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Memoria e ferocia. Il sari verde di Ananda Devi

Una storia di violenza raccontata dal punto di vista del carnefice. L’ira può essere ereditaria?

Dimenticare è solo un’altra forma del ricordare. Una forma violenta. Una forma per rimuovere la brutalità. Generandone di nuova. 

Un uomo che muore, la sua voce impregnata di rabbia, rancore, un monologo interiore che scava nelle pieghe della violenza domestica e dell’oppressione patriarcale, tanto incontenibile da straripare nella vocalizzazione, in frasi da non dover essere pronunciate mai, da non essere, soprattutto, pronunciate alle stesse vittime – o, ora, ai carnefici? Il sari verde (Utopia Editore, 2025) di Ananda Devi è un romanzo che non fa sconti, che non offre vie di fuga, che ci costringe a guardare il male dritto negli occhi. Soprattutto, ad ascoltarlo. In una spirale di nodi inestricabili di memoria e ferocia.

Il titolo è richiamo di un potente simbolismo che attraversa l’intero romanzo: il sari, appunto, indumento tradizionale femminile, rappresenta l’identità, la cultura e il ruolo imposto alle donne – di questo romanzo, tutte? – all’interno della società patriarcale. Il verde, invece, è un colore ambiguo che evoca speranza, ma anche la decomposizione, la malattia, il veleno con cui ogni pensiero, ogni parola, ogni pagina ci intossicano. Nel contesto del romanzo, il sari verde diventa il segno di una promessa tradita, di un legame familiare avvelenato dalla ferocia e dalla manipolazione: per il protagonista, è l’immagine della moglie sottomessa eppure ribelle, della bellezza che lo ha sedotto e poi umiliato, della femminilità che non è mai riuscito a controllare del tutto, ma è anche il fantasma che lo perseguita, l’eco di un passato che non riesce a dominare, il simbolo di ciò che è sfuggito al suo potere e che, esattamente ora, su un letto di morte, sta invertendo ruoli da sempre e implacabilmente stabiliti.

Ma il protagonista non può morire: c’è ancora un sentimento che lo tiene in vita, lui come tutti i personaggi: è la rabbia. Una rabbia che divora, che si incancrenisce, che si trasforma in ossessione. Il protagonista si nutre di rancore e disprezzo, incapace di accettare il proprio fallimento e la propria decadenza («Non sono più un uomo. Mi decompongo e la mia mente è viva, l’ultima cospirazione del corpo contro se stesso»). Il suo odio lo mantiene aggrappato alla vita, lo spinge a tormentare Kitty e sua figlia Malika fino all’ultimo respiro, perché, senza la violenza, egli non è nulla. Ma anche le stesse Kitty e Malika sono mosse dalla rabbia, nessuno è immune, come un’implacabile malattia ereditaria: Kitty soffocata dal bisogno di essere amata dal padre e Malika determinata a spezzare il ciclo di sopraffazione. Nessuno di loro è libero: la rabbia, che potrebbe essere motore di cambiamento, diventa una trappola e nessuno sfugge al peso del passato, nessuno riesce a smettere di combattere contro i fantasmi della propria storia. Devi ci mostra come l’ira possa essere un’eredità, un veleno che si trasmette di generazione in generazione, rendendo impossibile qualsiasi riconciliazione, trasformando le vittime in carnefici e i carnefici in vittime e facendoci dubitare di saper più distinguere tra il significato di essere l’una o l’altra entità.

La violenza, ne Il sari verde, non è mai evento isolato, ma un ciclo che si ripete inesorabile, un sistema che si autoalimenta. Il protagonista giustifica i propri atti di brutalità, li razionalizza, eppure il rimorso affiora, seppur sterile e privo di conseguenze:

«Il dispiacere, oh, quello è sincero! Poi, però, non cambia niente: gli errori si riproducono, si ripetono e finiscono per erodere ogni tentativo di moderazione. Quell’atto di violenza così difficile (per chi lo commette, per chi lo riceve) non porta a niente. Il rimorso espresso ne diluisce il significato, lo annulla e lo contraddice. Naturalmente, dopo».

