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Comma 22

Là dove sosta la poesia. Intervista ad Angelo Vannini



Angelo Vannini, anconetano d’origine ma residente a Parigi, pubblica la sua prima raccolta di poesie intitolata Fogli di sosta, con prefazione di Fabio Pusterla (peQuod). In Italia ha già pubblicato L’intermissione dei cigni. Cinquantanove giorni alla frontiera della letteratura, con un testo di Francesco Scarabicchi (Arcipelago Itaca, 2017) e Stoffe da Shiga (Affinità elettive, 2022).
In occasione della pubblicazione chiediamo al poeta di parlarci della sua recente opera.

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Vorrei innanzitutto chiederle di provare a tracciare alcune piste a proposito del titolo della sua ultima raccolta. Nella prefazione al suo libro Fabio Pusterla fa risuonare il titolo della prima raccolta di Franco Fortini, del 1946, intitolata Foglio di via. Cosa sono i suoi Fogli di sosta?
Fabio è un lettore di profonda cultura poetica e sa cogliere storia e preistoria di un testo. Ogni testo porta con sé innumerevoli voci che lo abitano, che quasi mai abbiamo scelto. Se un dono abbiamo in quanto esseri umani sono le nostre possibilità di ascolto, che superano sempre la nostra capacità percettiva e intenzionale. Sentiamo anche ciò che non è. Il presente è sempre abitato da altre forme di presenza, e questo struttura la nostra eredità, nel bene e nel male. Mi piace pensare che Fortini sia una di queste presenze. Ma poi non è soltanto una questione di eredità: c’è che i testi sanno andare molto al di là di ciò che siamo e possiamo.
Ad essere qui raccolti sono fogli come bigliettini, un petit mot, un appunto, una nota lasciata a significare magari un saluto, quella traccia di inchiostro per dire che siamo passati. Per dire dove e come abbiamo sostato, qua e là, nel nostro passaggio. Per dire che questo passare è forse tutto quello abbiamo. Che forse siamo questo stesso passare, e, pure, molto di più. Che questo passare non è che una sosta.

La sua raccolta conta nove sezioni e una poesia d’apertura. I suoi versi chiedono di Ancona, presentata come la città degli interrogativi di lei bambino al padre “Papi” ma anche come «la città che verrà dopo». Ancona è anche la città natale del poeta Francesco Scarabicchi, uno dei suoi maestri. Vuole parlarci di entrambi?
La poesia che apre la raccolta, cui lei fa riferimento, è nata in treno, scendendo sulla linea adriatica, appena passata la stazione di Pesaro. La legga come fosse anche lei seduta in un compartimento. Magari sentirà a un certo punto l’annuncio delle fermate avvenire. Magari un bambino, non troppo distante da lei, chiederà a suo padre il significato di uno dei nomi che ha inteso. Cosa c’è in un nome? Non lo sapremo mai, per fortuna. Ma quello stupore di bambino è in ogni partire, in ogni tornare.
Purtroppo temo di non essere in grado di parlare di Ancona. Ogni cosa che potrei dire sarebbe ingiusta, inadeguata, contraddittoria. È una città che posso solo odiamare, per ragioni al tempo stesso personali e storiche, necessarie e contingenti. Una città che non mi ha mai accolto. Che non posso abitare. Che non posso smettere di abitare. Che può venire solamente dopo.
Di Francesco parlo più volentieri, anche se il senso di inadeguatezza, in questo caso, è persino più grande. Molto più grande. Chissà cosa potrei dire che sia all’altezza di questo grande poeta, e grande uomo, che fu, è e sarà Francesco Scarabicchi. Forse una cosa, una cosa sola, che a mio parere contraddistingue la sua poesia. Una cosa che lui stesso disse a proposito dell’opera di un poeta che sentiva fraterno, Philippe Jaccottet. A muovere l’attività tanto dell’uno quanto dell’altro era quel che Francesco chiamava l’etica della domanda. Che cos’è? È l’unico modo che abbiamo, in quanto esseri umani, di coniugare grandezza e umiltà. A partire dalla propria finitezza, dalla propria fallibilità, assumersi la responsabilità di risiedere, per fare di questa terra un luogo ospitale. Non condiscendere, non adagiarsi su niente. Domandare. Domandare e nominare. «Dove cercarla e come / la tua finestra accesa?» [F.S. da Il prato bianco]. L’etica della domanda in Scarabicchi è sempre anche etica della parola. Sono inseparabili. Nella sua poesia non c’è nulla che sia superfluo, niente di ornamentale. Nessuna forma di compiacimento. Massima responsabilità di fronte al proprio dire, al proprio abitare.
Ho detto prima che la complessità del mio rapporto con Ancona pertiene a ragioni al tempo stesso personali e storiche, contingenti e necessarie. Mi viene ora a mente che molte delle ragioni che considero storiche o necessarie sono state splendidamente colte dal ritratto che Francesco Scarabicchi dà di quella «isola prigioniera di se stessa», nel libro intitolato Una città di scoglio (Affinità elettive, 2016). Ma più che un libro è un gioiello, cioè è gioiello come solo può essere ogni vero libro: l’autore si mette sulle tracce di quel «sepolto umanesimo dorico» che il tempo e gli uomini hanno cospirato a offuscare.

