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La paura dei trentenni. Il periodo del silenzio di Francesca Manfredi



Spegnersi, per poter ascoltare davvero. Cancellare gli alibi ai rumori di fondo, per poter sentire il suono del proprio, profondo. Fa questo, Cristina Marino, che ha compiuto 29 anni da poco: il tempo della vita in cui esigiamo – da noi stessi e dal mondo, spesso con ancora più violenza di quanto il mondo la esiga da noi – una risposta di senso. La protagonista di Il periodo del silenzio, in libreria per La Nave di Teseo, si muove in una Torino che emerge per tratti da una coltre di distanza, come quella che Cristina, bibliotecaria a contratto, poche amiche e un ex fidanzato, Giacomo, da poco diventato memoria invadente e poi ossessiva, decide di porre tra sé e il mondo. Smette, semplicemente, di parlare, terrorizzando la famiglia e disorientando le poche amiche (una, Silvia: aspirante modella, egocentrica per necessità) e sacrificando una parte di sé. A Francesca Manfredi, un Premio Campiello Opera Prima già in bacheca per Un posto dove stare nel 2017, e una lunga teoria di finali prestigiose a corollario, penna elegante e grande mestiere, è stato detto che ha scritto un romanzo sugli hikikomori, sul mutismo selettivo, sui social network e la performatività asfissiante e ormai indigesta anche ai tardi millennials: dolorosamente ipercontemporaneo, in sintesi. In realtà, fa forse qualcosa di più. Tiene insieme tutto questo senza didascalismi, sfiorandolo come chi ha l’ambizione di non fermarsi al presente – e costruisce, con consapevolezza minuziosa e una dedizione alla propria urgenza che gliel’ha fatta rielaborare per diversi anni – una storia sulla mania del controllo di cui è preda chi è troppo intelligente per farsi bastare la realtà. Cristina Marino guarda il mondo con la smorfia annoiata di chi si rivendica più intelligente del mondo, e – sapendo di esserlo, maschera, inconsapevolmente – nella scelta la paura dell’imponderabile: un’epitome perfetta dei trentenni che annaspano nel momento della vita in cui sanno già cosa non potranno più essere (tutto quello che vogliono) ma non ancora cosa diventeranno. Cristina allontana per non perdere per prima. Cancellando i social lo fa con la voce del mondo e il bisogno di essere qualcuno, poi lo fa coi genitori, la catena da rompere per un’indipendenza inevitabile. Con la sorella Elena, quella che ce l’ha fatta, l’adeguata che può tutto – anche prendere la parola al suo posto, quando lei vi rinuncia persino per raccontarsi – tranne convincerla a tornare ad essere qualcuno che lei sia in grado di comprendere. E persino Daniele, possibile amore che ha l’imperdonabile debolezza di non volerla cambiare: niente come l’accettazione più totale scatena i sensi di colpa. Cristina non vuole ferire nessuno, dice. Il silenzio è per sé. È cura, è catarsi, purificazione, tende a un’ascesi che – per definizione – non può che trasformarsi in consunzione, in un corpo che si alleggerisce più della mente e in ore che scorrono svuotate più che ariose. Le riempie  la spietatezza del giudizio, sul mondo e di conseguenza su di sé, che la voce dei pensieri, taciuta all’esterno, nel silenzio della pagina si amplifica.

Manfredi

Nella ficcante intuizione di Manfredi, è il vuoto stesso a raccontare il modo in cui lo riempiamo: cosa succede intorno, e persino come andrà a finire – tra mode, emulatori e rese – importa fino a un certo punto. Quello che conta, come per Cristina, è la sfida con se stessi. In un mondo che impone al suo tempo di aggiungere a contenitori cui è stato bucato il fondo, l’unica vera rivoluzione è la sottrazione, il rifiuto, il Bartlebyano “preferirei di no”, che nei secoli, dell’eroe di Twain ha però lasciato per strada – e vivaddio – la monoliticità data dallo sguardo del narratore onnisciente. La Cristina di oggi, come i suoi coetanei, dubita, si interroga, sentenzia, si pente. E forse trova – sorprendendo anche se stessa – la forza o l’orgoglio di non cedere, di non tornare alla parola, accettando il rischio di pagare per intero il prezzo delle petizioni di principio, con l’assolutezza che solo una giovinezza che non si sente pronta all’età adulta si concede ancora. Manfredi accetta e risolve con grande intelligenza la complessa sfida di rendere davvero narrativi i pensieri, e riesce a evitare la slavina banale di mettere nero su bianco una tesi su giusto e sbagliato. Si toglie dal quadro e, nell’intenzione di farlo, non solo resta nel mezzo, ma illumina le reazioni del mondo. Chi fugge e chi resta, chi accetta e chi non comprenderà mai.

 I personaggi di questo romanzo sono spesso comici, sempre spaventati, di rado guerrieri, aggrappati a corpi che si incontrano meccanicamente.  Per Cristina, ad esempio, il sesso diventa a tratti l’unico linguaggio concesso, a sua volta capace di dire meno di quello che vorrebbe e troppo perché sia pronta ad accettarne le conseguenze. E persino la scrittura diventa da possibilità una gabbia, da veicolo di quello che non può non dire da strumento in mano agli altri per incasellarla ancora. Un romanzo profondo, scomodo, sagace. Che nega al lettore quello che Cristina ha scelto per sé: la finzione dell’indifferenza.

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