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Comma 22

Il corpo ricorda ciò che la mente dimentica. Il memoir di Lacy M. Johnson



Da un lato c’è una donna, che ha subìto violenza carnale ripetutamente, che è stata perseguitata, rapita, sequestrata e stuprata, che è scappata e che, anni dopo, ha pubblicato un libro che racconta l’accaduto. Dall’altra c’è un lettore qualunque, che sta per leggere questa storia-testimonianza. Non hanno nulla in comune (forse), e ad accorciare le distanze c’è probabilmente una certa predisposizione del secondo ad accogliere racconti come questo. A legarli, però, un patto di verità. Il lettore penserà: Ciò che ho fra le mani è il resoconto di qualcosa di reale, non è frutto di nessuna immaginazione. Accetta allora di iniziare, pungolato da un’esigenza di appropriarsi di qualcosa che non è suo.

Si addentra, così, in una zona d’ombra: lo accompagna, da un lato, la volontà di riservare alla storia il massimo rispetto che essa merita; dall’altro, il desiderio di non compromettere l’esperienza di lettura solo perché quanto leggerà è realmente accaduto. I medesimi dubbi hanno preceduto, per me, l’inizio di Il corpo ricorda, memoir della scrittrice, docente e attivista Lacy M. Johnson (NN editore, traduzione di Isabella Zani).

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I dubbi si sono, però, scontrati con una nuova consapevolezza: il libro non richiedeva, a me che lo stavo leggendo per la prima volta, alcuna partecipazione, né tantomeno nessun mettersi nei panni di. Tutto ciò che poteva essere non detto e lasciato come un sospeso del racconto – affidato in qualche maniera a me che lo stavo leggendo –, recriminava (e trovava) in quelle pagine uno spazio tutto suo; ogni dettaglio, precedente o successivo a quella indimenticabile giornata del 5 luglio del 2000, era già lì, nero su bianco. L’autrice non stava concedendo occasioni di reinterpretare i fatti: la sua interpretazione, la sua rielaborazione del trauma sarebbe stata sufficiente per tutti, per lei e per me. Allora Johnson si è impadronita di uno degli strumenti del mestiere della polizia: i verbali. Dalle informazioni raccolte dall’Investigatore – non sarà l’unico, nel libro, a non possedere un nome proprio – ai fini dell’indagine, ai reperti, alle testimonianze, ogni elemento viene ripescato dalla memoria e riportato nella stessa maniera telegrafica e inespressiva. Frammenti di pensiero e di resoconto si alternano, spaziando confusamente negli anni, dalla prima giovinezza al momento in cui ha incontrato quell’uomo – l’Uomo Con Cui Vivo –, a quando anni dopo è andata in terapia o si è sposata con il Primo Marito, a quando era una bambina.

In questo iato che si crea tra l’algido stile in cui è calata la vicenda e il significato psicologico che essa riveste per la donna che l’ha vissuta, avviene il primo ancoraggio del lettore al libro. Non l’ha guidato la commozione, né il compatimento, né la pietà, ma il totale senso di aderenza alla realtà. La testimonianza nuda e cruda fa emergere in maniera automatica lo strazio di un sopruso che non può essere dimenticato e che viene sugellato, come forma massima di accettazione dell’evento, attraverso la scrittura. Il corpo ricorda prende consistenza, e lo fa attraverso la memoria corporale, la più fedele di tutte.

«È strano, penso ora, il modo in cui se pure la mente dimentica, il corpo ricorda. Il modo in cui il corpo ricorda slegato dalla mente: il modo di stare-accanto o giacere-sotto o sedere-sopra o rialzarsi-da. Il corpo ricorda le preposizioni: la propria posizione in rapporto ad altri corpi. Le spalle sollevate, la voce abbassata. Il modo in cui ogni muscolo, lingua compresa, può irrigidirsi. O rabbrividire. Il modo in cui dopo che l’altro è scomparso, il corpo prosegue: accanto, sotto, sopra, da. L’ombra, il fantasma, la traccia. Habitus: seconda natura, una memoria tanto profonda che il corpo ricorderà sempre.»

Se l’unico modo di ricordare possibile è quello che mente e corpo concedono alla memoria, Johnson non risparmia nemmeno il dopo, quello di cui forse è ancora più difficile parlare: giorni, mesi, anni dopo quell’evento, l’ossessione di essere intrappolata ancora in una stanza insonorizzata, picchiata, stuprata e (quasi) uccisa persiste. Tenere in mano i pezzi, andare avanti con la propria vita non tiene fuori quel senso di vuoto perenne e di incompiuto, come un ciclo che non fosse ancora compiuto. Eppure è proprio qui, nell’apice del dramma del quotidiano, che il memoir risulta tanto più riuscito.

«Dopo tutti questi anni, io sono ancora viva e morta contemporaneamente in qualunque stanza tranne questa.»

Johnson porta a compimento un atto iniziatico, in cui non è contemplata l’assoluzione della vittima e tantomeno del carnefice: la letteratura non può fare altro che sugellare quello stato intermedio tra vita e morte che marchia la carne di ogni sopravvissuto.


In copertina, scatto di Nate Neelson su Unsplash