Comma 22

Di cosa scrivono gli autori under 25? Intervista sul libro Quasi di nascosto



Tra Parco Ravizza e Via Bellezza, a Milano, c’è una panchina intorno a cui, alla controra, si raduna sempre un gruppo di giovani studenti linguacciuti e arruffati. Un bel gruppetto di ventenni affiatato e vigoroso, uno sciame che ronza e che fuma, si scapiglia e si risistema. A guardarli vien quasi da intonare il motivetto di Catherine Spaak: noi siamo i giovani, i giovani, i giovani, siamo l’esercito, l’esercito del surf. Quell’inno delicato e irriverente che anticipa il sessantotto e invita al disarmo e alla gioia contagiosa. 

A passarci accanto c’è da sfidare chiunque, coetanei e adulti finiti, a non voler tendere un orecchio e ciucciar via ogni sillaba, ogni segreto o cenno del pensiero per scoprire cosa si nasconde dietro i loro sguardi, com’è il mondo visto da lì, da quella prospettiva in cui sembra tutto possibile e anche tremendamente mortale. I più giovani, c’è da giurarsi, ci si vorrebbero buttare in mezzo – diteci, vi prego, diteci che ne sarà di noi e dove andremo, cosa faremo quando non ci saranno più gli inverni, se si potrà ancora amare quando sarà finito il tempo. E lo stesso i più vecchi, anche se per motivi diversi – raccontatecelo voi il mondo, ché noi un po’ lo abbiamo calpestato come un fiore di campo e un po’ abbiamo smesso di capirlo.

Succede un po’ la stessa cosa quando si legge Quasi di nascosto, la raccolta di racconti edita da Accento che unisce autori e autrici under 25 e testimonia lo stato attuale della nostra narrativa emergente. Come stanno i nostri giovani scrittori? Come si aprono i loro occhi sul mondo, come si richiudono? Come amano, come godono, come soffrono e tremano, come sognano se sognano, come desiderano se desiderano? Soprattutto come scrivono quando scrivono, quali parole scelgono, quali strumenti, quante virgole?

Con queste e molte altre domande per la testa, abbiamo intervistato gli autori di Quasi di nascosto. Quella che segue è la nostra chiacchierata. È piuttosto lunga, sì, ma abbiamo voluto porre a tutti le stesse domande per avere un quadro ampio, per provare a farci un’idea, per permettere a tutti loro – come meritano – di non stare più (quasi) nascosti. Federico Colombo ha incontrato autori e autrici dei racconti e li ha intervistati per Limina.

quasi

I vostri racconti descrivono le unità minime, le coppie, l’individualità. Il mondo è descritto dall’interno, altrimenti si fa sentire solo come un’eco. Questa tendenza ad allontanarlo è un modo per controllarne la ferocia? È così ingombrante che preferite prenderne le distanze quando scrivete?
Teresa Fraioli: Per me è quasi impossibile non descrivere il mondo dall’interno – di un personaggio, di una dinamica, di una qualsiasi bolla che, certo, è più gestibile del mondo intero. Ma non credo che si tratti di “allontanarlo”: prenderne frammenti e sviscerarli è il modo in cui penso di riuscire a riportarne la ferocia.

Aminata Sow: La pretesa di universalità  è un abbaglio. Quello che si può raccontare è un una prospettiva particolare su una scheggia di realtà. Il mondo è fatto di piccoli frammenti, talvolta incompatibili – l’unico modo che abbiamo per avvicinarci a una visione d’insieme è accostare questi pezzi, confrontarli, scombinarli. Che poi è il motivo per cui credo fortemente nella collettività.

Nicolò Bellon: Risuona in noi il rumore del mondo. Sta alla cronaca restituire il fatto, alla narrativa chiedo di muoversi nelle vite intime, restituire lo sguardo, la voce, i gesti umani sformati dalle forze violente e romantiche che si muovono là fuori.

Isabella De Silvestro: Il mondo è feroce nel pretendere che si prenda parte agli eventi non come domanda ma come affermazione. Per affermarsi serve sapere chi si è, dove si sta andando. L’antologia contiene personaggi in fieri, soggetti dubbiosi, precari, spaesati. Concentrarsi sui rapporti minimi significa circoscriversi. E circoscriversi aiuta a darsi una forma.

Micol Maraglino: “Il mondo” sono le altre persone. Quando scrivo cerco di conciliare il terrore con la curiosità. Lasciando che i personaggi diano sfogo ai loro istinti sulla pagina, esorcizzo la mia paura dell’imprevedibilità delle reazioni altrui, “protetta” dalla finzione.

Emma Cori: Sì, il mondo è feroce, spaventoso e ingombrante. Noi facciamo mostra di tenere a distanza questa ferocia, ma senza di lei forse avremmo ben poco di cui scrivere. La nostra è più una rivendicazione di individualità.

