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Raccolto diurno, Erri De Luca e l’elogio della fragilità


Che quando per stringere la sua gli tesi la mia mano – quella libera dalla morsa su Diavoli custodi –, e lui sentì che dovevo dirgli qualcosa («Avanti, allora. Parli»), lasciai andare delle lacrime incontinenti uguali all’urina emozionata propria ai cani inarginabili.

Erri De Luca tira fuori commozione, sécchi colmi dal pozzo dismesso della bella fragilità. Lo fa soprattutto usando poesia. E seppure Raccolto diurno (Crocetti editore) non dà versi, ma strofe di un melodico periodare, questa medicina al lassativo emotivo s’adopera – qui, ancora. Lui, un Detassis nato alla marina, il naso confitto nell’erica d’alta quota, sceglie la cengia che gli rende più panorama. Da lì racconta. Insieme al senso del sacro, alla naturalità, al parlare fertilizzato che chi conosce la sua voce di penna, sa. Senza una dirittura, l’indice del Raccolto fascina come le api col millefiori, un po’ e un po’: quel che si trova, dentro a un qualsiasi meriggiare pallido e assorto.

Erri De Luca

Tra Chagall e Borges. Messosi comodo, citazioni modiche, annusa. L’aria, che «prende sostanza dalle annate»; «riconosco un’epoca dal naso, un uomo dalla mano», scrive, in quello che è (sempre) il dettato sulla sua personalità. Vicinissimo alla tentazione di imitare sé stesso, De Luca ha scelto di seguire i bordi di un ibrido autoritratto, lui in primo piano e ogni cosa cara attorno, sopra, dentro l’aria.

«Schedato tra i disturbatori a oltranza dell’ordine costituito», eppure capace di una preziosa invisibilità, da esalare «in momenti di concentrata assenza», l’uomo si cerca senza definirsi: «Ho scalato la roccia, impastato la calce,/ mi trovo di sera le mani gonfie, vuote».

Saviezza di vita, di camminate, di calanche, di clandestinità e ribalta; se si ruspa il perché di questa sottile miscellanea – càpita nei burroni del discorso, sotto ai lampi d’immagini nate e subito cadute –, è da trovarsi nel polvericcio dell’esistenza che sta alle spalle, più lunga ormai di quella a venire, e del drammaturgo che la raccoglie. La riesamina chino, a giusto motivo: «Per il tempo ch’eravamo lì non ho capito di essere felice./ Faccio la conoscenza della felicità dal primo giorno,/ ancora me la perdo e poi la riconosco, che c’è stata».

Quanto sono accolti i ricordi, anche se riportano ce(n)sure. De Luca divarica la memoria, e salva pure quelli delle piccolezze, degli utensili e degli elementi. «L’acqua che cambia di sapore/ da una fontana all’altra» può venire in tasca, tastata come feticcio, all’occorrenza benedetta per senso di gratitudine; sotto l’umiltà c’è spesso una chiazza d’umido a rammentare come si venga tutti dal medesimo parto selvaggio – bagnàti, spogli, fieramente randagi («usavo la piovana,/ per lavare la faccia a fine di giornata»). Gli oggetti sono toccati con riverenza. La porta di casa – «da lei sono entrati gli amici, la polizia, l’amore» –, smontata, ascolta il suo commiato melò. I cucirini («amo quello che unisce, l’ago, il filo») simboleggiano infermiere miniaturizzate che «ricuciono le labbra di una camicia, di una ferita». Gli sbarramenti meritano riflessioni meta-matematiche: «Lodo il cancello che interrompe il muro,/ gli nega di essere infinito, spezzandolo a segmento». I fiori vanno odorati con le radici, via da porcellane e finte polle («che vengano spontanei sul solco dei sepolti,/ come il rosmarino sui metri di mio padre. Metteva fiorellini blu a novembre/ il mese in cui sentì il dovere urgente,/ violento di morire»).

Erri De Luca

Nel mentre della mietitura solatia, lo scrittore prende fiato, rallenta, monta il bivacco; regala allora una, una sola lirica piena e classica: «Tu sei quest’ottobre salito sull’alto dei rami,/ il cavo tra i pali sul quale si posa/ l’assemblea delle rondini in partenza». Così è a noi che arranca il respiro, tornati al Novecento degli elitari telegrammi amorosi, dove s’immaginano vagare i poeti con gli occhi bianchi, veggenti lacerati.

Vicino all’ode ai genitori – iniziata dalla senilità paterna, già glauca («un’estate mi indicò alcune vette mancandole di molto./ Se orientamento è senso dell’oriente,/ lui era passato in occidente»); proseguita con la madre: una carezza («da te ho ascoltato il primo libro/ dietro la febbre della scarlattina.// Ti ho dato aiuto a vomitare, a friggere le pizze,/ a scrivere una lettera, ad accendere un fuoco») – cammina la religiosità. Ha i passi del tuttofare, d’un terrenissimo Cristo tuffatore che invita preghiere nuove («Mare nostro/ ti abbiamo seminato di annegati») e dialoghi impossibili. Perché sarà notte, serviranno le provviste di un raccolto.

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