Comma 22

Kafka, i confini e i diari delle letture. Intervista a Gennaro Serio



Scrittore di origine napoletana, Gennaro Serio è tornato in libreria con il suo secondo romanzo, Ludmilla e il corvo, in cui si avvicendano un manoscritto perduto, una bambola, Coimbra e lo scrittore Franz Kafka. Scritto con una scrittura luminosa e ricercata, attraverso la quale ha abituato i suoi lettori a uscire dai confini della pagina scritta, e con ironia e umorismo, Ludmilla e il corvo finisce per essere un viaggio a metà strada tra la fiaba e uno scambio continuo tra realtà e finzione, «una festa della finzione che celebra il potere immaginifico della letteratura». L’intervista con Gennaro Serio inizia prendendo spunto dalla sua ultima pubblicazione edita dalla casa editrice L’Orma, un punto di partenza per conoscere meglio il suo autore.

Inizio subito con il chiederti, riferendomi al tuo ultimo romanzo, Ludmilla e il corvo, il motivo per il quale hai scelto il personaggio di Franz Kafka, hai un legame particolare con questo autore?
Kafka diventa una incarnazione della letteratura in se stesso. Lui scrive in una lettera alla fidanzata: «Io sono letteratura», e nella stessa lettera dice: «Posso vedere volare sopra di me il mio corvo segreto», che è poi è diventato l’emblema del mio libro. Questo suo incarnare la letteratura si riverbera in tanti episodi della sua vita e quello da cui sono partito per il romanzo è un episodio estremamente letterario, perchè è un episodio inverosimile che ci dice qualcosa dell’autore. L’episodio è quello del parco di Berlino, è un episodio a cui non si può credere, Dora lo racconta a tutti e i critici lo devono prendere sul serio, vanno a Berlino a cercare il manoscritto, impazziscono per trovare questa bambola o questa bambina. Questo episodio è palesemente letteratura, è falso, ma quando riguarda Kafka ci vuoi credere, come accade in quelle conversazioni tra Kafka e Gustav Janouch, ma quelle conversazioni sono contraffatte, non è Kafka che parla, evidentemente è un’impostura e lo hanno detto tanti critici in un secondo tempo. Eppure non riusciamo a non prendere un po’ sul serio tutte quelle contraffazioni che sono dentro la biografia di questo scrittore. Quando ho pensato a questo, mettere finzioni dentro finzioni, che poi è la vita di Kafka, quando ho pensato di proseguire questo aneddoto della bambola di Berlino, mi è sembrato naturale tenere insieme diversi aspetti della vita di questo scrittore, così tanto letto e tanto frainteso. Il suo essere scopertamente letteratura è diventata una scusa per prenderlo troppo alla lettera, per prenderlo in maniera troppo allegorica, prenderlo come dice Adorno come ufficio informazioni sull’umanità, come filosofo esistenzialista oppure come profeta dell’ebraismo. È  un altro aspetto interessante di Kafka: essere uno scrittore frainteso, fraintendere è molto fertile nella comunità dei lettori e quindi poi degli scrittori, leggere male è sempre stato un valore e non un disvalore.

Gennaro Serio

A proposito di leggere male, in un’intervista hai detto: «Se c’è una cosa che mi procura un piacere persino maggiore, anche se più sottile, più volatile, più elusivo, è leggere le opere brutte dei grandi scrittori», ce lo spieghi?
Alle volte ci sono libri che non sono di per sé bellissimi, tutti i grandi libri sono libri difettosi, imperfetti e trasandati, grandissimi capolavori della letteratura sono così, pensiamo a Cervantes, alla prosa con cui comincia la storia del romanzo moderno, potrebbe valere per Dostoevskij, persino per Stendhal. Ciò che trovo bello dei passi non riusciti degli scrittori è l’impressione di entrare nell’officina personale di un grande. Mi affascina e mi fa sentire di trovarmi in un momento da non perdere, penetrare nei punti delicati, non molto visitati, di quell’officina letteraria è una sensazione che mi provoca grande gioia e in comunione con questi grandi scrittori. Per Einaudi è uscita una raccolta di racconti di Cortázar, intitolata L’altra sponda, non è il grande Cortázar che conosciamo, ma è meraviglioso leggerli, è quasi commovente in certi punti soprattutto alla luce della vorticosa evoluzione che ha avuto dalla prima raccolta di racconti, da Bestiario a Fine del gioco, ad esempio, Il persecutore è un po’ il trampolino che ci porta al Cortázar denso e materico di Rayuela. Allora metti un altro tassello in questo percorso, è molto affascinante, entrare nell’officina osservare il meccanico e capire lo stato di avanzamento in cui era in quel momento il grande scrittore, è una cosa molto emozionante.

