Comma 22

Uscire dal silenzio, tenere in mano i pezzi. Intervista a Martina Merletti



Sono tante le vite che scorrono senza che ne rimanga traccia. Quando scompaiono i parenti, quando sbiadiscono le fotografie, qualcosa va perduto. E la Storia passa accanto a molte più persone di quelle che finisce per portare con sè: qui diventa fondamentale la memoria collettiva, il poter testimoniare e passare questa testimonianza. La Storia è fatta anche di piccole persone, e altre piccole persone ne conservano le verità.
Ciò che nel silenzio non tace, primo romanzo di Martina Merletti uscito a febbraio per Einaudi, selezionato dal Premio POP, va a indagare quello che non viene detto, che siano le parole che non escono da una casa o quelle che un intero Paese cerca di ignorare. Sono due i principali piani temporali che si intersecano, portando a dialogare un passato da rielaborare con l’età quasi contemporanea, la fine degli anni ’90, sull’orlo di un nuovo millennio che si deve fare carico di molteplici contraddizioni.

Nel 1944 dal carcere Le Nuove di Torino, il luogo in cui più di tutti il silenzio si fa pietra, un neonato viene fatto uscire da due suore, nascosto in un carrello della biancheria, mentre la madre viene deportata. Cinquant’anni dopo, una vedova in un paese tra le nebbie della pianura padana non elabora un lutto, e una donna, Aila, parte alla ricerca di quel neonato e dell’uomo che potrebbe essere diventato.
Teresa, che ha vissuto la guerra cercando di chiuderla fuori dalle finestre; suor Emma, che ha dedicato la sua vita all’accoglienza, soffocando una vergogna segreta; e Aila stessa, che dopo la morte della madre Elda ha bisogno di sapere: le vite di queste tre donne si incontrano, in una narrazione che si svela pian piano, con una scrittura tenutissima che fa riaffiorare, pagina dopo pagina, il rimosso di una famiglia e di uno Stato.

Martina Merletti ha raccontato a Limina questo suo esordio.

Martina Merletti, Ciò che nel silenzio non tace

Nel ricostruire le fonti del romanzo racconti che è nato tutto da una visita a Le Nuove di Torino. Lì sei venuta in contatto con la storia di suor Giuseppina De Muro, figura quasi sconosciuta che ha lavorato nel braccio femminile. È il primo personaggio che arriva nel tuo romanzo: da qui, come si è ramificata la storia?
Durante quella visita mi aveva colpito prima di tutto il discorso dietro la costruzione del carcere, anche a livello architettonico. Ho iniziato a riflettere su come ciò che accade dentro le mura dialoghi con la società al di fuori: in che rapporto sono i cittadini con quello che è nascosto?
In seguito ho iniziato a costruire dei personaggi che potevano incarnare questo tema e il gesto di suor Giuseppina. La prima è stata Teresa. Mi è venuta un’immagine che mi ha fatto pensare: questo personaggio, in qualche modo, lo devo portare qui. È la scena in cui conta i barattoli di conserva che non hanno tenuto il sottovuoto.
Avevo il nucleo di suor Giuseppina e avevo il nucleo di Teresa, che per me era lontana: si trovava nella pianura padana e non c’entrava direttamente, ma era stata implicata, suo malgrado. Lei è venuta fuori adesa a un gruppo di famigliari, ma servivano anche dei personaggi che facessero da ponte tra il lettore e la vicenda, quelli che la andavano a cercare dove si era nascosta per farla esplodere.
Una volta trovati ho iniziato a documentarmi, potevo quasi fare una monografia di suor Giuseppina: ma mi interessava tessere le lodi di una donna che è passata sotto silenzio o indagare quel silenzio? Il silenzio delle persone che credono che quei fatti non ti riguardino: un muro di cinta è sufficiente per evitare di pensarci.

Il carcere come luogo fisico della rimozione.
Lo è finché rimane tutto dentro, e infatti diventa un problema di qualcuno quando qualcosa esce. Ho scoperto che suor Giuseppina è tornata a morire nel carcere, aveva un’affezione incredibile per questo luogo; eppure è il luogo del rimosso, che inizia a interagire con chi sta fuori quando c’è uno spiraglio, uno sfiato, e questo sfiato è il neonato. Da dove viene questo bambino? Viene da quel posto segregato, e a questo punto si deve iniziare a fare i conti con quella determinata cosa nascosta.

