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La compagna Natalia. Intervista a Giulietta Vacis



La compagna Natalia è un romanzo postumo di Antonia Spaliviero, pubblicato da Sellerio nel 2022. È ambientato fra gli anni Sessanta e Settanta a Settimo Torinese, cittadina di provincia che probabilmente non ha mai fatto da sfondo ad altri romanzi.
Giulietta Vacis, figlia dell’autrice, ne ha curato insieme al padre Gabriele Vacis la redazione finale.

La compagna Natalia

Questo romanzo è il risultato di un lavoro di rielaborazione che tu e tuo padre avete condotto su alcuni dei testi tratti dai diari di Antonia Spaliviero, tua madre. Come siete intervenuti sul materiale poi confluito nel romanzo? Attraverso questa esperienza hai avuto modo di scoprire lati nuovi di tua madre, o hai riconosciuto facilmente la sua voce?
Noi non abbiamo fatto quasi nessun lavoro di edizione. La difficoltà maggiore si è presentata all’inizio: è stata una caccia al tesoro.
Quando mia madre è morta, nel 2015, solo mio padre e i loro amici sapevano del suo desiderio di completare questa storia. Negli ultimi mesi di vita, lei si è dedicata a scriverne l’ultima parte e a dare modo a mio padre di poter poi ritrovare tutti i pezzi. Nei quaderni si ritrovano passaggi che rimandano ad altri brani marcati da indicazioni come “Per proseguire vedere 16 maggio 1983.” Lo stile del libro cambia molto mentre si prosegue nella lettura perché si tratta di un lavoro che si è sviluppato nel corso di quarant’anni: la scrittura di un’adolescente evolve in quella di un’adulta.
Alcuni pezzi erano su supporti cartacei, altri su vecchi computer, o floppy disk, o scritti in stenografia. Questi ultimi in particolare sono stati scritti quando era adolescente e viveva con i suoi genitori. Aveva scelto la stenografia perché loro non potessero capirli, e nemmeno mio padre, quando se li è trovati in mano, sapeva come leggerli: ha rintracciato una vecchia compagna di scuola di mia madre che potesse aiutarlo a tradurli.
Io sono subentrata dopo, per fare un lavoro di editing che è stato in realtà un lavoro di raccordo.
Ero l’unica ad avere dubbi sulla prima parte, caratterizzata da un linguaggio adolescenziale di quaranta cinquant’anni fa che temevo potesse allontanare dalla lettura. Abbiamo poi deciso di non adattarlo ad una versione contemporanea, e alla gente piace, abbiamo moltissimo ritorno. Ora che posso tenere in mano il libro, mi rendo conto che quel linguaggio è parte dell’identità e della crescita di mia madre.
Non avevo mai avuto modo di leggere i diari prima, non erano per me. Quando poi lei è morta, ho rifiutato di prenderli in mano per anni, perché la sua morte è avvenuta proprio nel momento in cui, da figlia, accetti che tua madre è anche una persona e non solo tua madre. I diari mi offrivano un’opportunità di recuperare, ma mi spaventavano. Poi ho deciso di affrontare il trauma e lavorare al libro si è rivelato terapeutico.
Dal romanzo sto scoprendo molto, anche grazie alle osservazioni dei lettori che colgono quel lato del carattere di mia madre estremamente ironico e gioioso. Ciò che non si percepisce è invece un aspetto del suo rapporto con la scrittura: scriveva soprattutto quando stava male, era la sua terapia, e credo che sia anche per questo che il libro è uscito postumo.
La compagna Natalia però non è un diario, è un romanzo. Li chiamiamo diari semplicemente perché una volta non si scriveva su computer, altrimenti sarebbero stati dei file.
È un romanzo scritto con l’intento di essere tale, tirato fuori da questi “diari”.

Perché, se la protagonista è Antonia, il romanzo porta il nome di Natalia? Ed è una mia suggestione o c’è un certo rimando fra i nomi? Sono allitteranti, ma l’accento di Natalia individua uno iato a contrasto con il dittongo finale di Antonia. Mi sono chiesta se questa caratteristica non potrebbe essere indizio della natura così diversa di queste due donne: il nome di Antonia ha un suono tondo, avvolgente, e la donna che lo porta è circondata di relazioni per tutta la sua vita; Natalia invece fatica a svelarsi e tende a isolarsi.
Questa è una di quelle cose che non noti se guardi troppo da vicino. Ho dato per scontato che mia madre avesse scelto quel nome per la Ginzburg, ma effettivamente Antonia e Natalia… È una bellissima interpretazione, un altro pezzo che mi arriva dai lettori. Sono loro, ad esempio, che mi hanno spinta a pensare a Natalia come alter ego di Antonia. Per me non era stato istintivo, Natalia l’ho immaginata come una combinazione di più persone della sua vita. Sono stata probabilmente condizionata da ciò che mia madre mi ha raccontato di sé, fra cui qualcosa su questa sua amica che era così diversa da lei, e per la quale ha avuto una sorta di infatuazione. Non ho mai fatto questo collegamento di alter ego e sonorità a cui mi riporti, ma è assolutamente un sì.
Secondo me, poi, Antonia è riuscita ad assomigliare a Natalia, anche se mai dal punto di vista ideologico: le assomiglia come polso, ed io ancora più di lei. Natalia è un suo alter ego ed è anche ciò che sapeva di non voler essere.

Mi sembra che si stia sedimentando una nuova modalità di raccontare l’amicizia femminile, mediante la descrizione di una relazione gerarchica: c’è sempre un disequilibrio iniziale, fra una personalità trascinante e un’altra che sembra farsi trascinare, poi le polarità si rimescolano. Come hai detto tu, Antonia finisce per assomigliare a Natalia. E Natalia, secondo me, è simile a Lila de L’amica geniale: entrambe vivono secondo le proprie regole, scegliendo poi, in modi diversi, di sparire.
Credi stia diventando questo il paradigma che differenzia il racconto dell’amicizia femminile da quello dell’amicizia maschile?

