Comma 22

#Gli ironici | Pinguini Arrosto



Ironici è una rubrica che si pone due obiettivi: chiedersi quali siano le possibili forme del comico e costruire una collana virtuale di testi ironici. Tutto questo combinando una recensione, un’intervista e una breve lista di consigli per gli acquisti. Per provare insieme a dare maggior voce al comico e trovare una risposta alla fatidica domanda: mi consiglia qualcosa che mi faccia divertire?

«La vita non è una tragedia in primo piano, ma una commedia in campo lungo.»
C. Chaplin

Allorché la situazione non precipiti c’è bisogno di ordine e l’ordine, come tutto d’altro canto, si mantiene in un equilibrio che non è mai statico, bensì dinamico, in continuo movimento. Sul perché iniziare una recensione in questo modo, non ho una risposta sensata e intelligente. Mi sembra che vi sia un qualche nesso tra il poliziesco, le forze dell’ordine, un paesino piuttosto tranquillo e l’ennesimo delitto, assurdo e inaspettato, che arriva a turbare troppe vite, ma anche a vivacizzarle, a darne un senso. Ecco, allora, quell’equilibrio dinamico di cui sopra: per godere la vita, c’è bisogno della morte. Pinguini Arrosto di Fulvio Ervas è un poliziesco a tinte ironiche, nonostante il titolo esotico che farebbe pensare a un libro di cucina inuit. L’esoticità del titolo contribuisce all’effetto di straniamento che appartiene a una certa forma di comicità, quella che toglie certezze, rende il tutto ambiguo, assurdo. Come è assurda la realtà. E allora non è strano se invece di andare in fumo i pinguini, nelle primissime pagine del romanzo, a bruciare siano dei tacchini: tacchini arrosto, allora cosa c’entrano i pinguini? Prima di capirci qualcosa, anzi prima di trovarsi davvero davanti al cuore della faccenda bisogna aspettare di arrivare a pagina 53. E davanti al cadavere di un prete.

«Seduti, il Tempio alle spalle, si godeva di una vista incantevole, non fosse stato per il prete morto sui primi gradini della scalinata e per la folla di fedeli che si accalcava, muta

Pinguini arrosto

Questo incipit posticipato ci pone di fronte a un libro molto diverso da Nostra signora dei Sullivan, di cui abbiamo già parlato, dove invece la vicenda iniziava subito, immediatamente, e dopo mezza pagina avevamo una serie di cadaveri ad aspettarci. Polizieschi dal tratto comico, eppure molto diversi nello stile, nel tono dell’autore, nell’ambientazione. Però non perdiamoci in chiacchiere e torniamo indietro. Pinguini Arrosto è il secondo episodio della saga dedicata all’ispettore Stucky, per metà italiano e per metà persiano, che corre, ma più spesso passeggia, tra Treviso e provincia. L’ispettore, come insegna il genere, è sempre impegnato su più fronti: vicino al limite della molestia, qualche indagine noiosa, colleghi da manicomio e un individuo, anche lui strano e assurdo, che ha preso l’abitudine di far cadere i corridori lungo il Sile. E poi ci sono i tacchini, vittime arrostite di un incendio doloso. Routine, semplice routine e Stucky, come ogni uccello del malaugurio, figura che lega la Signora in Giallo al nostrano Don Matteo, auspica e desidera un semplice, vecchio, caro omicidio. Il suo desiderio viene esaudito proprio alla vigilia di Pasqua e a morire, in quello che sembra un incidente, è un vecchio sacerdote: sulla scalinata che porta al tempio di Possagno viene trovato il corpo, vittima di una fatalità che fin da subito però assume contorni ambigui. E cosa c’è di meglio dell’ambiguità per un ispettore? Cosa c’è di più comico che uno sfondo di provincia messo su di giri dalla cosa peggiore che potesse capitare? La più forte caratteristica comica di questo romanzo è la prospettiva assunta dall’autore: una terza persona che segue da vicinissimo Stucky, ma che permette di osservare con sincerità tutti gli altri personaggi, comparse o coprotagonisti, in una vicenda dove l’umanità comune mostra i propri umori, manie, ricordi e assurdità. Riuscendo comica, alle volte buffa, ma anche tragica e malinconica. Attorno all’incidente, che si trasforma progressivamente in un probabile delitto, si affacciano vite dai contorni banali, ingrigiti, compromessi: la narrazione alleggerisce questa amarezza, ne addolcisce gli angoli ed esaspera caratteristiche creando, di tanto in tanto, piccole caricature. Al centro della storia si nascondono non tanto i misteri da risolvere quanto le debolezze, i vizi, i desideri dei protagonisti che vengono denudati di qualsiasi crudeltà ed efferatezza.

