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Giochi d’ombre. Intervista a Daniela Dawan




Daniela Dawan appare nei contorni ormai familiari di una finestra di videochiamata Zoom, sullo schermo del mio pc. Mi saluta con un sorriso ampio e un bassottino sulle ginocchia: si chiama Argo, dice, ha tre mesi e vuole tutta la mia attenzione, infatti eccolo qui. Mi chiede come ho scoperto il suo libro, io le spiego che mi è stato suggerito e che dopo averlo letto mi è venuta voglia di discuterne con lei. Si intitola Giochi di ombre e fa parte di ARYA, la collana Giunti dedicata a ragazzi e giovani lettori.
È proprio da qui, ovvero dalla destinazione del suo romanzo, che inizia la nostra chiacchierata.

Come mai hai scelto di mettere in scena dei protagonisti diciassettenni nel pieno della fase di transizione fra l’età adolescenziale e quella adulta? E perché proprio questo tipo di passaggio e non, per esempio, quello compreso fra le scuole medie e il liceo?
Molto banalmente, per rispondere alla sfida che mi è stata proposta dalla casa editrice: Giunti ha una collana Young Adult che raccoglie opere di scrittori di grande pregio e che normalmente, però, non scrivono per ragazzi. A dire la verità, non avevo nemmeno troppo chiaro a quale fascia d’età si riferisse la categoria Young Adult, comprensiva in effetti di un pubblico ben più ampio, ma ho accettato: mi sento molto vicina ai ragazzi e per me è stato molto piacevole scrivere per loro. Diciamo che mi ci identifico un po’.

daniela dawan

Infatti ho notato che da questo romanzo emerge una rappresentazione molto positiva della cosiddetta Generazione Z: i protagonisti sono appassionati, coraggiosi, leali, hanno a cuore il destino del pianeta. Mi sembra di capire che quindi guardi al futuro e a ciò che rappresentano con un certo ottimismo.
Sì, assolutamente. Bisogna avere molta fiducia nei giovani. Ne ho conosciuti tanti, in questi anni, dotati di una grande propensione all’ascolto e impregnati di buoni valori. Poi è chiaro che ci sono delle eccezioni – per esempio, le bande giovanili qui a Milano – ma credo che non siano rappresentative della gioventù nel suo complesso.

Quindi come sei venuta in contatto con i ragazzi? Lavori anche con le scuole?
Sì, la mia attività letteraria mi ha portata anche nelle scuole. È un’esperienza che mi ha impressionata molto favorevolmente, anche grazie al ruolo di insegnanti di valore che sono in grado di incoraggiare i ragazzi alla lettura e all’espressione scritta del pensiero. In particolare, ho avuto modo di leggere dei loro commenti in merito al mio romanzo precedente, Qual è la via del vento, che ho molto apprezzato. Penso quindi di conoscerlo abbastanza, il mondo dei ragazzi. Poi ho due nipoti, di cui ho scritto nella quarta di copertina, che ora hanno venti e ventuno anni: la mia parte fanciullesca si immedesima facilmente in loro e nei loro amici. E, se mi trovo in un contesto in cui sono presenti adulti e giovani, tendo a stare vicina ai giovani, mi diverto di più.

Riprendo la questione della lettura, e più in generale della letteratura, uno dei temi fondanti di questo tuo lavoro. Il personaggio di zia Delfina è dotato di una grande capacità affabulatoria proprio grazie alla sua passione per la lettura: saranno anche le sue parole a spingere i protagonisti a vivere l’avventura su cui si concentra la narrazione. Qual è secondo te il potenziale della letteratura oggi e in che modo tu ne sei rimasta coinvolta a tal punto da farla diventare parte della tua professione?
Il potenziale della letteratura oggi potrebbe essere immenso. La lettura è l’unica attività intellettuale in grado di aprire la mente, perché la letteratura dona l’accesso a mondi e contesti diversi dai tuoi, mentre ti imbatti in personaggi che sono esseri umani altri, con vicende per te magari impensabili e lontane. Naturalmente, quindi, favorisce lo sviluppo della fantasia e dell’abilità immaginifica del fruitore, che fa uno sforzo ulteriore rispetto a quando si siede davanti alla tv per guardare realtà altre spiattellate e che non richiedono un grande grado di elaborazione. Secondo me è davvero necessario leggere e far leggere.
Per quanto riguarda la mia esperienza personale, io mi sono avvicinata alla scrittura gradualmente: a un certo punto della mia vita mi è diventato necessario fermarmi e raccogliere la concentrazione, non disperdermi. Fino a una quindicina di anni fa, infatti, sono sempre stata un po’ dispersiva: poi ho deciso di concentrarmi perché il tempo scorre, e a un certo punto le cose non le fai più. A quel punto la lettura è diventata per me passione e conforto: leggere fa bene all’anima, è un arricchimento per chiunque. Parallelamente, ho iniziato a scrivere.

