Segreti di famiglia
Comma 22

Segreti di famiglia di Ivana Šojat

«Ho vissuto una vita intera circondata da estranei, da fantasmi senza passato. La vita in questa casa è cominciata nel momento esatto in cui sono nata io, come se prima non ci fosse stato niente, come se una cicogna ubriaca ci avesse depositato tutti qui lo stesso giorno.»

Katarina alla fine degli anni Novanta torna nella sua città natale Osijek dopo molto tempo, e al suo arrivo scopre che la madre Marija è mancata proprio quella notte. Sono tutti morti: il padre sempre troppo silenzioso, la madre ossessionata dalla pulizia, l’amata nonna Klara. Non è rimasto più nessuno in quella casa da cui era scappata a diciannove anni, solo i parenti impressi sulle foto nascoste sotto il letto che la aiuteranno, insieme ai racconti della vecchia amica di famiglia Jozefina, a comprendere le proprie origini. Ricostruendo la storia di quattro generazioni di questa famiglia di origine tedesca, l’autrice Ivana Šojat, in Segreti di famiglia (Voland), restituisce un quadro più ampio che ripercorre le vicende storiche e sociali della Croazia durante il Ventesimo secolo. Sullo sfondo una realtà che muta con il passare del tempo e si svela in tutta la sua complessità, mostrando come la stessa Storia possa essere plasmata, abbellita ed edulcorata da chi la racconta.

«In un angolo della fotografia, in basso a sinistra, era scritto in nero l’anno, ”1943”. Sul retro qualcuno aveva invece scritto a matita: “Peter, Klara, Antun, Elza und Maria Schneider. (…) Li ho accarezzati tutti con lo sguardo: nonno Peter, di cui in casa non si era mai potuto parlare, nonna, che così inamidata non sembrava nemmeno lei… Ed Elza, che vent’anni fa faceva visita alla nonna attraversando le pareti della sua stanza come se varcasse una porta tra due mondi.»

I diversi piani temporali si intersecano nel corso della narrazione, presentando i tanti personaggi che affollano il racconto, proprio come nei grandi classici familiari, e sembra quasi di vederli davvero sfilare nel soggiorno di Viktorija, bisnonna di Katarina, durante il pranzo della domenica. Tutto ciò che accade avviene dentro le mura domestiche, è ben netto e marcato il confine tra dentro e fuori: dentro ci sono le donne, protagoniste assolute, che tentano di tenere ogni cosa in equilibrio mantenendo le apparenze; e fuori ci sono le guerre, le deportazioni, gli uomini che partono e a volte tornano ma senza mai sentirsi parte davvero di quel focolare, quasi intimiditi dalla forza femminile che lo veglia. Proprio una donna, Jozefina, è l’ultima testimone rimasta, la sacerdotessa di un culto senza più fedeli. Finalmente può rompere quel patto non scritto che risuona nella memoria di Katarina: “di queste cose non si parla”. Ora che in quello stesso tempio si aggira soltanto lei, ignara di ogni cosa, è il momento che il passato spieghi le proprie ragioni e ne sveli i segreti, così che possa vedere i suoi parenti per com’erano: fallibili, sconfitti.

Negli scambi continui tra Jozefina e Katarina, l’autrice riesce a mettere in atto una danza turbolenta e a tratti scoordinata tra ciò che è stato e ciò che è. Mentre Jozefina si fa il segno della croce e guarda il cielo bisbigliando “tu non sai niente”, Katarina spegne l’ennesima sigaretta e urla le sue ragioni, rivendica le risposte che le sono sempre state negate. Sono il presente e il passato che comunicano con tempi e modi diversi, spesso ferendosi.

«L’unico problema è che volevamo tutti fare i partigiani, gli eroi positivi. Nessuno voleva fare il tedesco, il crucco, e ovviamente nemmeno io.»

Da una parte la Seconda guerra mondiale che incombe, due dei figli di Viktorija appartenenti a schieramenti opposti: Adolf sempre più estremista fino alla partenza tra le file naziste e Greta che scappa con i partigiani. Dall’altra l’infanzia di Katarina vissuta sotto il regime di Tito nell’assoluta ignoranza delle proprie origini, e poi vinta dal senso di colpa per essere crucca, cattiva per discendenza. Eventi, questi, molto distanti ma che nel romanzo si sfiorano e si completano; infatti, non ci sono più verità assolute ma attraverso il continuo gioco di specchi messo in atto nella narrazione, la famiglia Schneider in viaggio verso il campo di concentramento narra la sua sconfitta e allo stesso tempo le zone d’ombra del regime comunista di Tito. Il confine tra ciò che è stato raccontato e ciò che invece si è taciuto si assottiglia sempre più, fino a mostrare la paura che si celava dietro al silenzio. Katarina, e tutta la sua generazione, aveva conosciuto un’altra Storia, una che non veniva messa in scena durante le recite scolastiche e non contemplava la minoranza tedesca di cui faceva parte la sua famiglia, perché ci sono avvenimenti che rendono i vincitori troppo simili ai vinti.



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Copertina – Roman Kraft on Unsplash