Comma 22

L’eroe antitragico. Il Teseo dell’ultimo Gide



Era il 1946 quando usciva per Gallimard il Teseo di André Gide, una novella su cui l’imminente premio Nobel si era arrovellato almeno dall’inizio del decennio. Giunto vicino agli ottant’anni, l’immoralista un tempo garçon sauvage della letteratura d’oltralpe tracciava più che il ritratto il monologo di un «Teseo, vecchio e saggio, calmo finalmente davanti al proprio destino» – in una novella che non per nulla si conclude su un sommesso «io ho vissuto». In un’Europa reduce dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, che Gide aveva vissuto per lo più in Nord Africa dopo l’occupazione nazista della Francia, evocare un eroe come Teseo non è un atto privo di risonanze simboliche: nel mito antico, superata la prova del Minotauro, Teseo è il rifondatore di Atene, l’artefice del sinecismo, quel processo tanto mitico quanto storico che portò i villaggi dell’Attica a unificarsi sotto un’unica, comune guida. Segnale-spia dell’importanza che il Teseo riveste anche nell’universo letterario personale di Gide, questa novella fu l’ultima opera narrativa in senso stretto che lo scrittore francese pubblicò: vincitore del Nobel nel 1947 e morto nel 1951, negli ultimissimi anni della sua vita, mentre gli astri di Sartre e Camus si imponevano definitivamente sulla scena letteraria francese, Gide pubblicò una nuova, importante porzione del suo Journal e svariati saggi di argomento letterario; e l’io narrante non venne più ceduto ad altri, per quanto la maschera retrospettiva di Teseo possa essere rivelatrice dell’interiorità dello stesso, anziano Gide. Pubblicato per la prima volta in italiano solo nei primi anni Novanta, il Teseo di André Gide viene adesso riproposto dalla Mattioli 1885 in una nuova edizione, nella traduzione di Livio e Bruno Crescenzi e aperta da una puntuale prefazione a firma dello storico delle religioni Cristiano Grottanelli.

Teseo

Teseo in un certo senso è stato il primo eroe romantico della tradizione occidentale e, proprio per questo, il più superficiale. Forse è proprio questa superficialità, tipica di ogni fondatore, di ogni avventuriero e di ogni manager di contemporanea memoria, ad attrarre Gide verso il suo ultimo personaggio, superficialità che gli consente di conferire a queste mitiche memorie farlocche un incipit quanto mai lapidario: «è proprio per mio figlio Ippolito che desideravo narrare la storia della mia vita, affinché la conoscesse; lui, però, non è più, ma io farò lo stesso il mio racconto. Per riguardo a lui non avrei osato dilungarmi, così come invece sto per fare ora, su alcune delle mie avventure galanti: mostrandosi così straordinariamente pudico, non osavo parlare dei miei amori in sua presenza…». Lapidario e anche blasé è il tono di questo anziano che nella sua vita ha visto troppe cose per restare soggiogato dal fascino di un mito o dal peso di un trauma, fosse pure l’uccisione accidentale del figlio. Si pensi al fare circospetto e quasi apotropaico con cui pochi anni prima un giovane Jean-Paul Sartre aveva messo in scena, nella Parigi occupata dai nazisti, la sua tanto discussa riscrittura delle Coefore eschilee intitolata Le mosche: il rispetto reverenziale per il mito nell’ultimo Gide è del tutto assente, così come ogni obbligato rimando esplicito al presente; da questo scrittore ormai giunto al limitare della sua arte, tutto viene calato in un unico impasto narrativo. Anche quell’affermazione en passant del monologo di Teseo che di fatto ribalta la chiacchierata-rivendicata interiorità erotica di Gide – «benché greco, non mi sento assolutamente portato verso quelli del mio sesso, per quanto siano giovani e affascinanti» – si inserisce in un gioco di assolute ironie. Tutto il Teseo di Gide coglie, a ben vedere, quella componente giocosa e ludica del mitologare greco che raramente i rifacimenti e attualizzazioni nel cuore del Novecento hanno saputo recuperare.

«Il tempo della tua infanzia è ormai trascorso. Sii uomo. Sappi mostrare a tutti cosa possa essere e cosa si proponga di diventare un uomo. Molte sono le grandi imprese da compiere. Realizzale».