La serie dell’ispettore Stucky procede parallelamente alle vicende di Montalbano, o meglio insegue vista la distanza di qualche anno tra il primo volume di Ervas e la prima storia montalbaniana di Camilleri. Stucky nel profondo nord, Montalbano nel profondo sud. Montalbano è diventato nel tempo il riferimento per un genere a metà tra il giallo e la commedia, tra il poliziesco e l’umorismo picaresco, ben radicato nel territorio e con una forte componente di ironia linguistica: il successo di Camilleri non sarebbe stato tale senza la lingua del suo eroe e, forse, senza la comicità della quale sono imbevute le storie. Allora potremmo dire che esiste un montalbanesimo del quale Stucky fa parte, membro a tutti gli effetti e con tutti gli onori. In questo testo spicca un umorismo di parola e di situazioni. Caratteristica propria del montalbanesimo è il poter giocare con subordinati buffi, ipercaratterizzati, in gamba ma strani, pieni di difetti di lingua, di tic, di abitudini che creano un contesto di scherzo, di leggerezza. In alcune scelte di dialogo si coglie un’ironia leggera.

«E l’impasto? // Cresce. // Cosa ci fai? // Aggiungo farina. E non posso usare nessun marchingegno. // Perché? // Per non aggravare la bolletta energetica del paese, immagino».

Questo dialogo fa sorridere non solo perché l’impasto ha lo strano nome di impasto di Padre Pio, ma anche perché la chiusa finale è inaspettata, fuori contesto e in qualche senso premonitrice. La prima edizione del romanzo è del 2008 e invece sembra sentir parlare il Presidente Draghi della scelta tra condizionatori e pace. Ma forse è un’impressione mia, data dal caldo, eppure l’ironia ha questo vantaggio: scherzare, prendere alla leggera un qualcosa che poi potrebbe diventare di seria e urgente attualità. Al di là del genere giallo, quindi, direi che Ervas così come Camilleri, o meglio il Camilleri di Montalbano, mi pare vada letto, innanzitutto, come un ottimo scrittore comico.

Parlerei di una comicità che basta a se stessa e che, libera da qualsiasi rapporto con la morale, si fa portatrice di beffe, di risate, di scherzi, di un destino che progressivamente si delinea e giunge a compimento. Non sono esenti la religione, la morte, la politica, le istituzioni, nell’idea più alta che di tutto si possa ridere e di tutti si debba ridere. Perché non sono ridicoli solo i protagonisti secondari, ma è ridicolo lo stesso Stucky, le sue velleità e le arguzie che si rivelano buchi nell’acqua, le debolezze del corpo e dello spirito. Un Camilleri che è stato maestro della scuola dei pupi pirandelliani, del grande gioco delle parti e del ridicolo, e che in Ervas trova una sponda amica. Nessuno è esente dal macchiarsi di ridicolo almeno una volta nella vita, fosse anche in una scelta all’apparenza innocua. Continuando la similitudine, che forse ha più l’aspetto di un’analogia, tra Camilleri ed Ervas ritengo che buona parte della capacità comica risieda nella capacità di affabulare. Il narratore sa raccontare storie e per farlo sviluppa una sua voce, un tono che, a conti fatti, spesso si tramuta in genere. Però il genere non uccide la voce e così le due componenti coesistono e offrono una narrazione interessante: c’è il mistero, il delitto, le beghe quotidiane, ma anche la voce e le riflessioni ironiche, un tocco di leggerezza che regala qualche momento di pausa, di stimolo intellettivo o di banalissimo piacere della risata.

Stucky non è esente da una certa umanità, la stessa che ha reso Montalbano così amato, non un personaggio incastrato nel ruolo dell’eroe, o dell’antieroe, ma una persona con tutta la sua ironia e tristezza. Un protagonista comico alla Allais, che è stato dipinto da amici e colleghi scrittori come il più ironico di tutti ma anche il più pessimista. Questo a conferma che comico non è solo far ridere, che il comico non è superficiale, ma forse è andato fino in fondo nel delirio della vita e ha deciso di tirarsene fuori, zuppo e lercio delle peggiori immondizie, guardando poi il tutto un po’ più da lontano. Con quel distacco che spesso si riconosce alla scrittura ironica. «Allontanò quei pensieri, che aveva confidato solamente al povero Martini, il collega che s’era divertito a lasciare famiglia e questura tirando fuori dal cilindro un aneurisma. Non era stato un bel periodo. Nemmeno la morte di Martini era stata una bella cosa.»  come si può leggere a pagina 41, in una nota di una tragicità ben mascherata dall’ironia delle frasi. 