Una verità generalmente accettata sul rapporto fra adolescenza e lettura è quella che dice che i libri letti e amati a quell’età non si dimenticano mai. C’è un libro di quell’epoca che ti ha segnata, o che ti ha fatto pensare che un giorno avresti voluto scrivere anche tu?
Da adolescente ero stata molto colpita da Se questo è un uomo. Da bambina invece ero molto presa dalle storie dal libro Cuore e dalle avventure di Jules Verne. Che volessi scrivere, allora, non l’ho mai pensato. Poi alcuni anni fa mi è capitato di conoscere una scrittrice di libri per bambini con cui avevo discusso di quanto dovesse essere bello tornare a casa la sera per aprire il computer e immergersi in un altro mondo, come in Narnia. Ecco, lì ho cominciato ad aspirare a qualcosa del genere, di diverso e parallelo.

Ho notato che hai cercato di riprodurre il linguaggio adolescenziale scritto, ovvero quello della chat, che ormai è un mezzo imprescindibile alla costruzione di qualsiasi rapporto interpersonale. Come influisce questo aspetto sull’espressione di sé e sullo sviluppo di un’amicizia
Certamente il linguaggio della chat è un linguaggio povero, che non lascia grande spazio all’elaborazione. Vedo i ragazzi molto distanti dalla scrittura e questo si evidenzia nella banalità dell’espressione, che si ferma a certe parole, certi modi di dire superficiali. La tecnologia ci arricchisce sotto l’aspetto informativo, meno rispetto a quello formativo: non è un acquisto indolore.

Il gruppo di amici protagonisti è legato da sentimenti di amore e amicizia, che in adolescenza si vivono in modo totalizzante. Come sono cambiate le tue idee di amore e amicizia nel tempo? Qual è la differenza in età adulta?
Sotto certi aspetti, le amicizie degli adolescenti sono più intense: è vitale la necessità di identificarsi nell’altro condividendo un percorso di crescita comune e stando in contatto a livello simbiotico. In età adulta, invece, l’amico diventa una persona che senti ogni tanto ma con cui non hai una frequentazione quotidiana: c’è maggior distacco e meno coinvolgimento emotivo. Anche le amicizie adolescenziali che permangono in età adulta, seppur molto forti, tendono a modificarsi un po’. Ma ovviamente non sto dicendo che adesso non potrei incontrare una persona che mi è molto affine e imbastire un rapporto importante di amicizia senza radici.
Per quanto riguarda l’amore: tra ragazzi è struggente, romantico; nell’età adulta può essere molto sofferto, diciamo che è bellissimo quando va bene. Ma sull’amore non farei grandi differenze, mi sembra ugualmente intenso a tutte l’età. Effettivamente è più l’amicizia che vedo diversa, sì.

Altra caratteristica del libro è il lavoro che hai fatto su Milano, una protagonista a tutti gli effetti. La conosciamo attraverso l’avventura dei quattro personaggi che, indagandola sotto la sua superficie, accedono alla sua versione secentesca. C’è un lavoro di ricostruzione storica dietro quello che ci presenti, ad esempio per quanto riguarda la storia del frate che viene citata?
La storia del frate è completamente inventata. La ricostruzione storica c’è nel senso che ho letto qualcosa sulla Milano del 1630, sconvolta dalla peste e dall’Inquisizione: mi sono documentata anche riguardo a zone che ora non esistono più ma quel personaggio è completamente inventato.

Attraverso il personaggio del frate e quello del Baggino emerge con forza il tema della morte, già importante per le vicende di uno dei protagonisti. Forse è un po’ un cliché ripeterlo, ma è vero che siamo una società che guarda alla morte con una certa soggezione. Come è maturata allora l’idea di inserirla nella quotidianità dei tuoi personaggi, scelta che ho trovato appropriata per i tempi che viviamo
Proprio per quello che dici tu, perché è così strettamente legata alla vita che è impossibile non parlarne, anche se all’inizio ero in dubbio se scriverne in un libro per ragazzi.
Quando ero bambina, in una certa occasione mio nonno aveva scritto a sua figlia, mia madre, un biglietto che diceva qualcosa come “Per tutta la mia vita ti amerò, ricorderò questo giorno”: attraverso quelle parole mi sono avvicinata all’idea di una fine, perché mi sono soffermata a pensare a cosa volesse dire “per tutta la vita”, a chiedermi se dopo “tutta la vita” non ci fossero più giorni. È vero che quello della morte è un tema che viene espunto spesso e sembra quasi osceno parlarne, ma a me piaceva che questi ragazzi venissero messi di fronte anche a questa difficoltà, perché non sono stupidi. Poi le atmosfere sepolcrali, gli spiriti e i confini fra ciò che si vede e che non si vede sono sempre fascinosi. Da scrivere anche di morte non avrei potuto prescindere, ecco, ed è anche per questo che considero questo mio romanzo anche per adulti, trasversale in questo senso.

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