Comma 22

Il capitalismo degli influencer, dalla lotta di classe alla class action



Sarebbe un errore scambiare il nuovo libro di Paolo Landi – che si concentra sui nuovi protagonisti dell’era Internet e intitola il suo primo capitolo “Il comunismo distopico di Chiara Ferragni” – per un instant book. Si tratta invece di una benvenuta, a lungo meditata per quanto elegante e leggibilissima analisi indirizzata a chi ami riflettere sulla società e i suoi cambiamenti, al di là delle frasi fatte e degli stereotipi con cui si affrontano e sono stati affrontati anche i recenti fatti di cronaca riguardanti influencer, imprese industriali e non, relazioni tra benefattori e consumatori, guardiani della “verità” e delle tante lusinghe della rete.
«Ci voleva Chiara Ferragni – esordisce Landi in La dittatura degli algoritmi. Dalla lotta di classe alla class action (KrillBooks) – a fornire gli argomenti per aggiornare, centocinquanta anni dopo, l’analisi teorica di Marx». Quel Marx che in Salario, prezzo, profitto (1865) preconizzava l’abolizione del lavoro salariato e dunque la piena emancipazione dei lavoratori. È qui il nucleo concettuale di un libro tanto cristallino nella scrittura quanto denso di sfide interpretative riguardanti l’economia, la produzione, il lavoro, la vita sociale, le categorie culturali che ogni giorno, più o meno consapevolmente, mettiamo in atto per capire, interagire, interpretare il mondo che ci circonda.

Il nuovo capitalismo digitale – argomenta Landi – sta subentrando «in maniera indolore, anzi decisamente glamour», alle tradizionali economie di produzione. Sovverte equilibri secolari, consolidati almeno dalla rivoluzione industriale inglese della seconda metà del Settecento e della sua ricezione transoceanica e poi globale tra Otto e Novecento. Il capitalismo, che siamo abituati a considerare un monolite, si dimostra così – come è sempre stato – un camaleonte. Sappiamo che assume tratti sempre nuovi e dirompenti, spesso rispondendo alle trasformazioni tecnologiche; ma nonostante ciò assistiamo a una penuria di riflessioni originali su come quei cambiamenti siano stati orientati dalle trasformazioni della Rete e dai nuovi lavori che essa ha creato o favorito. Lo stesso dibattito sullo smart working sembra per ora polarizzarsi tra pessimisti (il lavoro a distanza come nuova alienazione, esasperazione dei divari di genere, esproprio dei diritti dei lavoratori) e ottimisti (smart working come nuova possibilità di vita e di auto-realizzazione), latitando una proposta sintetica convincente. È quindi più che benvenuto uno slancio interpretativo generalizzante come quello proposto in questo libro da Paolo Landi, grande esperto di comunicazione che vanta decenni di attività nel mondo dell’impresa, con una significativa esperienza in Benetton Group.

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Produzione, lavoro, consumi e, dunque, Ferragni. Ripensare il capitalismo oggi significa, argomenta La dittatura degli algoritmi, comprendere come l’influencer sia in grado di orientare i mercati ponendo le basi per relazionarsi in modo rivoluzionario con sé stessi, con la sua – la nostra – stessa forza lavoro, il suo e il nostro tempo, le sue e le nostre relazioni sociali. «Nell’epoca in cui la qualità della vita diventa passione di massa – osserva Landi – Ferragni è l’epitome del superamento del capitalismo dei consumi, rappresentandone tuttavia la massima espressione, in direzione della fine del lavoro tradizionalmente inteso, nell’affermazione di un iper-liberismo che mischia occupazione e tempo libero, e ridefinendo anche il concetto di plusvalore». Questo perché la parte del prodotto del lavoro che l’imprenditore trattiene per sé, una volta remunerato il lavoro, e che nel paradigma marxista costituisce la base dell’accumulazione capitalistica e del profitto, «la Ferragni la ingloba totalmente».
L’influencer di successo, allo stesso tempo imprenditore e operaio, lavora nel tempo libero: lavora sempre senza lavorare mai. Diventa esso stesso, o essa stessa, merce, nel momento in cui eleva il valore di sé come persona. Disarticola e impone il ripensamento di una lunga tradizione interpretativa dei rapporti di classe e di lavoro: quella che iniziò a stabilirsi a metà Ottocento negli ambienti del socialismo utopistico e che coniò il termine “capitalismo” per indicare un sistema economico nel quale i lavoratori erano esclusi dalla proprietà del capitale e trovavano in quella stessa esclusione una prospettiva di vita e di lotta. Un intero sistema di relazioni sociali e di organizzazione del processo produttivo basato sullo sfruttamento della forza-lavoro salariata – la quintessenza, appunto, del capitalismo tradizionalmente inteso – che viene invece rideterminato dall’influencer. Il “modo di produzione” capitalistico per una sua dinamica interna (impoverimento dei salariati, accumulazione di capitale senza crescita corrispondente di consumi e quindi crisi di sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio di profitto) avrebbe, secondo Marx stesso, condotto il crescente conflitto di classe tra capitalisti e salariati, fino alla sua dissoluzione nel comunismo. Ma alla fine è andata, come sappiamo bene, in tutt’altro modo.