Teresa, che cerca di ritrarsi dalla Storia, è forse il personaggio il cui percorso ci è più famigliare. Come si crea la triangolazione con Elda, legata a un altro silenzio, e soprattutto con Aila, che invece la Storia la va a cercare?
Teresa, Elda e suor Emma rappresentano tre modi diversi di avere a che fare con un evento drammatico vissuto in prima persona, ma proprio l’averlo vissuto in prima persona crea un problema. Genera troppo dolore, vergogna, rabbia. Ognuna di loro ha qualcosa che non riesce a mettere a tacere.
Aila eredita un silenzio senza saperlo. Quando questo si sgretola e lei vede cosa c’è nascosto dietro si mette in moto. Lei ha il compito di spezzare la catena, e porterà non tanto le persone a uscire dal silenzio, ma a garantire loro l’opportunità di farlo.
L’unico che fa un passo ulteriore è Giacomo, il nipote di Teresa: è lui che riesce a mettere insieme tutti questi silenzi per portare avanti qualcosa di diverso. Aila non è ferita a sufficienza da essere una vittima, ma è a sua volta implicata in maniera molto forte, e quando viene investita da queste rivelazioni fa fatica a condividerle. Non riesce a metterle a sistema con la sua vita, la sua identità, e con chi le è vicina, come Giulia, la sua compagna. Giacomo è il solo che riesce a cogliere i frutti delle due generazioni prima di lui, anche grazie al fatto che si siano messe in gioco.

Tra l’altro, noi non siamo quelle che hanno fatto la guerra, e nemmeno le figlie: siamo le nipoti, come Giacomo. Mi riallaccio a quello che dici sul suo ruolo di elaborazione del passato in un’ottica rivolta al futuro: per la nostra generazione cosa significa porsi in relazione a questi eventi?
Con questa distanza diventa più facile gestire un’eredità e non sentirla come una colpa. Un grosso tema è proprio che quella italiana è stata una colpa collettiva fortissima. La Germania non ha potuto evitare il confronto; noi nel dopoguerra eravamo in una zona molto più grigia, né vincitori né perdenti. Abbiamo avuto la Resistenza più importante di Europa, ma anche i fascisti più convinti. La nostra è la prima generazione che può aprire il vaso e guardare con la giusta distanza questa contraddizione.
Io ho raccontato questa storia, ma ad esempio Sangue giusto di Francesca Melandri (Rizzoli) tira fuori uno scheletro ancora più gigantesco e ancora più nascosto: il colonialismo, la guerra in Etiopia, vicende che spiegano anche molto della situazione migratoria attuale e soprattutto del nostro sguardo colonialista. 
Penso che la nostra generazione possa uscire dall’individualismo fortissimo sia politico sia emotivo, quello dei panni sporchi da lavare in famiglia. Dove non possiamo riconoscerci se non con le vittime, gli eroi e i carnefici non rimane spazio per gli altri, i personaggi minori, che spesso, fosse anche per una mera questione statistica, siamo noi. Ora quello che possiamo provare a dire è che c’è spazio per tutte le narrazioni, e tutte le narrazioni hanno dignità di esistere non in un’ottica giustificazionista quanto di rielaborazione, per costruire un futuro che non ricada negli stessi errori.
Queste narrazioni vanno messe a sistema per uscire dal concetto di loculo, con cui non a caso è stato costruito anche il carcere. O ci prendiamo cura dei pezzi in maniera collettiva, o non ne veniamo a capo. Vale per tutto: dalla crisi climatica, alle politiche sociali. È il movimento opposto all’autoritarismo, al populismo. Stare dentro alla complessità e farsene carico non è facilissimo, ma abbiamo gli strumenti per farlo.

La cura è elemento centrale nel romanzo. Suor Emma e suor Giuseppina la veicolano nella loro esperienza religiosa, ma in maniera laica si declina diversamente anche negli altri personaggi: la cura è uno strumento politico?
Di brutto. La cura è lo strumento politico del nostro secolo, e questo concetto ha un qualcosa di rivoluzionario. Quello che mi ha attratto di questa storia è che ci fosse questo senso etico e morale così forte in suor Giuseppina, che lei ha incanalato in una struttura che sa valorizzare quell’aspetto – poi ne valorizza anche altri oppressivi – ma come esaltare quel concetto in una struttura socio-politica ed esistenziale, anche individuale, se non sposi un credo? Nel romanzo l’ho legato a un nucleo famigliare, ma è un modo per guarire un trauma collettivo, e sarebbe interessante lavorare per non renderlo un atto meritevole solo per la stretta cerchia famigliare; è importante allargare la pratica, l’attitudine alla cura al di là della famiglia e dei legami stretti.

