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I tuoi morti torneranno a vivere. L’ultimo Jung conservato da Aniela Jaffé



«Le persone non sanno che cosa rischiano a non accettare quel che la vita gli assegna, quel che essa gli pone come problema e compito. Quando impiegano tutta la loro volontà per risparmiarsi il dolore e la sofferenza di cui sono debitori alla propria natura, negano il loro tributo alla vita e proprio per questo vengono portati fuori strada dalla vita stessa». Con queste parole si apre In dialogo con Carl Gustav Jung, la trascrizione dei dialoghi avuti con il maestro della psicologia analitica realizzata da Aniela Jaffé, segretaria personale negli ultimi anni di vita di Jung nonché studiosa di psicoanalisi lei stessa. Il libro, pubblicato solo nel 2021 dopo una complessa storia di dibattiti sui diritti editoriali, è tradotto ora in Italia da Bollati Boringhieri.

Jung

«Proprio nel bel mezzo della mia vita hanno fatto irruzione le immagini eterne, a proposito delle quali Goethe – tuttavia in un’età molto più avanzata – aveva scritto: “mi tornate vicine, voi figure vacillanti…”». Se il ricordo dei Colloqui con Goethe del suo segretario Johann-Peter Eckermann viene deliberatamente evocato dallo stesso Jung qua e là nelle sue riflessioni, In dialogo con Carl Gustav Jung si pone in una significativa triangolazione con altre due opere centrali dell’opus junghiano: da un lato, Ricordi, sogni e riflessioni, autobiografia costruita con la collaborazione della stessa Jaffé e volontariamente pubblicata a pochi mesi dalla morte di Jung; dall’altro lato, il leggendario Libro rosso, profluvio di immagini e di riflessioni che accompagnarono Jung negli anni cruciali del suo percorso intellettuale, dal 1913 della rottura con Freud fino al principio degli anni Trenta.

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Se già Ricordi, sogni e riflessioni non aveva quell’andamento ufficiale e rigoroso da autobiografia classica, In dialogo con Carl Gustav Jung si fa forte di una costruzione amorevolmente frammentaria, che ripercorre e sintetizza il pluridecennale percorso di Jung come archeologo della psiche, dando una grandissima attenzione alla sua interiorità e con un evidente disinteresse verso gli eventi esterni e pubblici della lunga vita del maestro; tra le poche, significative eccezioni in questo senso, un ricordo del giovane Einstein e una riflessione sul conte Keyserling, animatore a Monaco di un cenacolo culturale dalla qualità altalenante, fatto assurgere da Jung a simbolo dell’«ultima smania di protagonismo» di un’aristocrazia europea ormai morente.

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Più di ogni altra cosa, In dialogo con Carl Gustav Jung della Jaffé testimonia l’immane tensione intellettuale che ha accompagnato Jung lungo tutto il suo percorso di ricerca e di vita, attraversando continenti, crisi personali, ere storiche ed ere geologiche in nome di quell’azzardo, tutto novecentesco, di arrivare a comprendere l’anima. Ma a differenza di Freud, che, pur scrutando costantemente e ancor più del discepolo, ha poi ripudiato l’irrazionale e rimaneva per molti versi un erede del positivismo, Jung volle sempre tenere un piede dentro il mistero che andava indagando. «Per questo mio intenso voler comprendere l’anima, da giovane medico mi augurai persino di avere una schizofrenia, o perlomeno una relazione amorosa con una donna schizofrenica, per sapere che cosa capita in queste persone» – una frase come questa testimonia pienamente tutto il chiasmo junghiano: tanto per il singolare connubio di passione scientifica, passione amorosa e morbosità psicologica che poche parole descrivono, quanto per la scelta di chiamare apertamente la psiche anima — non c’è più il greco a difenderci, e a difendere la pretesa scientificità di un’indagine nell’inconscio, e nell’inconoscibile.

Parlando con la fidata Aniela Jaffé, Jung non nasconde le difficoltà di ogni tipo che la sua indagine nella psiche umana e nei simboli archetipici ha comportato, ma neanche quella componente di vocazione quasi ossessiva e quasi daimonica che aveva sempre rivendicato per il suo percorso medico, psicologico e para-religioso.

«Nella mia vita ho sempre dovuto seguire la personalità interiore. Perciò dovetti anche rinunciare alla mia carriera accademica. La ragione superiore fu il portare avanti le bizzarre fantasie che erano iniziate allora, con le quali non potevo tuttavia presentarmi al pubblico. Quindi o la carriera… oppure costruisco quel che mi pare più importante sub spaecie aeternitatis. Essere o non essere stato professore… che significa questo? È ugualmente irrilevante che io abbia o non abbia il titolo di dottore.»