Il rapporto tra l’ispettore e il cibo, o meglio tra l’ispettore e i pasti, diventa elemento essenziale dell’indagine e della storia. La taverna, il bar, il ristorante diventano luoghi dove intercettare dettagli, raccogliere indizi, ma anche riflettere, temporeggiare, distrarsi. Sono spazi di comfort che permettono di instaurare rapporti più schietti e umani tra i personaggi. Poi ci sono i vecchietti, i pensionati, in piccoli gruppi o in solitaria, che assistono e avvertono dei diversi misfatti: è uno di loro ad allertare i vigili del fuoco dell’incendio che dà il via alla storia, è ancora uno di loro a ritrovare il cadavere del prete, è uno di loro il prete stesso e altri sono disseminati nei vari angoli della storia, nei punti di snodo. Questa curiosa coincidenza, ripetendosi tante volte, genera ilarità. È il meccanismo bergsoniano della ripetizione, del gesto o della situazione che di per sé non hanno nulla di comico, ma che ripetute più volte finiscono per generare risata. Questa risata spezza la tensione e aiuta a superare l’idea, comunque violenta, di un cadavere ai piedi di un tempio. E poi c’è lo sproloquiare infinito dei personaggi, che sono molti o anche troppi, ognuno con una sua voce e con le sue assurdità non solo da mostrare, ma persino da difendere. In questa costruzione polifonica il sociale, qualche frecciatina che ha il sapore della satira, entra ed esce dal testo. Penso alla battuta, lasciata lì quasi per caso, «[…] vuoi che le autorità non avvisino la cittadinanza del pericolo?». Dai, siamo seri, ma appunto, seri come? È questo il paradosso della commedia. Non ne ho parlato ma c’è una figura all’interno del romanzo che meriterebbe un approfondimento tutto per sé. Sono dei capitoli raccontati in prima persona e che infine appaiono come una sorta di lunga testimonianza. A parlare è una badante rumena: la voce più divertente e dissacrante di tutto il romanzo. Sempre candida, innocente, seria nella sua finzione letteraria si profonde in dialoghi e battute surreali. Come questa, il giorno in cui comunica alla famiglia che sarebbe partita per lavorare come badante. 

«E se i vecchi italiani sono sani?», disse mamma. «Voglio essere ottimista, sono malati»

Nell’insieme dell’impostazione da romanzo poliziesco si sviluppa il rapporto con il comico. Nell’investigazione, così come nel comico, al centro di tutto vi è la risoluzione di un quesito. Forse da questa particolare vicinanza che nascono i cosy crime, tutto un filone letterario e cinematografico di investigatori per sbaglio. Persone comuni, ma sempre piuttosto strambe, che si ritrovano sulle tracce di assassini e criminali di vario genere. Dal poliziesco puro si è arrivati a forme meticce che mischiano registri diversi: perché il meccanismo narrativo del giallo, che si presta facilmente a smontaggi e ricomposizioni, grazie alla commistione di registri si rinnova ed evita di produrre storie ripetitive e prevedibili. Nero Wolfe si può inserire in questo filone, ma esclusivamente per le caratteristiche dell’investigatore e poco altro. Rex Stout da un lato e Carletto Manzoni dall’altro, dove l’intento parodistico e grottesco avvolge la trama, i personaggi, gli incipit e i finali. Operazioni sempre riuscite?, ovviamente no. Ma ci sono casi come Elmore Leonard, e il suo umorismo vestito di noir, che piace ai lettori e ai produttori cinematografici. Senza dimenticare l’amatissimo Douglas Adams, autore non solo della Guida Galattica, ma anche dello strambo investigatore Dirk Gently che mischia umorismo, giallo e fantascienza. Tornando in Italia, e restando in quel filone che abbiamo definito montalbanismo, incontriamo la fortunatissima serie dell’Ispettore Coliandro, scritta da Carlo Lucarelli e finita anche sul piccolo schermo. La prospettiva con la quale guardare la storia, le vicende, i personaggi, nel caso del giallo che si mischia al comico restituisce un campo lungo, non un primo piano. 