La Francia, il Sudafrica e l’Italia fanno capolino in diverse poesie della sua raccolta. Leggerle conduce le lettrici e i lettori a Montbéliard, nella Franca-Contea, a Johannesburg ma anche all’Italia di Questa gente: «figlia/ di chi ha ucciso e convinta/ d’essere innocente». Cosa intende quando scrive: «Non fare come/ chi crede non udire/ se stesso nel tuo nome»?
La poesia cui fa riferimento, Questa gente, apre la sezione intitolata Il salto. Quale salto? Quello degli italiani in Africa? Degli europei in America? Forse. In ogni caso è un salto «nel vuoto di tutti i libri» e intende fare i conti – impresa impossibile! – con quella che è probabilmente la più mostruosa delle nostre amnesie collettive, il colonialismo italiano.
A proposito di Questa gente, Fabio Pusterla ha parlato di «auspicio di natura quasi kantiana». Credo che abbia ragione. In ogni caso, senza uno slancio etico – un salto – che sia incondizionato, non usciremo mai dall’arbitrario che è nei nostri piccoli o grandi compromessi, quel ménage quotidiano che ci fa tendere la mano a uno mentre condanniamo a morte l’altro. Parlo di arbitrario perché è tutta una questione di arbitrio ovviamente, cioè di politica. Ma la domanda è: chi vogliamo che sia ad arbitrare? I nostri interessi particolaristici o il senso di appartenenza a un’umanità comune?
I versi che mi chiede di spiegare volevano riferirsi alla ferale illusione che si fanno gli uomini di essere diversi dagli altri, come se non facessimo tutti parte di una stessa umanità, come se la vulnerabilità di ognuno non avesse lo stesso bisogno di cura, o il dolore la stessa dignità. Come facciamo a essere così sciocchi! Sembra proprio che la Storia non sappia insegnarci nulla, oppure siamo noi che facciamo orecchie da mercante. Forse ci basterebbe solo aprirle, queste orecchie, e ascoltare. Ma farlo per bene. Chi sei? Ascolto il tuo nome. In quelle sillabe così diverse dalle mie ci sono anch’io, se solo ascolto per bene.
Ma tutta questa sezione della raccolta, a differenza dalle altre, non è un viaggio, non è una sosta, un passaggio. No, è soltanto un «salto»: sei brevi componimenti, un nonnulla, un meno di niente di fronte a un mare di oblio, di fronte all’oceano che è siffatta ignoranza intenzionale.