Traspare molto forte anche la cura verso l’ambiente. Tu hai un vissuto specifico a riguardo (Martina Merletti è laureata in Scienze e Tecnologie Agrarie, ndr), come questo aspetto ha finito per diventare un sottofilone del romanzo?
Molte cose mentre scrivevo non le avevo messe a fuoco immediatamente. Alcuni personaggi nascono insieme al paesaggio, sono uno lo specchio dell’altro e si co-costruiscono. Ci sono quelli che sono legati alla pianura padana, ai bombardamenti, alla nebbia; ci sono delle scene che non sarebbero le stesse scene se non guardassero lo stesso paesaggio, o viceversa. C’è un riflesso continuo tra il modo e il mondo in cui vivono, l’aspetto esterno dell’abitare e quello che accade dentro.
Da persona laica ho incanalato quello che è il mio aspetto più spirituale nel concetto ecosistemico. Mi sono appassionata alle logiche ecologiche, allo studio delle proprietà emergenti di un sistema naturale: un bosco è più della somma delle parti. Questo inevitabilmente è passato nella scrittura: è una deformazione professionale, quando sai come funzionano certe cose ti viene più voglia di descriverle e, per l’appunto, co-costruiscono.

In fondo c’è una nutrita bibliografia, con le fonti che hai usato per la ricerca storica. Quali sono le fonti “non ufficiali”, quelle che hanno lasciato una loro impronta nella tua scrittura?
A livello stilistico, leggere poesia fa un’enorme differenza. Gualtieri, Ungaretti, Rilke, T.S. Eliot, Dickinson, Szymborska, tutti i surrealisti francesi, spagnoli… ci si trova una precisione emotiva e linguistica che poca altra produzione letteraria riesce ad avere. Gualtieri, Ungaretti e Rilke in tre epoche diverse, con tre stili diversi, hanno un’attenzione incredibile alle emozioni che il mondo naturale rimanda, e su quale sia il nostro posto in questo mondo.
Ci sono alcuni libri fondamentali: A sangue freddo di Capote mi ha fatto capire il potenziale di stare nella realtà mentre si scrive; Ultimo parallelo di Tuena è stato una grande scoperta, Patria di Aramburu… quando ero in crisi mi rileggevo le prime pagine di Delitto e Castigo per sentire il respiro che può avere una frase. Poi Gli anni di Annie Ernaux, e per certi dettagli anche Kent Haruf, soprattutto per le parti del paese, dove dovevo ricostruire queste situazioni lente in cui succede poco.

C’è un coro dietro ogni libro.
È sempre un’opera collettiva, guardando anche il dopo, il lavoro editoriale. È un gesto solitario che poi viene inserito in una rete immensa. Qualcuno mi scrive di aver vissuto quegli anni, e di fare fatica a parlarne. C’è questo aspetto di venire allo scoperto anche emotivamente che sta emergendo dopo la pubblicazione, ed è molto bello.
L’altro giorno ho fatto un intervento in una scuola superiore, e mi hanno chiesto «A cosa serve scrivere?». Al di là dell’aspetto egoistico del portare avanti una storia e metterti al servizio dei personaggi, a che cosa serve? La letteratura forse è un po’ il luogo dove stare nella complessità.
Non è un caso che il personaggio da cui vorrei stare più lontana sia diventato quello più centrale, cioè Teresa. Non vorrei conoscerla così bene, ma so di avere una parte così. Noi siamo in una condizione di privilegio, e ricordarsi che è molto facile cadere nella zona grigia, quella di Teresa, forse a me serve.

Da Rilke viene anche il titolo. Come è arrivato?
Tempo fa, prima di sceglierlo, ho scritto dei bigliettini per salutare gli studenti di un corso. Uno riportava questo verso – era molto importante per me all’inizio dell’università, l’avevo imparato anche in tedesco – ed era per una ragazza che non è venuta all’ultima lezione, quindi è rimasto a me.
In seguito questo verso mi è tornato in mente – ogni personaggio in fondo ha in sé un silenzio che non tace – e l’ho proposto alla mia agente. Qualche settimana dopo cambio il cappotto, ficco le mani in tasca e trovo questo bigliettino che nemmeno ricordavo più di avere, con il nastrino, e la scritta «Ciò che nel silenzio non tace».
Ce l’avevo dentro di me, e ho finito per scrivere un romanzo dove questo verso è centrale pur essendomi dimenticata del verso stesso. Mi è venuto in soccorso alla fine. 




(C) Museo Carcere Le Nuove