Michela Panichi: È più facile cominciare a scrivere dall’interno e pian piano aprire verso il mondo. Le mie protagoniste hanno quattordici anni, vivono in un educandato degli anni dieci. Nel romanzo di formazione ciò che si racconta è il progressivo ampliamento dello spazio e il battesimo all’interno del mondo. Alla fine, alle mie protagoniste viene aperto uno spiraglio di conoscenza: vedere un corpo che ha scelto di essere rinchiuso potrebbe spingerle a volere un diverso destino. Sconfinare nel mondo è tutto ciò che si può augurare a un proprio personaggio.

Martino Giordano: Parlare dell’individuo è parlare del mondo. Mettere qualcosa sulla pagina significa scegliere, e io ho scelto quella porzione di mondo che so di poter analizzare e studiare, perché individuale. Quello che mi interessa non è parlare del mondo, ma del rapporto dell’individuo, e del corpo dell’individuo, con il mondo.

Riccardo Casella: Non credo che il mondo là fuori sia più feroce di quello che hanno vissuto le generazioni prima della nostra, anzi. Forse però siamo i primi a essere così desensibilizzati che quando inevitabilmente ci si para davanti ne rimaniamo spaventati a morte. Mettere tra noi e quella realtà filtri su filtri fino a ridurla a un’eco ci sembra così l’unica soluzione.

Ruben Rossi: La forma breve costringe a chiudere un po’ di più l’orizzonte. Il romanzo può essere mondo, il racconto è meglio che non ci provi. Per il resto, sì, molte delle nostre sono storie personali, ma mai ombelicali. Alcune autobiografiche, sì, ma altre per niente.

Si fa un gran parlare di corpi e di sessualità e anche dai vostri racconti emerge l’urgenza di raccontare il desiderio, i corpi in costruzione e gli amplessi che rivelano la nostra inadeguatezza e la loro inconsistenza. Cosa c’è ancora da dire intorno a questi temi?
Fraioli: La mia generazione parla di sesso e di corpi forse più di tutte le precedenti nel tentativo di scardinare alcuni tabù. Ma la sfera sessuale conserva sempre un che di scomodo, di “pruriginoso”, e credo che sia questo che la narrativa può esplorare e raccontare meglio dell’attivismo, della politica, dell’informazione.

Sow: Vedo un’attenzione morbosa verso i corpi (soprattutto quelli femminili, costantemente osservati, esaminati, valutati). Questo tipo di sguardo si focalizza sull’apparenza e sull’affermazione identitaria, escludendo le potenzialità interattive dei corpi. Il desiderio – la relazione soggetto-oggetto che, secondo la tesi cuteriana, mette in crisi l’identità – è quindi una chiave di lettura per affrancarsi da una visione monolitica e individualistica della corporeità.

Bellon: Mi interessa il maschio di oggi, fragile e scomposto, nuovo. Il maschio silente, goffo e innamorato. Un maschio aperto al femminile che è l’altro ed è in sé.

De Silvestro: Resta da indagare non tanto l’estraneità e il disagio tra l’individuo e il

proprio corpo, ma tra l’individuo e il corpo sociale, tra l’uomo e una collettività

che fatica a farsi comunità. Resta da rivendicare questo spazio.

Maraglino: È importante mettere a confronto la nostra libertà con gli abusi che la società ha perpetrato verso adulti, bambini e ragazzi. La nostra urgenza deriva da una presa di coscienza: non possiamo dare nulla per scontato.

Giordano: Riguardo al tema della transessualità e soprattutto del non binarismo c’è

molto da dire. La letteratura italiana non lo considera, non lascia spazio a questo tipo di alterità. Quindi si può dire che tutta la letteratura che affronta questo tema è nuova e sperimentale.

Casella: Più che del cosa si tratta del come. Di sesso si parla tantissimo, ma al momento sembra che lo si faccia con lo scopo di creare nuovi schieramenti da far scontrare tra loro. È un tema politicizzato da sempre, ma forse stiamo perdendo l’occasione di trattarlo con una sincerità disinteressata.

Rossi: Sul sesso c’è sempre qualcosa da dire. È come l’amore e la guerra: eterno. Di sesso oggi se ne discute di più, ma non credo in modo poi tanto diverso da trenta, cinquant’anni fa – forse solo con un po’ più di cura.

Cori: Credo che siamo tutti votati al metodo empirico quando si tratta di conoscere il mondo: quando ci troviamo in un momento di transizione, come lo sono i vent’anni, ci fidiamo solo degli strumenti più semplici quando si tratta di cercare le nostre radici. Il corpo è lo strumento più semplice che abbiamo, e il sesso è la sua funzione più efficace. Se poi quello che scopriamo utilizzandolo abbia un effetto positivo o meno, è tutto da vedere.