Più volte nel corso del dialogo Jung instaura un confronto se non un dissidio tra la personalità pubblica e quella interiore di ciascuno di noi – e l’anziano Jung rivendica con convinzione il fatto di aver sempre optato per la sua voce interiore: «Anche quando presi le parti di Freud sapevo che per questo avrei rischiato la carriera, ma già allora la personalità n. 2 disse: “Se fai finta di non conoscere Freud, questo è un inganno. Ma non si può impostare la vita su una menzogna”». E se già in Ricordi, sogni e riflessioni la collaborazione e il successivo dissidio con Freud non avevano lo spazio che l’editore Kurt Wolff e molti lettori si sarebbero aspettati, in questi nuovi dialoghi tra Jung e la Jaffé non ce n’è praticamente traccia.

In Dialogo con Carl Gustav Jung non manca nemmeno la sorprendente annotazione che «non si deve sopravvalutare l’inconscio»: Jung sta dialogando con la Jaffé del Libro Rosso, a quei tempi ancora a decenni di distanza dall’essere edito, testo esoterico circolato solo tra i fedelissimi del maestro, ma pur essendo composto dalle sue fantasie più recondite, personali e spiritualizzanti Jung riconosce che il Liber contiene solo una proiezione parziale della sua psiche e del suo immaginario. Nella cultura tedesca chi ha sopravvalutato il suo inconscio è, agli occhi di Jung, Friedrich Nietzsche, eccessivamente identificatosi nella figura di Zarathustra e nella sua «creazione visionaria spontanea» per non ritrovarsi pazzo a Torino.

Testo che raccoglie alcune delle ultimissime riflessioni private del maestro, In dialogo con Carl Gustav Jung non poteva non essere dominato dalle tonalità misteriche della sua religiosità personalissima, archetipica, della sua notoria attenzione verso i simboli e verso le coincidenze, le “sincronicità”. A un certo punto del libro Jung racconta alla Jaffé di un episodio occorsogli nel 1936, mentre era al lavoro sul significato simbolico-psicologico della Messa: nella casa a Bollingen trovò in uno stagno un serpente che teneva in bocca un pesce; entrambi gli animali erano morti, dopo che il pesce, un persico, aveva conficcato i suoi aculei nella gola del serpente. Jung non poté trattenersi dal costruire una sorta di monumento funebre in memoria dell’episodio: il pesce richiamava Cristo, il serpente, simbolo di Mercurio, l’alchimia, di cui era l’animale filosofico per eccellenza. Jung stesso scrisse nella scritta in latino che decorava il cenotafio, la morte congiunta del serpente e del pesce dimostrava che «la Messa e l’opera alchemica sono la medesima cosa e al tempo stesso non lo sono».

Tra i tanti ricordi e pensieri junghiani tramandati dalla Jaffé in questo libro alla fine uscito postumo per entrambi hanno spazio anche i contatti che Jung ebbe con gli altri continenti, tanto come viaggiatore quanto come pensatore, e in modo particolare le sue esperienze in Kenya e in altri paesi africani – subito poste però da Jung sotto il segno dell’ancestralità assoluta, di un esotismo che sfiora l’incomunicabile. «Ho difficoltà a esprimere ciò che ho vissuto in Africa. Subito, sin dal principio, pensai che avrei dovuto essere un vero artista per riprodurre quell’esperienza! Si è trattato del mio primo incontro con un mondo ancestrale, primitivo, fuori del tempo», rievoca Jung in un colloquio datato maggio 1958. «L’essere riportato indietro mi produsse uno strano conflitto emotivo: in quanto uomo bianco dovevo sempre rimanere consapevole di me, mentre dall’altro vivevo in un’identità inconscia con tutto ciò che mi stava intorno, come in una participation mystique».
«A volte mi sono chiesto se non sono la reincarnazione di un indiano. Se così fosse, sarei stato di certo un buddhista», dice in un altro momento. Non meno significativa, come atto mancato à la Freud, fu la deliberata scelta di non andare mai in visita a Roma, da sempre avvertita da Jung come «un’Anima da evitare, di cui non sono all’altezza», «un focolaio d’incendio» troppo fittamente abitato tanto dagli spiriti del paganesimo quanto dagli spiriti del primo cristianesimo per non angosciare la sensibilissima psiche di Jung con la sua intrinseca conflittualità.

