Comma 22

La rivolta dell’aldilà. Le ragazze Monroe di Antoine Volodine



Quarantacinquesimo tassello del grande mosaico post-esotico, il ventunesimo a firma Antoine Volodine, Le ragazze Monroe (66thand2nd)49 canonici capitoli, come i 49 giorni del Bardo compie la definitiva traduzione in termini spaziali del tracollo dell’utopia egualitarista. L’immenso campo di internamento psichiatrico dove tutto si svolge e dove l’umanità, o ciò che ne resta, è ridotta a vivere, è uno spazio chiuso da cui non si esce neppure con la morte.
Antitesi della città ideale, vien quasi da pensare a Dogville di Lars von Trier, il gigantesco ospedale psichiatrico con i suoi quartieri, settori, palazzi e dormitori semi deserti, è l’ultimo luogo abitato oltre il quale si estende «un mondo di impenetrabili rifiuti», l’ultimo fortino dove tutto è doppio o si sdoppia in un gigantesco esperimento di schizofrenia. Le Autorità, la Polizia e il Partito, che quasi si confondono in un unico Moloch, sono entità corrotte e in disfacimento che s’illudono di gestire una comunità, anch’essa specularmente allo sbando, fatta di internati psichiatrici, ebefrenici, creature ibride vive e morte, relitti umani, «dissidenti mentali, dissidenti organici e mezze calze senza futuro».

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Una élite di guerrigliere scelte, versione post-sovietica delle Charlie’s Angels, agli ordini di Monroe, ex dissidente eliminato anni addietro nelle purghe del Partito, emerge dall’aldilà per guidare la rivolta e tentare di sollevare le masse. La Polizia e il Partito danno loro la caccia, utilizzando tecniche sciamaniche e strumentazioni ottico-oniriche e mettendo in atto uno strano gioco del gatto e del topo dove tutti braccano tutti. Gli avversari si trincerano all’interno di spazi ben delimitati, il Dormitorio Malakassian, la Casa dei Cosmonauti, Il Padiglione Cornelius, il settore Baltimore, e non è un caso che nel libro si giochi continuamente a scacchi, si occupino celle, si aprano e chiudano armadi, porte, finestre, serrande e gabbiotti, come in una scena teatrale dove, dietro le quinte, s’acquatta lo spazio scuro:

«La morte, per noi, altro non era che un territorio attiguo, (…) un territorio a noi familiare, niente di più, (…) e vero è che di quel territorio nero e fluttuante (…) noi non conoscevamo praticamente nulla, solo l’infima porzione che fungeva da gabbiotto d’ingresso, anzi neppure quello, da uscita del gabbiotto d’ingresso verso i vivi e il campo d’internamento psichiatrico.»

Le porte sbattono e si spalancano, accolgono e respingono, regolano l’entrata in scena degli attori – dalle spietate terroriste, ai detective smagati, alle comparse tragicomiche – che finiscono per sovraffollare spazi angusti come in un famoso sketch dei fratelli Marx. I personaggi, che si muovono come altrettanti pezzi su una scacchiera, hanno nomi che arrivano dal fondo della notte post-esotica, in primis quelli delle terroriste, Rebecca Rausch, Lola Schnittke Lilia Adouldjamani, Mirka Goldenberg, – e qui non si può non pensare alla Banda Baader Meinhof – ma anche quelli dei vari segugi più o meno convinti della propria funzione, Keytel, Strummheim, Borgmeister e Breton, nomen omen, scalcagnato veggente in grado di “sentire” i sogni dei morti.

E qui la vertigine della duplicazione schizofrenica s’avvita nei dialoghi tra l’Io narrante e il suo doppio Breton che, a turno, spiano da una finestra immersa nel buio l’affiorare della rue Dellwo e delle ragazze Monroe appese a un cornicione, come nel doppio incipit del romanzo che, in una progressiva contrazione degna di Sophie Calle, riproduce la scena con diversi gradi di empatia:

«La ragazza rimase appesa per un istante al cornicione che correva intorno al terzo piano, poi precipitò nel vuoto e scomparve nell’oscurità iridescente di rue Dellwo. Si chiamava Rausch. Rebecca Rausch. Trent’anni prima l’avevo amata alla follia. E poi era morta.