Però non possiamo andare oltre nella definizione di ciò che è comico, senza rischiare di rinchiuderci su noi stessi. Come scrive Malerba si corre un rischio nel dare una definizione univoca del comico, che invece è gratuito e assurdo. Oggi invece pare che gratuito possa essere il lavoro, ma non la risata. Assurdità. Però questa è un’altra storia e prima di divagare, lasciamo la parola all’autore. 

Ciao, benvenuto tra gli ironici. Siamo alla quinta intervista e mi tocca chiedere anche a te: come definiresti il comico e perché l’hai scelto?
Mi permetto una considerazione: abbiamo bisogno come viventi di emozioni, ridere è certamente una tra le importanti. Quindi far ridere è un solletichio alle nostre capacità di mammiferi. Ma credo che il comico e la sua costola, l’ironia, abbiano anche altre funzioni: sono il tappo dello spumante che scoppia all’improvviso, sono il soffitto o il pavimento di una stanza, sono il capovolto, il margine, la sedia che si rompe in tutte le cerimonie importanti. Il comico ci ricorda, a mio parere, che siamo Homo sapiens solo di domenica e poi abbiamo intere settimane di Homo stultus. Intendo il comico tagliente, quello che coglie gli inciampi, le bugie, le promesse in malafede, basti pensare alle falsità sul clima, dei cui mutamenti siamo tragicamente in ritardo.
Ecco, raccontando nei miei polizieschi una terra che pare baciata dalla fortuna, mi sento attratto da situazioni che rivelino l’umore del retrobottega, della cantina, del garage pieno di ricordi. Intendo dire che non agisco mostrando le schifezze dietro la facciata perbenista, operazione che non mi riesce e che non mi affascina. Racconto, al contrario, la stravaganza, sì, la comicità, di personaggi che trovo assai più interessanti tanto del criminale che si alimenta della facciata borghese quanto del signorotto da passeggio. Voglio mostrare che l’umanità degna non trucida né mangia soldi. Prova a sorridere e a far sorridere. Come i migliori mammiferi.

Se la comicità ha tante forme, quale preferisci?
Naturalmente non so se l’ironia sia davvero una forma di comicità, mi piace immaginare che ne sia una costola, un tessuto elastico ma consistente, capace di attirare l’attenzione nei punti dove la comicità sia meno brillante, la sveglia che suona ripetutamente per impedire che ci addormentiamo. Poi, per la verità, non so dire se funzioni. Spero di sì. Immagino, alla fine, l’ironia come un farmaco se non salvavita almeno un sicuro antidolorifico dalle sciocchezze di una certa normalità. Mi viene da credere che dovremmo assumerne una pillola con regolarità, alla mattina o alla sera, secondo i propri ritmi circadiani o in funzione delle difficoltà che si incontrano, provocate da vari tipi di incapacità. 

E se ti svegliassi curatore di una collana umoristica, quale titolo le daresti?
Homo ridens. Però vorrei inserirci alcuni testi particolari:
a) La tesi di laurea di Fulvio Ervas, dal titolo “Salvaguardia della razza burlina”, uno dei punti più alti della mia carriera e anche delle, oggi dimenticate, mucche burline della pedemontana veneta.
b) Il diario di Noè, che va rivisitato perché si era dimenticato di caricare nella famigerata Arca le piante e non si capisce, pertanto, come sia possibile che noi oggi coltiviamo insalata e pomodori.
c) Il codice della strada da regalare con il giornale acquistato dai ciclisti della domenica che procedono a file quadruple.
d) Dune di Frank Hebert perché l’ho letto in quattro giorni da giovincello e poi mi è stato facile sorridere per molti giorni.

E ora, come sempre, lasciamo spazio ai consigli per gli acquisti. Fulvio Ervas suggerisce:
1. Una banda d’idioti di J. Kennedy Toole, ed. Marcos y Marcos;
2. La briscola in cinque, di Marco Malvaldi, Sellerio, perché non mi aspettavo che si potesse costruire un tale sgangherato, ma efficace, gruppo di investigatori;
3. L’uomo dei dadi, Luke Rhinehart, Marcos y Marcos, perché un libro che gioca con il caso, le probabilità, la follia del mondo, in questo modo è unico e sorpren-divertente.



Illustrazione in copertina di Federico Arrigoni (@fededoodles)