È bello ricevere questa domanda perché vuol dire che la nostra generazione sa notare questo aspetto. Non so se condivido precisamente l’idea di sistema gerarchico, ma qualcosa c’è, e riguarda un sistema di attrazioni e spinte negli incontri femminili: è proprio questa la scoperta della narrazione cosiddetta “femminile”, termine che non mi piace assolutamente usare. Dovrebbe essere semplicemente una parte della narrazione umana, ma finora abbiamo assimilato unicamente quella maschile.
La domanda che di solito mi rivolgono riguarda la classificazione della Compagna Natalia come romanzo di formazione: per me è naturale che lo sia. Perdiamo il timore di dire quali opere scritte finalmente da donne rientrano nelle strutture del romanzo di formazione, e ampliamone il canone. Non ci ha mai incluse: è sempre stato pensato per giovani ragazzi bianchi benestanti, categoria alla quale la maggioranza della popolazione umana anelava di appartenere. Ma io posso leggere Il giovane Holden o Werther e non riuscire a identificarmi con la realtà di queste persone bianche, ricche, viziate e lontane da qualsiasi tipo di problema sociale o fisico.
Raccontata da noi, la storia delle dinamiche fra donne non è quella di una rivalità innata, come l’hanno interpretata gli uomini, ma diventa piuttosto quella di una costante ricerca di equilibrio e sostegno: quando io sono più debole mi supporti tu e, quando hai bisogno tu, ci sono io. È un aspetto che esiste e che può diventare lessico, educazione e normalità.
Una stanza tutta per sé non è ancora invecchiato perché ancora oggi sono molte le donne che non riescono a procurarsi gli strumenti necessari per sfondare il soffitto di cristallo. Serve la rappresentazione, serve che io ti dica che esiste qualcuno come te anche nel corpo. Serve costruire un lessico comprensivo, così che tu poi ad esempio leggi L’amica geniale e pensi sì, funziono così.
Se fossero stati La giovane Holden o I dolori della giovane Werther, mia madre probabilmente avrebbe pubblicato questo libro in vita. Quante Shakespeare donna abbiamo perso… La differenza è che gli uomini non si chiedono quanto possa essere interessante quello che dicono o scrivono per i maschi: questo dubbio pesa e limita come uno zaino di 180 chili sulle spalle.
Quindi chiamiamoli romanzi di formazione e iniziamo a notare i pattern.

Se si pensa al panorama letterario italiano, si fatica a trovare altri esempi di una narrazione femminile in prima persona caratterizzata da un tono così ironico. Quando penso all’ironia e alle donne, mi risuona sempre in mente quella citazione di Atwood che dice che la peggiore paura di un uomo è che una donna rida di lui, mentre quella di una donna è che un uomo la uccida. Nel romanzo, c’è un passaggio che ha a che fare con la questione: Antonia si rende conto che la sua disinvoltura intimorisce il suo ragazzo, e questa sensazione le piace.
C’è un legame fra la capacità di fare ridere e quella di fare paura, in un’ottica patriarcale?

Indubbiamente. Pensa alle tue amiche: sicuramente sono quelle più intraprendenti ad avere più difficoltà a relazionarsi intimamente con l’universo maschile. Soprattutto in questo momento, l’ironia è uno strumento ambiguo per entrambi gli universi, quello maschile e quello femminile. Ne parlo anche sul mio blog (www.levostreeroine.com) e nei laboratori sulle pari opportunità che organizzo per le scuole. Tutte le ragazze che incontro mi raccontano di quanto percepiscano il dovere di essere composte: in questo senso, l’ironia diventa uno strumento di rivendicazione e sfogo. È un processo che ho vissuto anche sulla mia persona: dalle medie al liceo, io mi vergognavo di essere una femmina. Era un problema perché mi limitava nel linguaggio, nel comportamento e nella semantica. Nell’emisfero maschile, invece, il problema attuale è che “non si può più dire niente”. Fra questi due livelli sussiste un grandissimo scompenso che non si può colmare senza l’iniziale enorme difficoltà che stiamo vivendo ora. Con le classi con cui lavoro, la prima reazione è “Non c’è nessuna differenza fra femmine e maschi”. Ma poi basta un piccolissimo input e i maschi all’improvviso vengono investiti dalla prospettiva delle loro compagne, che accolgono e di cui sentono una certa responsabilità.
La nostra generazione porta invece il peso della misoginia interiorizzata, un altro dei fattori che hanno portato alla mancata pubblicazione del romanzo di mia madre in vita: qualcuno sicuramente l’ha già scritto, o l’ha scritto meglio, ed è sicuramente un maschio. Così si lascia e si delega sempre.

Alla fine del romanzo, Antonia si trova nella posizione di dover difendere Natalia. La vita della sua amica viene sconvolta contro la sua volontà, ma i due uomini con cui ne discute non riescono a identificarla completamente come vittima della situazione: replicano che, tutto considerato, Natalia avrebbe dovuto saper gestire meglio le circostanze. Antonia commenta: “Dovettero passare molti anni perché capissi che le ragioni di Natalia erano accessibili solo alle donne”. Era così allora, sarà così ancora per molto tempo?
Era così allora e il lavoro della loro generazione è stato rendersene conto; quello della nostra è creare il lessico perché non sia più così. Io ho molta fiducia in questo, non so se lo vedremo ma credo che accadrà.



In copertina ragazze del Sessantotto da benecomune.net

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