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Percorrere il buio, abitare la fine. Io sarò il rovo di Francesca Matteoni



Quando si inizia a leggere Io sarò il rovo di Francesca Matteoni, l’ultimo libro che la scrittrice-poeta pistoiese ha pubblicato per l’editore effequ, sembra di fare l’ingresso in uno spazio fatato: un mondo di alberi che si mettono in cammino cercando la strada per qualcuno che si è perso, di sogni che assomigliano pericolosamente a incubi e donne che attraversano il mare per recuperare il cuore perduto degli uomini che amano. Nei dodici racconti che compongono questa brevissima raccolta la vita si trasfigura in simbolo, il dolore in code mozzate. E la bellezza si eleva silente dalle rovine – dal deserto di un’apocalisse che ha (apparentemente) spazzato via ogni cosa. 

Sulla prima pagina del libro, ancor prima dell’esergo – due bellissime citazioni sul viaggio e sull’amore – è riportata una mappa: un paesaggio di monti ai quali si giunge tramite un viottolo che si perde all’orizzonte. Sembrerebbe una dichiarazione di poetica, oltre che una guida: il viaggio come esperienza e paradigma del narrare. E infatti, se si osserva con attenzione, non esiste racconto in questo testo che non sia imperniato su uno spostamento, metaforico o concreto. 

Io sarò il rovo, Francesca Matteoni

I motivi per cui ci si mette in viaggio sono moltissimi: c’è chi lo fa per recuperare le cose perdute – come accade in Quando il bosco cammina, una fiaba dai risvolti ecologisti in cui tutto un microcosmo vegetale e animale si sposta alla ricerca di un torrente scomparso; chi cerca di fuggire da un presente opprimente e chi spera di ritrovare il contatto con la natura e con le radici – come la protagonista di Lamponaia, che indovina la strada di casa come se fosse scritta sulla pelle, nel corpo. 

Fra le pagine di Matteoni, il viaggio è una continua metafora di crescita, di evoluzione. Nel racconto dal titolo Ovest, il protagonista – «il Pellegrino, Colui che ritorna» – decide di incamminarsi verso l’ignoto per cercare «l’oltre […] il corpo slacciato dalla mente […] l’ebbrezza». Durante il tragitto si smarrisce, rimane ferito e cerca di ricomporsi: «Legò e annodò la coda ai brandelli di carne […] alla fine la coda parlò: Ho un nome, ora. Quel nome che si guadagna dopo essersi persi e aver lottato nel mare di tutto il pianto dei vivi. Chiamami Cicatrice. Non sarò più il tuo vanto o la tua astuzia, sarò la tua memoria». Impara ad attraversare il buio di Neravalle, strisciandovi dentro con lentezza. Impara, in altre parole, a crescere, che è uno dei tanti modi di risalire dall’oblio.

Ma il viaggio è anche testimonianza d’amore, come insegna Calvino in L’avventura di un automobilista. È corrersi incontro senza avere la certezza di trovarsi, eppure cercando, instancabilmente, tracce dell’altro nel mondo che è attorno – nel fiume, nel vento, nella terra. Così accade in Fiume e vento, uno dei racconti più intensi della raccolta: un Uomo e una Donna nati da una stessa morte – una rondine restituita alla terra che si trasforma in Erba e Canto – si rincorrono nelle pieghe della storia, sfiorandosi di continuo, fino al momento in cui si riconoscono: «Due creature che erano state un battito d’ala di rondine, un sangue – due volontà, due cicatrici». L’incastro a cui danno vita subito dopo è una poesia che rifugge l’espressione: è incontro, ricostruzione, unione e rinascita. È il miracolo della vita, dell’amore che ricuce le ferite del mondo:

«Io traccio in te un solco dall’inizio – inciampi, crolli, annaspi, ti spezzi, affondi, procedi – il solco è la mia figura che ritorni a decifrare. Io proietto su te un’ombra dall’inizio – la combatti, la eviti, la rinneghi, la temi, ti accechi, la vedi – l’ombra è la mia anima che ritorni a liberare».

Nel libro di Francesca Matteoni la narrazione è un mezzo per esplorare il possibile, indugiando sul limite che separa la realtà dall’incanto della fiaba. Il racconto di una gita al fiume può così trasformarsi in un incubo dai toni post-apocalittici e gli umani, talvolta, possono celare nature ibride. Il mondo che prende forma tra le pagine, magico e oscuro a monte, diventa sempre più desolato man mano che ci si avvicina a valle, dove si rintracciano i resti di una catastrofe innominata. Su di esso si muovono i reietti, gli uomini e le donne a metà, che portano incisi sulla pelle i segni di una lacerazione e di una natura divisa – gli uomini-volpe e gli uomini-lupo, i senza cuore, le streghe, gli esseri alati. Sono loro, forse, i sopravvissuti al disastro: coloro che hanno deciso di mettersi in viaggio per non morire, ostinandosi nel cammino – custodi del silenzio e dei corpi altrui; promesse, come li definisce il Re di Coloro che Attraversano. 

«Siamo sempre stati qui. Quattro zampe, due – artigli, mani, sonno che ci abbraccia, relitti. […] Raccogliamo resti. […] Da diecimila anni vaghiamo insepolti sulla riva di un mondo silenzioso. Siamo soli. […] Non possiamo smettere di sentire, eppure non c’è nessuna montagna da scalare, nessun purgatorio per guadagnarci l’aria. […] Accumuliamo frammenti, li saldiamo all’attesa con fiducia. Un giorno ce ne andremo […] Un giorno saremo forti così tanto da remare. Un giorno.» 

(Sulla riva di un mondo silenzioso).

Io sono il rovo è un libro prezioso, come lo sono tutte le opere che vanno incontro al segreto intimo delle cose. È un libro che abita l’oscurità senza temere ciò che essa nasconde, ma facendone, al contrario, materia creativa e radice di vita. Perché è nel dubbio – per ricordare le parole che Rainer Maria Rilke rivolse a un giovane poeta – nell’interrogazione, nel disorientamento, che si trova la strada: è «perdendosi. Accettando di camminare quando non si sa più dove si sta andando» (Ovest); attraversando nidi di sterpi e intrichi di rovi. E riconoscendo, infine, nell’alterità altrui la propria diversità, il segno di un margine condiviso – che non è necessariamente il luogo dell’impotenza e della sterilità, ma di una possibilità alternativa. Di una vita che prende forma in modo a sé stante: 

«“Ma dove possiamo andare? Né bestie né umani. Dove ci sarà posto per noi?”
“Sarete qualcosa d’altro” […] 
“Siamo fragili. Il futuro ci attende come uno straniero” dissero tenendosi l’uno all’altra, respirando piume e pelliccia, selva e cielo. 
“Cosa saremo, fratello?” 
“Una promessa”.» 
(Terra dello Spirito Cigno)

Io sarò il rovo è il manifesto di un’umanità lacerata e di una lotta sottotraccia che trova in se stessa la forza di rigenerarsi. Allontanandosi da ogni possibile sentimentalismo, Francesca Matteoni riesce a restaurare il senso primigenio della parola che reinventa il mondo, consegnando al lettore il ritratto più autentico di una generazione colta dal presagio della fine.


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