Il volume In dialogo con Carl Gustav Jung è illuminante anche grazie agli ampi apparati critici che tanto l’edizione tedesca quanto l’edizione italiana, prefata da Luigi Zoja, dispiegano: particolarmente ricco di informazioni è l’ampio commento storico curato da Elena Fischli, che ricostruisce tanto le difficoltà che la stesura di Ricordi, sogni e riflessioni comportò per Jung e per Aniela Jaffé, quanto la complessa vicenda storica, legale e editoriale che ritardò la pubblicazione di questo secondo volume di riflessioni e ricordi junghiani. A lungo Jung si era detto tout court contrario alla stesura di un’autobiografia, motivando questa scelta con l’affermazione che «conosco troppe biografie piene di autoinganni e falsi scopi e so troppo bene che è impossibile descrivere se stessi per osare qualche tentativo in tal senso» e che «per me la mia vita è stata qualcosa da vivere e non da raccontare». Dopo molte insistenze Jung accettò contando anche sull’aiuto e sulla presenza al suo fianco della Jaffé, ma i due si dovettero scontrare con molteplici ingerenze dell’editore Kurt Wolff: ma, come scrisse Jung stesso in una delle tante lettere a Kurt Wolff che costellano il volume, «per me ogni libro rappresenta un po’ un destino», a maggior ragione il libro che doveva raccontare la sua vita, la sua interiorità, il suo percorso di crescita e di individuazione. E se è vero che, come scrive Luigi Zoja nella sua prefazione, «Freud è stato un intellettuale, Jung un maestro», In dialogo con Carl Gustav Jung ci trasmette quelli che sono con ogni probabilità gli ultimi insegnamenti di uno degli ultimi maestri del Novecento, che nell’ultima pagina delle trascrizioni dei suoi dialoghi con la segretaria, datata 16 maggio 1961 a meno di un mese dalla morte, si concede un’ultima affermazione gnostica, tanto sibillina quanto chiara:

«L’uomo innocente che si sottrae al mondo e nega il suo tributo alla vita non giunge all’individuazione, perché in lui non troverebbe spazio il Dio oscuro».

Jung morì il 6 giugno 1961 nella sua casa a Bollingen, Aniela Jaffé tre decenni dopo, trascorsi a divulgare il pensiero del maestro, ad applicarlo su nuovi campi e in modo particolare sulla mitologia e sull’arte moderna, partecipando anche ad alcuni dei leggendari colloqui di Eranos, a più riprese tentò di pubblicare quegli stralci di conversazione avuti con Jung non confluiti in Ricordi, sogni e riflessioni, ma difficoltà oggettive portarono più volte al fallimento del progetto. Ma se c’è un insegnamento che proprio In dialogo con Carl Gustav Jung può dare, un insegnamento particolarmente inattuale nel Novecento della composizione del libro e negli anni Venti del XXI secolo della sua pubblicazione, è l’atteggiamento di serenità di Jung al cospetto della morte, quasi di curiosità per la fine del vivere.

«Considero il mondo delle immagini di cui mi occupo già adesso come uno stadio preliminare a una prosecuzione della vita terrena in un’esistenza mitica, in un’esistenza in immagini psichiche», confida Jung alla Jaffé in uno dei passaggi più vertiginosi dei loro colloqui. «La vita dopo la morte equivarrebbe quindi a un procedere nel mondo delle immagini». Nell’attenzione rivolta al mondo dell’immaginale, gli insegnamenti junghiani che Aniela Jaffé ci ha trasmesso ricordano in maniera sorprendente analoghe riflessioni che un James Hillman moribondo, mezzo secolo dopo, avrebbe affidato a un’altra donna, Silvia Ronchey, dopo che insieme avevano ripercorso le tappe del viaggio di Jung a Ravenna. Un versetto di Isaia che Jung stesso amava ricordare suggella questo dialogo tra fantasmi: «i tuoi morti torneranno a vivere, svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere, poiché la tua rugiada è rugiada di luce e la terra ridarà alla vita le ombre». Se la psicoanalisi nel Novecento ha fatto al tempo stesso da antidoto e da battistrada all’incipiente secolarizzazione, è stato anche per la scelta di obliare la resurrezione della carne, senza rinunciare all’anima. Vos adoratis quod nescitis, nos adoramus quod scimus, quia salus ex Iudaeis est.


Immagine copertina di Officina Emozionale

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