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Angelo Vannini

Vorrei farle una domanda a proposito della sua pratica di scrittura. Vuole raccontarci come è arrivato alla poesia? Quale è il suo rapporto con la scrittura poetica, quali le poetesse e i poeti che l’hanno accompagnata nell’apprentissage della scrittura?
Sono arrivato alla poesia per furto. Posso permettermi la verità, dato che dopo un quarto di secolo anche il peggiore dei reati finisce in prescrizione. Una sorta di scena primitiva mi è sfilata davanti agli occhi, ascoltando la sua domanda. Immagini tre ragazzi che entrano in una libreria all’aperto nel centro di Ancona, che ora non c’è più. Uno di loro porta uno zaino vuoto sulle spalle, che gli altri due riempiono a mano a mano, vagando tra gli scaffali. C’era Neruda, coi Cento sonetti d’amore; mi chiedo se nello zaino finì anche Kerouac, in compagnia di Hermann Hesse. La memoria vacilla. Ma erano gli anni in cui leggevamo I vagabondi del dharma e Il lupo della steppa. Le prime poesie le scrivemmo imitando Neruda. Ci tengo a questa prima persona plurale. La poesia è molto più di un’attività sociale, siamo d’accordo; ma non è possibile incontrarla se non nel mondo sociale, attraverso condizioni propizie. Nel mio caso a essere propizio fu un amico. Ci scambiavamo le poesie che leggevamo e quelle che scrivevamo. Eravamo uno il lettore dell’altro, nella nostra assoluta solitudine, in mezzo ad un mondo che ai quei gesti – leggere, scrivere – non dava nessun valore, prigionieri di tutte le nostre isole. Un mondo che anzi quei gesti irrideva (e non per conformismo borghese! almeno non nel nostro caso). La poesia, come la filosofia, ha molto a che fare con l’amicizia. Ci vuole almeno un’amica o un amico per intraprendere questo tipo di rapina, per orchestrare il furto di quella dimensione dell’esistenza che per discriminazione sociale è destinata a esserti preclusa.
Mi chiede inoltre qual è il mio rapporto con la scrittura poetica. È una domanda molto difficile, non so bene da che parte prenderla. Vuole dire qual è lo spazio che accordo alla poesia? Purtroppo molto poco, almeno da un punto di vista empirico. Per scrivere bisogna ascoltare, e al mondo d’oggi ascoltare mi pare sempre più difficile. Ho sempre più l’impressione di dover lottare per trovare spazi d’ascolto. Se invece la sua non è una domanda empirica, le direi che la poesia è ovunque. Il modo in cui uno sconosciuto ti porge la tazza di caffè: è possibile che attraverso quel gesto stia già scrivendo. E se di questo gesto un giorno noi finiamo per fare una poesia, vuol dire che abbiamo saputo leggere la sua scrittura. Vuol dire che tutto questo ci appartiene senza essere di nostra proprietà. Il suo gesto, la sua lingua. J’écris en présence de toutes les langues du monde, diceva Édouard Glissant.
Temo di non essere in grado di rispondere all’ultima parte della domanda se la prendo alla lettera, dal momento che non so quando ho imparato a scrivere poesie, ammesso e non concesso che io l’abbia imparato, o che sia qualcosa che in generale si possa imparare. Che dire dunque? Da ragazzo, alle prime prove, sicuramente mi hanno accompagnato Petrarca, Dante, Leopardi; oltre a Neruda, Mallarmé e Lorca. Più tardi, una volta imparato il latino, anche Catullo, di cui conoscevo tutto il liber a memoria. Tutto questo però rimane aneddotico. Forse l’unico modo interessante di rispondere alla sua domanda sarebbe quello di alterarne il tempo verbale per nominare qualche poetessa o poeta che mi accompagna ora nell’apprentissage della scrittura. Ma poi finirei col tralasciare molte e molti se mi arrischiassi a dire qualcosa come Celan, Caproni, Cavalli, Sereni, Anedda; e soprattutto fornirei una risposta troppo italocentrica – Celan pure leggo principalmente in italiano, anche se con un occhio sul tedesco a fronte – quando sempre mi accompagnano voci nella mia lingua altra come quelle di Hélène Cixous e Nicole Brossard, o, più recentemente, Sabine Huynh e Marielle Anselmo.

Un’ultima domanda, che ha che fare con una poesia che mi ha molto interrogato:
«È lieve il mio pianto. Lei
che invece arriva e pretende.
Da nobile o ricca offende
chi nella via non ha canto.»

Chi sono questi «chi», che nella vita non hanno canto? Se pensiamo alla poesia come canto i “senza canto” sono coloro i quali non hanno poesia, ma forse mi sbaglio. Vuole provare a darci qualche suggestione?
Va bene, proviamo. La parola «canto» può significare tanto melodia o poesia, quanto angolo o parte. In questo componimento, almeno per come è arrivato a me, le due voci sono indissociabili. Chi nella via non ha canto è chi non trova luogo, chi luogo non ha perché continuamente offeso, umiliato, ignorato, dimenticato. Donne e uomini che per questo non riescono a cantare. Costoro mi paiono essere, purtroppo, sempre di più.



Selezione di poesie

I nomi l’annuncio che intona.
Batte le dita senza scopo.
«Ancona? Papi, che cos’è Ancona?»
La città che verrà dopo.

Questa gente

So che sei arrivato
dopo un lungo viaggio. E so
che ancora non sai
(nessuno te lo ha detto)
che l’Italia è questa roba
qua, questa gente – figlia
di chi ha ucciso e convinta
d’essere innocente. Ma tu
non fermarti a questo
nesso. Non fare come
chi crede non udire
se stesso nel tuo nome.

Privilegio bianco

Vivo senza più sapere
cosa ho dimenticato.
Ma il mio candore è vivo,
apre porte feroci nella notte.
Un vento infido, una lingua
mai sbocciata. E poi
questo dolore d’altri,
lontananza.

Una volta

In fondo eravamo
fortunati, da noi si vedevano
le case sopra le colline, i fiumi
non ancora in secca. E l’acqua
che nel mare era ancora
calma, come una volta,
gradita, l’altra voce.

Uno di più

Dove vuoi che vada il tassista
alle cinque di notte
sulla grande autoroute?
Per cieli e per tempi
è solo uno di più
nella lista che vaga.

Ritrovare

qualche volto reso, solo, qua e là
il freddo delle righe
un bistrot nell’eleganza diurna
di chi ha perso niente
o avuto niente, qui, più che sostare
dalla vita come forma preziosa
in comodato – assieme a un bigliettino
lasciato sopra il tavolo
da chi solo sa prendere la strada.





In copertina, fotografia di Ancona di Denis Bernovschi