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Max Weber

Il capitalismo degli influencer può, forse, essere meglio descritto all’interno di quella tradizione di pensiero non marxista che vide Max Weber, nei primi anni del Novecento, indicare la peculiarità del capitalismo stesso nel raggiungimento, squisitamente occidentale, della capacità del calcolo razionale del profitto. “Razionale” dal momento che stabilisce quella che a noi oggi sembra una “naturale” tendenza umana: consistente nell’organizzare e comprendere il mondo strutturandolo in una specifica forma mentis. È quella mentalità, razionalmente orientata al profitto, a costituire secondo Weber la base della nuova epoca economica capitalistica; una mentalità la cui radice, come ben noto, il sociologo tedesco identificava nella nuova etica nata da correnti religiose protestanti (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904). Ma si potrebbe oggi ancora utilmente ricorrere all’opera dell’austriaco, poi trapiantato a Harvard, Joseph Schumpeter, che fu il primo a distinguere il capitalismo concorrenziale degli imprenditori sorti con la prima industrializzazione dal capitalismo trustificato, caratterizzato dalla trasformazione delle imprese in anonime società per azioni. Fornendoci così una chiave preziosa per comprendere come i gruppi che con il Novecento iniziarono a dominare il capitalismo tendessero ad evolversi (come scrisse Schumpeter in Capitalismo, socialismo, democrazia, testo profetico pubblicato nel 1942) verso un’economia di comando e pianificazione centralizzata.

Intrecciando abilmente analisi dell’imprenditorialità e scuola di Francoforte, dichiarando apertamente il suo affetto per le sottili analisi politiche e industriali della comunicazione di Theodor Adorno e Max Horkheimer, il discorso di Landi si concentra quindi sulla pervasività della nuova razionalità economica, per evidenziare le contraddizioni in cui tutti siamo avviluppati. Se il lavoro dell’influencer coincide con la sua vita – non vive nessuna alienazione, ma trae profitto dal regalo della propria quotidianità alla massa dei consumatori –, la vera merce che lui o lei vendono è il proprio gusto, la propria stessa essenza. Il lavoro subisce una trasformazione epocale: l’economia del nuovo capitalismo degli influencer volatilizza la realtà materiale della produzione, assume la forma di una «economia di reattività – scrive Landi – in cui i criteri di competitività abbandonano le caratteristiche analogiche per spiegarsi ricorrendo a termini astratti come qualità, innovazione, brandizzazione, immaterialità».
«Chiara Ferragni, mentre incarna paradossalmente il materialismo della vecchia società dei consumi, ne decreta la probabile estinzione». Ci saranno sempre cose da comprare nei nuovi mercati social, ma la corsa non sarà a procurarsi più merci, bensì ad assicurarsi una vita migliore.

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Chiara Ferragni e Fedez

Ritorna così di attualità, a oltre cent’anni dalla sua pubblicazione del 1899, quella Teoria della classe agiata in cui l’economista statunitense di origini norvegesi Thorstein Veblen, con uno slancio teorico rivoluzionario, invitava a osservare che all’origine di ogni forma di proprietà c’è il desiderio di emulare la ricchezza altrui. Abitazioni, abbigliamento, arte, arredi, animali domestici, servitù non rispondevano oramai più, né rispondono più oggi, a necessità materiali o a codificazioni di ceto come succedeva nell’antico regime, ma soddisfacevano oramai solo il bisogno di considerazione sociale di chi li possedeva. L’epoca contemporanea vede un’intera economia messa in movimento dai consumi che servono ad appagare il bisogno di status delle nuove classi agiate. Si tratta tuttavia di un’economia che ha un risvolto fortemente disgregatore, perché con il suo stesso funzionamento incrina la fiducia nella competizione, nella possibilità di raggiungere per merito quanto altri hanno raggiunto attraverso percorsi immateriali, impalpabili.

Veblen riteneva che, invece di migliorare la situazione dei ceti inferiori, «la lotta degli egoismi» e la rivalità tra ricchi accrescesse la concentrazione di ricchezza e potere nei ceti privilegiati, con ricadute difficili da prevedere sugli equilibri democratici. Del resto – concludeva il sociologo norvegese, trovando nella prospettiva di Landi un compiuto aggiornamento – il desiderio dell’umanità affluente è quello di procedere a un consumo sfrenato dei beni, eludendo tuttavia lo sforzo del lavoro: una disposizione che, da attento lettore di Darwin, Veblen ricercava ma non trovava in altre specie animali. Ma va ricordato che la quintessenza della condizione degli esseri umani sta nella loro capacità, possibilità, necessità di ricordare e di riflettere sul cambiamento: in una parola, nella loro capacità di farsi storia. E qualcosa, anche nel paradiso capitalista degli influencer, pare essere ora in trasformazione. «Le istituzioni sono prodotti del processo passato, sono adatte a circostanze passate, e non sono per questo mai pienamente in armonia con le esigenze del presente», ci avverte ancora Veblen. «Va quindi notato, benché possa parere una banale verità, che le istituzioni odierne – lo schema di vita presentemente accettato – non si confanno interamente alla situazione di oggidì».
Anche la nostra economia contemporanea dei consumi (che è, come infine dimostra Landi, un’economia emotiva, avvolta in un’atmosfe­ra di gioco, di giovanilismo e di erotismo) ha e avrà una storia: cambierà con la società e il lavoro, risponderà alle trasmutazioni tecnologiche dell’intelligenza artificiale. Forse sarà un diverso capitalismo, forse condurrà ad un’ulteriore mu­tazione antropologica.




In copertina: ©Vicki Hamilton, Pixabay