La stessa immagine, una volta ancora. La ragazza rimase sospesa all’altezza del terzo piano, tra il cielo e la terra. Aveva un nome. Rausch. Rebecca Rausch.»

O ancora, questa volta in progressione:

«Col passare degli anni Breton si era rattrappito e se in gioventù aveva avuto un aspetto sportivo, nonché le abilità muscolari del caso, ormai avrebbe potuto passare inosservato in mezzo a un gruppo di settantenni condotti al macello.
Credo di aver già detto che (Breton) non aveva più l’aspetto dinamico e aitante della sua giovinezza e che ormai, dopo quarant’anni di carcere in uno dei bracci riservati agli incurabili, somigliava a un uomo in declino, diciamo pure a un pensionato dal volto cereo, buono solo a rimuginare con fatalismo sul passato.»

Iterazione che prosegue inesorabile anche nelle scene degli interrogatori di Breton e del suo doppio da parte di una coppia di sgherri, nei dialoghi tra i cadaveri dei due vecchi sulle scale, nella scene di seduzione tra Keytel e Dama Patmos, tra Breton e Rebecca Rausch, nel ricordo di mitiche coppie di amanti, Bonnie & Clyde ma anche Kurt & Ingrid (un’autocitazione da Lisbona ultima frontiera), dove il doppio punto di vista è di volta in volta quello dei vivi e dei morti, del Partito onnisciente e della rivolta e dove tutto finisce in fondo per combaciare.

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Antoine Volodine

Le ragazze che emergono dalle profondità dello spazio scuro hanno il tempo contato in questa loro seconda e breve vita, sono una creazione effimera di Monroe e lavorano per lui, sanno di essere «carne da cannone destinata a scomparire», bestemmiano come carrettieri e non pretendono di sopravvivere alla loro missione. Nascono, lottano e muoiono, «senza atroci sofferenze e senza scene (…) Ma senza tenerezza».
Monroe, novello Keyser Söze, dietro il quale ogni lettore sente magicamente affiorare il viso di Marylin, non comparirà mai, se non alla fine, intercettato dalle retine di Breton e del suo doppio, anche se tutti in fondo lavorano per lui, le guerrigliere, i segugi, le Autorità, i vivi e i morti, e naturalmente i lettori e il traduttore. Ennesima rappresentazione del patriarca demiurgo alias stregone sciamano alias sovrano assoluto all’interno del corpus post-esotico, Monroe ne incarna però l’esito estremo e disilluso, destinato com’è a svanire, anche lui, senza lasciare tracce. E non è difficile scorgervi in filigrana il profilo sfuocato dello stesso Volodine, deus ex machina di un gigantesco sovramondo che si avvia lentamente alla conclusione. Il silenzio che farà seguito alla pubblicazione del quarantanovesimo tassello del corpus post-esotico non è lontano e sappiamo che l’ultimo titolo, Ritorno al bitume, consterà di 343 fascicoli e sarà a firma del collettivo Infernus Iohannes.

Resta ad aleggiare, in chiusa, l’umorismo del disastro che esplode nel delirante elenco delle 343 frazioni del Partito ai suoi gloriosi tempi, doppio speculare dei 343 titoli post-esotici inseriti in calce al Post esotismo in dieci lezioni lezione undicesima, in cui ogni lettore, e dunque ogni traduttore, è invitato a scegliere una propria frazione di riferimento. Chi scrive ha una predilezione per I Bolscevichi della malinconia, Le Sabotatrici di passaggi angusti, I Dogmatici sfavillanti, e dati i tempi, il durassiano Per una diga sui Pacifici.




In copertina:
Domenico Gnoli, dalla copertina del volume edito da 66thand2nd