Panichi: Credo che all’inizio l’unico modo di impostare una narrazione credibile sia quello di raccontare qualcosa che si conosce. Il corpo è la base della nostra prima formazione, può essere continuamente riscoperto. Ed è anche ciò con cui abbiamo il rapporto più complesso in assoluto. Robert McKee sostiene che nella costruzione di un personaggio bisogna considerare tre conflitti – con sé stessi, la famiglia, il mondo. Quindi il corpo si configura come primo scoglio: dal rapporto con esso si struttura anche quello con il resto.

Da che parte sta andando la letteratura? Qual è il senso dello scrivere? In questo tempo sempre più rapido e liquido, che è a corto di fiato e di parole, scrivere ci può salvare? E leggere?
Fraioli: Forse siamo a corto di parole ma personalmente ritengo il nostro un tempo con un fortissimo bisogno di definizioni: una necessità identitaria di definire sé stessi, il proprio orientamento sessuale, la propria posizione nel mondo. Definizioni chiare perché vengano comprese e rispettate. Io credo che la letteratura apra delle crepe nelle etichette e negli scudi, fuori dal giudizio e fuori dal giusto.

Sow: Negli ultimi anni ho notato una propensione al racconto di sé, una forma di autonarrazione esacerbata dai social e dal culto dell’individualismo. Per me il senso di scrivere – e ancora di più, di leggere – è quello di allontanarmi da me stessa e osservare il mondo da un punto di vista che non sia il mio. La letteratura non ci salverà, ma può educarci a parlare meno e ascoltare di più, e a spostare un po’ più in là i confini del nostro sguardo.

Bellon: Fare letteratura in questo momento, da questo punto nel mondo, per me significa riorganizzare il caos. Penso a Tasmania di Paolo Giordano e alla trilogia dell’ascolto di Rachel Cusk, alle loro prime persone singolari, alle forme che prende il racconto del sé quando si apre all’altro.

De Silvestro: Non lo so. So che scrivere mi sembra una pratica in grado di restituire integrità e consistenza a ciò che accade intorno. E poi aiuta ad allenare uno sguardo e avere uno sguardo aiuta a vivere meglio.

Maraglino: Penso che coltivare la creatività e la curiosità delle persone con scrittura e lettura sia necessario per la società stessa. Un mondo in cui la gente non sa immaginare è un mondo che non ci meritiamo.

Giordano: Il valore della letteratura sta in quel “gioco del fare finta” che cita Walton quando parla del processo di immedesimazione del lettore. Il sapersi immergere, l’evadere dalla propria vita per sperimentare vite e pensieri altrui. È cambiato il modo di fruire la letteratura, ma lo scopo rimane sempre quello: permettere di conoscere verità che, anche se collegate alla finzione, ci parlano del nostro mondo.

Casella: Non ho previsioni. Scrivere è l’attività più immersiva e i benefici stanno tutti lì. Il fatto che ne venga fuori un racconto passa quasi in secondo piano. Scrivere ti salva perché se lo fai seriamente ti dimentichi di tutto, ma dipende da come sei fatto: c’è chi ci riesce coi videogiochi, chi con la preghiera, qualcuno ce la fa leggendo.

Rossi: Speriamo stia andando il più possibile nella direzione di raccontare con sincerità il reale. Mi sembra che in molti casi ci stia riuscendo bene, inventando, sperimentando. Si dice che nessuno legge più ma di libri belli continuano a uscirne, tanti, e apprezzati. Forse bisogna solo essere bravi a rintracciarli. Per il resto è difficile fare ulteriori previsioni.

Cori: Se dovessi individuare un fenomeno, sarebbe un’ipertrofia dell’autofiction. Ci sono però anche tante direzioni davvero affascinanti, come il new weird e alcuni casi di ricerca sullo stile. Credo che scrivere debba servire a imbrigliarlo, questo tempo rapido e liquido; non è detto che sia una salvezza, ma ci fa credere almeno per un po’ di aver lasciato una traccia.

Panichi: Ultimamente vengono pubblicati molti romanzi che trattano di famiglia, intimità, corpo. Leggere può aiutare ad avvicinarsi a un minimo di comprensione. Scrivere può essere una continua ricerca di ciò che è possibile concepire, produrre, è uno scavo necessario. Non so se siano attività che salvino, però sicuramente arricchiscono.

Quando c’è, nei vostri racconti l’amore è quasi sempre impossibile, disilluso, poco speranzoso. Ci hanno tolto anche quello?
Fraioli: Se anche ci avessero tolto un’idea di amore romantico, perfetto, semplice e irrealistico forse non ne sarei troppo dispiaciuta. Ma non credo che ci abbiano tolto l’amore.