Il monologo del Teseo gidiano si dipana a partire da quest’appello che il padre Egeo rivolge all’eroe allora ragazzo – ma questo tono epicizzante subito si scheggia con Teseo che rivela candidamente il sospetto di essere stato soltanto un «figlio putativo» per Egeo, forse, ma non necessariamente, generato da Poseidone, «nel qual caso è probabile che sia da quel dio che io abbia ereditato il mio umore mutevole». I complessi rapporti di sudditanza e sacrificio tra l’Attica e Creta vengono liquidati dalla voce di Teseo come una «storia molto complicata»: la storia della missione volontaria del giovane Teseo e della sua lotta con il Minotauro, che ha ispirato a Borges e a Dürrenmatt alcune delle pagine più splendenti di tutta la letteratura del Novecento, viene raccontata da Teseo con una certa nonchalance. Più che il mito in sé, sentito raccontare innumerevoli volte, sorprendono certi a parte che solo Gide ha saputo dare a questa narrazione: «non sono affatto un cosmopolita», riflette Teseo narrando del suo arrivo a Creta, «per la prima volta, alla corte di Minosse, compresi di essere un greco e mi sentii spaesato».

Da questa intromissione nell’interiorità dell’eroe ci troviamo senza soluzione di continuità trasportati al racconto della seduzione di Arianna e – altra astuzia e invenzione di Gide – anche della regina madre Pasifae; poi c’è un enigmatico e quasi metafisico incontro con l’architetto Dedalo e il fantasma del figlio Icaro. Tutto ciò che nel mito è centrale, la lotta e l’uccisione del Minotauro nel cuore del labirinto, viene liquidato da questo Teseo novecentesco nel giro di poche pagine: l’attenzione di Gide è rivolta più, se mai, agli schemi di seduzione che Teseo e il fido Piritoo mettono in campo ai danni di Arianna e di sua sorella Fedra. Anche l’abbandono di Arianna piantata in asso a Nasso, il suicidio di Egeo indotto involontariamente a credere che il figlio fosse stato ucciso dal Minotauro e la doppia morte del figlio Ippolito e della moglie Fedra, al centro di una tragedia di Euripide, sono eventi quasi accessori nella narrazione del Teseo gidiano. I veri due momenti topici dell’ultima parte della novella sono quelli in cui l’eroe rifonda l’Attica sulla base di un principio di centralismo amministrativo e di meritocrazia proto-democratica, e un trasognato incontro con il cieco Edipo presso il sacello di Colono, su cui si chiude il racconto.

«Ho liberato definitivamente la Terra da molti tiranni, banditi e mostri; ho ripulito alcune strade rischiose lungo le quali anche gli spiriti più temerari non si avventuravano senza tremori; ho reso meno minacciosi i voleri del cielo in modo che l’uomo, non più con la fronte china, ne temesse di meno l’imprevedibilità».

Queste elencazioni e questi cataloghi delle epopee che più volte spuntano nel breve testo di Gide evidenziano insistentemente il carattere di Teseo come eroe fondatore, fondativo, quasi illuminista. «Non mi basta essere e poi essere stato: come già mi ripeteva mio nonno, occorre lasciare un’eredità e fare in modo che ogni cosa non termini con noi stessi», raccomanda l’antico greco all’ignoto lettore, e in questo anche la rielaborazione di Gide del personaggio mitico pare avvicinarsi a quella ricerca del kleos che muoveva già gli eroi omerici. «Se confronto a quello di Edipo il mio destino, mi sento soddisfatto: io l’ho compiuto», considera senza false modestie Teseo nelle ultime righe del suo racconto. «Dietro di me lascio la città di Atene. Più della moglie e del figlio, è essa che ho amato teneramente. Ho edificato la mia città. Dopo di me, il mio pensiero vi dimorerà in eterno». Leggendo queste righe viene da pensare che forse è vero che, dietro al racconto della rifondazione politica dell’Attica, l’unico vero momento epico e trionfale del Teseo gidiano, si debba leggere l’orgoglio dell’anziano scrittore per la (co-)fondazione della casa editrice Gallimard e per la lunga conduzione di un marchio trionfale come la Nouvelle revue française. Ma il pensiero non è tutto: nel suo commiato, il Teseo gidiano ci tiene a farci sapere di aver conosciuto anche «i piaceri terreni», e che, più di ogni alta cosa, «mi è di conforto pensare che dopo di me e grazie a me gli uomini sapranno essere più felici, migliori e più liberi. Ho compiuto la mia opera per il bene dell’umanità futura. Io ho vissuto».

