Comma 22

La storia di Questi capelli. Intervista a Djaimilia Pereira de Almeida



Nata in Angola nel 1982, Djaimilia Pereira de Almeida è cresciuta in Portogallo. Definita una delle voci più interessanti dell’attuale scena letteraria portoghese, si è distinta per una produzione eterogenea: saggistica e narrativa, tradotta in numerose lingue. Questi capelli, il titolo pubblicato in Italia da La Nuova Frontiera e tradotto a quattro mani da Giorgio De Marchis e Marta Silvetti, è stato finalista del PEN America Translation Prize; The New York Times l’ha definito «attuale e importante», perché «parla di temi noti a molti lettori che stanno lottando oggi per la loro identità mista; a chiunque stia cercando di dare un senso alla forma dei propri capelli, al colore della pelle e a legami familiari che non rientrano nel censimento più canonico». L’intervista con Djaimilia Pereira de Almeida parte proprio dal volume Questi capelli

Questi capelli

Mila dice che l’incontro con i suoi nonni è stato caratterizzato da un’inconsapevolezza, sia esso avvenuto per caso o pianificato, che lo ha reso speciale perché è stato un incontro tra persone e non una “semplice” relazione familiare e per questo scontata. La storia dei suoi capelli è una composizione, una riparazione, una ricostruzione di un assetto familiare che ha dato origine a Mila, fatto di persone, luoghi, sentimenti. Alla luce di ciò che ha raccolto nel suo libro, quale pensa sia, in fondo, l’eredità che le ha lasciato la sua famiglia? 
Questo libro nasce dalla vicinanza alla mia famiglia, dopo un periodo di allontanamento. Questa vicinanza si è rivelata l’origine e la fonte della mia creatività. L’eredità che mi hanno lasciato è questa forza vitale di voler scrivere. Sento che a volte, quando siamo molto giovani, attraversiamo un periodo in cui ci sentiamo delusi dalle nostre origini.
Vivo oggi il momento dopo l’accettazione della mia provenienza e della mia gente, un momento di pace per essere venuta da dove sono arrivata. 

Mila sente una forte «ignoranza dell’Africa» e sottolinea come questa nostalgia sia «impossibile da colmare con un ritorno». Che cosa pensa le manchi di più del Paese in cui è nata? 
Non saprei dire cosa mi manca di più. Forse gli odori e i suoni. 

C’è un’espressione che ho sottolineato più volte nel suo libro e dice: «Il passato è un satellite necessario». Molti di noi vivono con un passato irrisolto alle spalle, altri cercano per tutta la vita una risposta che spieghi il loro presente, altri ancora lo rimpiangono. Il suo libro è forse una rappresentazione di come dialogare con il proprio passato, che è lì, solido e inscalfibile. Com’è riuscita a renderlo un satellite necessario? 
Forse mi sono resa conto, da un certo punto in poi, che non ha senso voler correggere il passato e le persone che lo hanno abitato. Non ha senso voler correggere coloro che amiamo o noi stessi. 

L’Angola è il paese in cui è nata, il Portogallo quello in cui ha vissuto a partire dai tre anni. Dove sente di essere nata? 
Mi sento in pace con questo aspetto, per quanto strano possa sembrare – non ho davvero un Paese. Non vengo davvero da nessuna parte. Il mio Paese sono i miei libri e le persone che amo e i luoghi che amano. 

Il suo libro racconta intensamente uno sradicamento ossessivo e un radicamento impossibile, del dolore e delle povertà che vivono ai limiti della città e che per decine di anni non possono far altro che osservare «la città tronca», Lisbona, di cui non faranno mai parte e di cui ne sono parte. In che modo il suo libro è stato recepito in Portogallo? Quanto si parla dell’invisibilità a cui lei fa riferimento? 
Il libro è stato accolto molto bene quando è uscito in Portogallo nel 2015 e anche in Brasile, per esempio. Il suo successo è stato sicuramente determinato dal suo tempismo, che gli è stato propizio. Forse il libro ha rappresentato anche un esempio dell’arrivo alla visibilità di una narrazione fino ad allora poco sentita, non so. Uno scrittore può portare alla luce questioni che di solito rimangono nell’ombra. 

Lei scrive: «Abbiamo bisogno delle cose per ricordarci gli uni degli altri». Qual è l’oggetto che più le ricorda qualcuno? 
Una collezione di penne antiche che mi ricordano mio nonno materno, me le ha lasciate in eredità. 

Nel libro scrive di un equilibrio tra la memoria e l’istante. Qual è la parola che più le appartiene? 
Mi piacciono le parole che traducono l’idea dell’attraversamento, dello spazio di mezzo: parole come ‘durante’, o ‘tra’, o ‘intervallo’.