Comma 22

Gauche Caviar e il Novecento ferito



In questo eterno e mellifluo tempo da post politica e forse anche già post apocalittico vista la sempre più palese assenza di sensi e di sentimenti adeguati alla storia e all’esistere comune, arriva come scagliato da un tempo altro il volumetto rosso di Fulvio Abbate e Bobo Craxi, Gauche caviar. Sorta di libretto rosso per tempi di pubblica disaffezione, Gauche caviar è un canto alle idee. Un manuale che si propone con elegante ironia di salvare il socialismo, ma che riesce intanto, in questo infinito frattempo, a salvare quantomeno i suoi lettori.

Colto e raffinato come solo può o dovrebbe essere l’ironia, il volume apre squarci tra la vita privata degli autori e quella pubblica, che a tutti dovrebbe appartenere, ma la cui perdita di consapevolezza ha spesso ridotto a misero pettegolezzo. Ora che la vita di ognuno è inevitabilmente pubblicamente esposta, compresa quella di Fulvio Abbate e di Bobo Craxi, pare che la storia con i suoi interlocutori movimenti sia sempre più oscura e rimossa. Un’impressionante perdita di valore, ideali e passioni comuni in cui il crollo dei partiti politici italiani del Novecento non è altro che la punta più esposta di un dolore e di una sconfitta che coinvolge il nostro paese, anche più degli altri. Ma è inutile rimpiangere il passato, anche se qualche sassolino è sempre bene toglierselo dalle scarpe, anche solo per intraprendere il cammino un po’ più comodamente.

Costruito come uno scambio epistolare, Gauche caviar prova a cogliere i motivi di uno smarrimento politico e le sue incertezze e offre ai lettori due veri e propri eroi, mai in fuga dalle proprie sconfitte, ma certamente consci del dolore e della fatica che queste hanno comportato. Non solo un libro che narra il piacere (sottile e anche equivoco) della sconfitta, ma che dalla sconfitta, intesa come terrazza panoramica sull’esistente, offre uno sguardo di possibile felicità. La storia si sa, la scrivono i vincitori, ma la storia, lo abbiamo già detto, non interessa più a nessuno. Così avviene che la fantasia – altro campo poco abitato in questo scorcio di secolo – possa diventare la casamatta degli sconfitti, il luogo in cui l’immaginazione non va a prendersi il potere, ma possa raggiungere agilmente una spiaggia dorata della Tunisia in cui aprire un chiringuito per Abbate o un cabanon secondo la preferenza etimologica e lecorbusiana di Craxi. Gauche caviar trasforma così il dolore in leggerezza che è il modo migliore per prendersene cura e offre ai lettori quasi come un manuale esistenziale, la pratica e quindi la possibilità di come si possa mettere in discussione la propria storia, per restare ovviamente fedeli a se stessi e alle proprie idee. Il disincanto vergato da profonda malinconia di Bobo Craxi che ha il sapore di certa musica brasiliana e il bruciante senso (e bisogno) di alterità di Fulvio Abbate che esplode in un segno letterario mai banale offrono riflessioni che aderiscono al corpo ferito di un Novecento seppellito senza nemmeno prenderne le misure. Una festa che vede Place des Vosges con i suoi alberi riquadrati a far da sfondo all’appartamento di Jack Lang – alter ego di Carlo Ripa di Meana coinvolto in una serata impossibile tra arazzi e kimoni. Un gioco della fantasia amaro che non si alimenta delle possibilità future, ma delle impossibilità che il presente ha reso tali. Un basso cabotaggio privo di gusto e piacere da cui evadere e a cui risultano estranei incontri impossibili, incroci solo apparentemente privi di senso come quello che vide protagonisti una notte Bettino Craxi, Francesco de Gregori e Lucio Dalla, tutti insieme all’edicola notturna in cerca dei giornali del mattino.

Il chiringuito o il cabanon che dir si voglia diviene così il luogo dell’incontro proprio perché luogo dell’abbandono. Via infatti dai salotti ostili, dalle gerarchie inamovibili e pretenziose, dalle classifiche di mediocrità e dagli uomini e dalle donne messi in fila come tristi perle di bassa bigiotteria. Gauche caviar attraversa la storia e la politica, l’irrisione e la guerra, e riporta il tempo sul campo della quotidianità, della relazione amicale e fraterna. Un libro come vero e proprio campo di gioco, quello vero (non quello delle parti) in cui sia possibile tornare a navigare nelle cose della vita, con Bobo Craxi impegnato in una campagna elettorale il cui esito contabile sarà anche deludente, ma che offre a Roma una vera e concreta possibilità politica che non si esaurisce nei cestini ripuliti dalla monnezza (che pure non sarebbe cosa da poco), ma che coglie l’appartenenza al proprio tempo rendendolo visibile e nuovamente a disposizione. Nonostante o anche proprio perché l’anziana elettrice si rivolge a Craxi dicendogli: «la ricordavo senza capelli», una breve goccia surrealista in cui l’errore, la confusione e la dabbenaggine, divengono puro istante poetico. Fulvio Abbate e Bobo Craxi, autori e protagonisti, ci scrutano perplessi e ironici dalle pagine di questo libro. Sviluppare un vero senso del ridicolo è compito gravoso che spetta a chiunque desideri ritrovare pezzi della propria storia, o più semplicemente farsene una ragione. Quello che la storia presentò ad Hammamet in forma di tragedia ora si ripropone in forma di avventura, quella di due amici che si sono incontrati un giorno per caso, proprio come se entrambi provenissero dalle parti della Via Pál.



Copertina: Sardegna 1968, comizio a Bono, Sassari