Settanta) o George Saunders (Volpe 8), è interessante notare come proprio nell’ultimo periodo si scopra un rinnovato interesse a sviluppare questa idea di letteratura. Ne è testimonianza la recente vittoria al premio Campiello 2022 di Bernardo Zannoni con I miei stupidi intenti (Sellerio), in cui a essere protagonista è Archy la faina. Se da un lato persiste quindi il tentativo di umanizzare gli animali, che di fatto tendono a comportarsi come persone, a utilizzarne i medesimi utensili, o abitarne gli stessi ambienti; dall’altro lato si muove una controtendenza di rappresentare forme – e storie – più ibride, in cui l’incipit già prevede una distorsione tra ciò che è bestia e ciò che è uomo per dar luogo a risultati inediti.

A questa seconda categoria letteraria appartiene il recente La pelle dell’orso, romanzo della scrittrice francese Joy Sorman, portato in Italia dalla casa editrice Alter Ego nella traduzione di Valentina Maini. Il rinnovamento, qui, è duplice. Innanzitutto, ha a che fare con l’intenzione autoriale, che non intende fornire consolazione ai suoi lettori né servirsi di insegnamenti morali: in questo testo non c’è redenzione e l’unico insegnamento possibile è che bestialità umana e animale continueranno a esistere eternamente.

La pelle dell'orso

Il protagonista è in effetti il risultato di un abominio, il tentativo di infrangere le regole della natura con la violenza e i soprusi; la sua stessa presenza fa da incarnazione delle brutture da cui è nato e verso cui andrà incontro. La miserabile creatura è stata infatti partorita da una giovane donna di un villaggio, rapita e stuprata ripetutamente, nonché rinchiusa per anni in una grotta, per mano di un orso, il quale ha assecondato quelle che ci vengono raccontate come vere e proprie faide tra clan (da un lato gli uomini, dall’altra gli animali selvaggi) legati da una promessa secolare: gli uomini non cacceranno gli orsi fino a quando questi ultimi resteranno lontani dai bambini.

La violazione del patto apre il sipario e introduce alla vicenda del protagonista. Le sue sorti, narrate in prima persona, sono sì prevedibili e tuttavia non trascurabili: le esperienze traumatiche che subirà proprio in nome del sua natura sono inevitabili – soltanto in un mondo fatato verrebbero tenuti in conto i suoi sentimenti e messa da parte la sua mostruosità. Eppure, nella successione di avvenimenti che non gli permetteranno mai di sentirsi salvo, o a casa, Sorman ha comunque spazio per comunicare qualcosa ai lettori.

«Gli uomini non ci lasceranno mai in pace, non pensano ad altro che a spostarci, comprarci e venderci, caricarci e scaricarci»

L’orso viene trattato come un freak: la sua natura docile, solleticata da ciò che di umano egli conserva, deve sottostare a gesti spietati che trasformano la sua esistenza in un mattatoio continuo, perpetrato ai danni di chi, come lui, può essere barattato, venduto, esposto alla mercé del primo sconosciuto e malintenzionato. Se degli sprazzi di umanità si ritrovano proprio in chi di umano non possiede nulla, neppure le sembianze, si tratta comunque di momenti fugaci, brevi pause dall’infame destino che lo attende. La vicinanza maggiore, in un’attuazione a dir poco struggente del detto Mal comune, mezzo gaudio, arriva dai suoi simili, perlomeno simili nella condizione di freaks, fenomeni da baraccone che cercano nel silenzio della notte il calore di un altro essere vivente.

JOY SORMAN
Joy Sorman (credits Osservatorio Cattedrale)

Il secondo elemento che spinge a classificare La pelle dell’orso originale è che, nonostante alcune ambientazioni al limite dell’iperbole (il romanzo è di certo più vicino a una versione horror di un film di Gabriele Mainetti che non a un documentario del National Geographic), sono pur sempre lo specchio di una realtà che depreda continuamente gli animali dei loro habitat. Allora l’apparato politico che sottende questa storia, seppur non dichiarato, diventa più potente di molti proclami. Al di là delle accorate riflessioni dell’orso-uomo, che sono forse ciò che meno convince dell’intero libro, la posizione di Sorman è inequivocabile: come scrive John Berger in Perché guardiamo gli animali? (il Saggiatore), anche l’autrice francese a suo modo indaga un mondo che sta scomparendo, in cui la spettacolarizzazione ha preso il sopravvento sull’istinto di conservazione della propria e delle altre specie da parte degli uomini.


In copertina Magyar Nemzeti Cirkusz di Gabor Barbely su Unsplash

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