Teseo

Teseo è un eroe che, più di altri, addensa in sé tutte le contraddizioni dell’Occidente: all’indomani della Seconda Guerra Mondiale due critici dell’Occidente come Adorno e Horkheimer concentrarono il loro sguardo accusatore sull’Ulisse omerico. Ma proprio perché meno autocosciente, più incline alla messa in forma delle azioni che al loro racconto retrospettivo ed eventualmente falsificatorio, l’originale Teseo con la sua ambiguità, con la sua lascivia, con la sua apparente invulnerabilità rappresenta un certo ideale occidentale di uomo vittorioso che fino ai nostri giorni si è trasmesso quasi immutato. Persino Euripide, un tragediografo certo non clemente con i suoi protagonisti, non riesce ad esasperare più di tanto il pathos del personaggio nemmeno quando Teseo scopre di aver maledetto a morte il figlio Ippolito per un’accusa falsa – a differenza dell’Eracle euripideo in una situazione identica, Teseo ha la lucidità di dire al figlio moribondo che «un dio mi aveva tolto il giudizio», ottenendone il perdono un attimo prima che il ragazzo spiri per non lasciare «nella mia anima il segno che la contamina.». Il Teseo di Gide poi è particolarmente autoindulgente: ammette senza problemi che «in seguito, alcuni mi hanno rimproverato per la mia condotta verso Arianna», dicendogli che non avrebbe mai dovuto abbandonarla, «o quantomeno non su un’isola»; ma quest’eroe sbarazzino non riesce a trattenersi dal confessare al suo lettore che ciò che gli premeva «era proprio mettere il mare fra noi».«Quel che mi piace di te è un sentimento di gioiosità che ti distingue da Eracle», diceva anche Dedalo a Teseo durante il loro incontro a Creta, un’altra delle tante, piccole invenzioni di Gide che costellano la sua novella.

Teseo è un eroe che, più volte nel corso della sua mitica biografia, si trova faccia-a-faccia con i più grandi misteri e con le più profonde tragedie: dall’ibrido mostruoso che era il Minotauro, frutto di un accoppiamento tabù, agli arcana imperii la cui cognizione istintiva gli permise di prendere il controllo dell’Attica, dall’uccisione accidentale del padre all’uccisione volontaria ma incongrua del figlio. Ciò che di specificatamente occidentale ha Teseo, e il Teseo di Gide in sommo grado, è proprio una certa nonchalance nel ripercorrere i propri errori, un’ostinazione serrata che pure lo riconduce sempre e immancabilmente al posto di dominio. Teseo non è tanto l’eroe della fondazione quanto quello della ri-fondazione, colui che riporta l’ordine naturale delle cose innanzitutto a Creta, uccidendo il monstrum che mai sarebbe dovuto nascere, colui che libera le vie dell’Attica con lo sterminio dei briganti e dei trickster locali. Il diritto non può che fondarsi su una violenza rimossa, la civiltà non può muovere i suoi passi altrimenti che da sacrifici dimenticati. E proprio perché così bravo a dimenticare, a minimizzare, a farsi perdonare, Teseo è inestirpabilmente antitragico.

«Quando/il minotauro si gettò fra le braccia aperte/dell’altro, confidando di avere trovato/un amico, un essere uguale a lui… l’altro colpì/le sue immagini colpirono, e l’altro affondò/con tale sicurezza il pugnale nella schiena/che il minotauro era già morto quando/cadde a terra», scriveva Friedrich Dürrenmatt al termine della sua monumentale ballata Minotauro, raccontata tutta dalla prospettiva infantile del mostro: rileggere il Teseo di Gide ci permette adesso di ascoltare il controcanto, non meno letale, di un eroe che proprio in quanto sterminatore fu il fondatore della civiltà attica. Il concetto di civiltà e il verbo seppellire hanno una radice pericolosamente simile, in latino: humanitas, humere. Il mito di Teseo ci dimostra non solo che fu segno dell’inizio della civiltà, nella Preistoria, l’ideazione delle prime tombe e necropoli, come a lungo si è creduto, ma che la civiltà stessa non può che fondarsi su cadaveri e carcasse che altrettanto necessariamente deve dimenticare. Se non lo fa, non si è più sotto il regno di Teseo, ma nell’incubo di un Edipo.





Copertina: Antonio Canova, Teseo in lotta con il centauro, 1805.