Nei tuoi libri, guidi i personaggi attraverso un confine tra dimensioni diverse, non sempre così percepibile, alle volte sono i due volti di una stessa realtà. Che significato attribuiresti alla parola confine, pensando ai tuoi libri e alla tua scrittura? È un confine che cerchi di oltrepassare oppure uno spazio dentro al quale vorresti rimanere?
Potremmo fare della facile retorica sui confini da abbattere e oltrepassare. Sui confini è bello anche giocare, i confini sono un limite e sono anche la possibilità che quel limite accresca dentro di noi la possibilità di concepire una geografia più ampia. Gli scrittori giocano nel margine sovrapponendo mondi e cose che non sarebbero apparentabili di primo acchito, potrebbe emergere qualche bordo che non combacia e potrebbe far emergere anche l’idiozia del concetto di confine, ma anche immaginare l’idea che niente è dato, niente è già stato disegnato, tutto è lì perché arriviamo noi a disegnarlo. Si scrive da un confine. Da un margine. La posizione privilegiata di uno scrittore è guardare e guardarsi da un margine, da un margine di se stesso, del proprio tempo, dal linguaggio prevalente nel proprio tempo. Il concetto di margine ha un senso anche positivo da reinventare.

L’esperimento linguistico rappresenta ciò che stavi dicendo, questo libro e quello precedente hanno una forte dose di ironia, qual è il sentimento che ti guida durante la scrittura?
Mi piace giocare con i linguaggi, con la lingua e con le lingue, scrivo interpretando la scrittura come un gioco, gioco anche nel senso del cacciavite che fa gioco per smuovere una vite che si è bloccata. Le parole si attaccano alle cose in modo illegittimo, bisogna fare un po’ di gioco per smuoverle, l’idea di un linguaggio che non ci è dato, ma dobbiamo ancora reinventare è ciò che mi guida mentre scrivo i miei romanzi. Diffido delle buone storie, tendo a pensare che quando una storia ci porta da A a B in modo lineare, stia sottovalutando il lettore, tendo ad avere sfiducia verso queste buone storie e penso che tutti noi lettori siamo un po’ stufi di questo habitat di storytelling a tutti i costi. Sento come lettore, una grande sfiducia nel modo nel quale ci hanno detto di raccontare le buone storie, è arrivato il momento naturale di muovermi a zig zag tra le storie, mi sento più a mio agio. Come lettore mi piace sentirmi intelligente, magari illudendomi, però mi sentirei umiliato a trattare un ipotetico lettore di un mio libro dandogli qualcosa di semplice da leggere, scrivo per lettori che come me vorrebbero sentirsi sfidati piuttosto che accompagnati.

È stata messa in evidenza una frase del tuo libro: «La menzogna doveva dunque essere trasformata in verità attraverso la verità della finzione», una frase che mi ha fatto pensare al concetto di memoria perfezionata di Juan Gabriel Vásquez, scrivere romanzi «è l’arte di trasformare i ricordi reali in ricordi inventati; di rimpiazzare la nostra memoria privata, individuale e circoscritta, attraverso quella maniera di ricordare che è propria della letteratura». Sei d’accordo con questa visione della letteratura?
Eviterei di creare artificiosamente un dualismo tra realtà e finzione. Non esistono i ricordi reali, sono tutti inventati, tutto è inventato. Questa è la premessa con la quale la finzione può invadere e reinventare il mondo. La realtà è fatta di finzioni. Esiste il travisamento. Ma la menzogna è costitutiva di qualsiasi mondo e non è un discorso così filosofico, rarefatto. Tutte le realtà sono una reinvenzione, realtà e finzione non sono compartimenti stagni.

In questo romanzo, dove possiamo trovare Gennaro Serio?
In genere i miei romanzi sono diari delle mie letture, il diario più personale che possono immaginare, però è vero che ho prestato alcune cose ai miei personaggi, per esempio la sindrome di Stendhal, la tremarella da cui è affetto il critico letterario protagonista della prima parte del romanzo, quando entra in contatto con un libro che ama particolarmente, è una mia malattia, mi è capitato di avere dei mancamenti in libreria, durante l’incontro con un libro. Oltre ai luoghi che amo e che spesso finiscono nei miei libri.

…quindi Coimbra?
Coimbra è un luogo bellissimo che ho visitato diverse volte, in generale tutto il Portogallo è un mio posto dell’anima.





Photo credits
Copertina:
Doll’s school di Walter Osborne