L’autrice ci mostra come il pentimento sia spesso solo una pausa prima della prossima aggressione, un fragile tentativo di compensare il male già fatto, destinato a svanire nel nulla. Il protagonista non si redime mai davvero, perché questo è ciò che lo definisce, ciò che gli ha permesso di imporsi sugli altri. Il dolore inflitto diventa routine, privo di senso e di effetti reali, una spirale che si ripete e che corrode ogni possibilità di cambiamento.

Ananda Devi compie una scelta, quella di raccontare la storia dal punto di vista dell’aguzzino, un uomo violento, misogino, arrogante, convinto di avere sempre avuto il controllo e il diritto di esercitarlo. Il lettore è costretto a entrare nella mente del protagonista senza alcun filtro, a osservare il mondo attraverso la sua distorta visione della realtà. Questa prospettiva ricorda altre figure, come quella di Humbert Humbert in Lolita (Mondadori, 1959) dove Vladimir Nabokov manipola il lettore con la sua voce suadente, giustificando le proprie azioni, ma anche quella di Patrick Bateman in American Psycho (Bompiani, 1991) di Bret Easton Ellis, immergendoci in una realtà di violenza e sadismo che egli stesso razionalizza. Il romanzo di Ananda Devi si propone di scandagliare il tema della violenza sociale e familiare assommandosi a opere come Pastorale americana (Einaudi, 1998) di Philip Roth, dove il crollo del sogno americano si manifesta attraverso il conflitto tra padre e figlia, ma anche al Il dio delle piccole cose (Guanda, 1997) di Arundhati Roy, che esplora il peso delle tradizioni e della famiglia segna irrimediabilmente i protagonisti. Pensando al versante italiano, percepisco echi de La lunga vita di Marianna Ucrìa (Rizzoli, 1990) dove Dacia Maraini racconta il percorso di una donna costretta a sopportare le imposizioni del patriarcato, un destino simile a quello delle donne di Devi.

Eppure, nella conclusione del romanzo, emergono domande che mettono in discussione tutto:

«Dove si colloca il centro della sua umanità? Dove si trova il cuore della sua cattiveria? Da dove comincia il perdono? Dove finisce l’individuo? È davvero lui, questo qui, o è qualcos’altro? A cosa è servito?»

Ananda Devi ci lascia sospesi in questo interrogativo: il carnefice è solo un uomo o è il prodotto di una società che alimenta il dominio e la violenza? La sua cattiveria è innata o è il risultato di un sistema che perpetua l’oppressione? E, soprattutto, c’è spazio per il perdono? L’autrice non offre risposte, ma lascia aperto un vuoto che il lettore è chiamato a riempire.

Foto di Lewis J Goetz su Unsplash

Lo stile di Devi è chirurgico, essenziale e al contempo viscerale. Le frasi taglienti, i pensieri ossessivi, le immagini crude costruiscono un’opera che è al contempo una confessione e un atto d’accusa. Il sari verde non si limita a raccontare una storia familiare, ma ci immerge in una dimensione in cui la violenza stessa, tossica eredità, diventa linguaggio spietato e incalzante. «La violenza è un dono», afferma il protagonista, sancendo la propria visione del mondo, in cui il dominio sugli altri è l’unica misura del potere, tanto da trasformare l’opera in un incubo claustrofobico, in cui i legami di sangue si trasformano in catene, in cui l’amore è solo una maschera per il controllo. «Non ti ho detto di non piangere per niente?»: il linguaggio del protagonista è una continua forma di abuso, un’arma di dominio, ma la sua percezione del mondo ne risulta irrimediabilmente distorta a causa di odio e disprezzo («A volte avevo l’impressione di camminare su un tappeto di fiori velenosi»). L’autrice non cerca mai di attenuare la realtà, bensì la esaspera in tutta la sua brutalità. La sua, infatti, non è un’opera che si possa leggere con leggerezza. Ogni capitolo è un passo più a fondo nell’oscurità, eppure, in questa crudeltà insopportabile, c’è una verità che non possiamo ignorare: la violenza uccide, nel corpo e nella psiche, nella memoria e nel presente: da qui il suo rifiuto di edulcorare la verità, la sua volontà di porci di fronte a una mostruosità che troppo spesso scegliamo di non vedere.

Il sari verde è un libro necessario. Perché se «La violenza è un dono perché azzera. Dopo la violenza resta il silenzio, quello di chi non chiede più niente» è nostro dovere non lasciare spazio al silenzio. Non dimenticare.

In copertina: Ravi Sharma per Unsplash

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