Sow: Ci hanno tolto l’idea che l’amore sia uguale per tutti, e che si realizzi nella famiglia nucleare. Quindi sì, sicuramente c’è un elemento di disillusione, ma anche di creatività nel costruire e abbracciare diverse forme d’amore. Quasi tutte le più memorabili storie d’amore della letteratura raccontano relazioni burrascose, passioni irrealizzabili e legami difficili. Forse ci conviene abbassare le aspettative.

Bellon: Mai. Vero è che a vent’anni l’amore non può che essere infelice. Nel tradimento sta la crescita, ma quando tutto cade l’amore resta.

De Silvestro: Affatto. Non si è mai stati così liberi di amare. Il fatto è che essere liberi implica illudersi e anche venire delusi. Avere speranza e anche vederla tradita. Ma il movimento va in entrambe le direzioni, si rigenera. Non credo ci sia una crisi dell’amore.

Maraglino: No, affatto. Il nostro concetto di amore è semplicemente più realistico: ci siamo abituati al fatto che può finire, che si può trasformare e ridefinire. Abbiamo perso la magia del romanticismo, ma abbiamo guadagnato un panorama semantico più ampio, coi piedi per terra. Più umano.

Giordano: Non so, l’abbiamo mai avuto?

Casella: Non ho grandi opinioni sull’amore. Forse gli amori senza speranza sono più ingombranti, magari per questo se ne scrive di più.

Rossi: L’amore bisogna andarselo a cercare. We found love in a hopeless place, suggerirebbe la saggia Rihanna.

Cori: Ci hanno tolto la patina rosa che lo avvolgeva. Adesso dobbiamo fare il doppio degli sforzi per riavvolgerlo in qualcosa che assomigli all’idealismo.

Panichi: Un amore soddisfatto non è molto letterario. La maggior parte dei romanzi sono basati sulla sua perdita o sulla sua ricerca. Chi narra deve occuparsi di storie complesse, di personaggi mediocri e non realizzati, in cui ognuno di noi possa rivedersi. C’è bisogno di una crisi e di un tentativo di risolverla. Di un amore visto anche come scoperta di sé stessi, talvolta inappagante o foriera di sentimenti negativi. Quindi magari un amore felice nella realtà, più che nei libri.

La letteratura è consolatoria?
Fraioli: Anche. E credo che l’essere consolatoria svolga nella sua sopravvivenza un ruolo consistente.

Sow: Può esserlo, però i libri che trovo più interessanti non mi confortano. Amo la letteratura che racconta un conflitto con il sistema di pensiero dominante. Quando leggo, non voglio essere consolata: voglio essere messa in crisi.

Bellon: Non deve esserlo mai.

De Silvestro: Lo è leggere romanzi. Aiuta a definire ciò che altrimenti rimarrebbe inafferrabile, a trovare una comunione con esperienze, sensazioni e dolori che sarebbero altrimenti vissuti in solitudine. Scrivere invece mi pare assomigli più a un esorcismo. L’esorcismo non è consolatorio, è liberatorio.

Maraglino: Assolutamente, come tutta l’arte. Non credo che le persone si accorgano di quanto sia importante avere la possibilità di affidarsi a un libro, un film, un brano musicale: finalmente puoi stare in silenzio mentre lasci che il mondo ti scorra attorno.

Giordano: Per me è salvifica. Apre gli occhi sulla realtà, o sulle realtà possibili. Ha il potere di farci sentire meno soli, compresi. Ero il ragazzino (o la ragazzina) emarginato che a ricreazione stava da solo con un libro perché non aveva il coraggio di chiedere agli altri bambini di giocare, continuo a essere l’adulto che per vivere serenamente la propria vita ha bisogno di sapere che può “staccare” da quella stessa vita leggendo o scrivendo.

Casella: Fortunatamente sì.

Rossi: Speriamo non lo diventi mai. Credo che la nostra, cioè quella di questo volume, lo sia assai poco. Ci sono molte più domande che risposte: di solito è un buon segno. Però poi è sempre difficile esserne certi. Valuterà il lettore.

Cori: Scrivere implica sempre egocentrismo, perciò in questo senso la letteratura è sempre consolatoria, almeno per chi la produce. E chi la consuma, nella maggior parte dei casi, la apprezza in virtù delle risonanze personali che ci vede dentro: sapere che non siamo strani ci consola sempre.

Panichi: Non credo. L’impulso che spinge a leggere non è la ricerca di conforto. Forse la questione è la bellezza, il profondo rispetto e interesse per ciò che la mente può creare. Se leggo Una questione privata di Fenoglio o Pastorale americana di Roth non mi sento consolata, ma appagata. Ugualmente funziona per lo scrivere: non scrivo per stare bene, ma perché ne ho bisogno e a volte questa necessità può anche rivelarsi dolorosa. Tuttavia, questo non è un motivo per cui smettere.