«Del mare non ci si può fidare» scrive Fabrizia Ramondino in un punto focale di L’isola riflessa. E la frase appare come un cupo presagio. Sono tanti i riferimenti contenuti in questo piccolo libro: l’esiguo numero di pagine non rispecchia la pluralità ingovernabile dei contenuti. La scrittrice confessa di amare il mare al mattino, quando non è tempestoso e le onde non sono troppo alte; lei, piena di forze, vi si può tuffare nuda e spingersi al largo sentendosi come «l’unico pesce rimasto». C’è un’immagine di estrema libertà racchiusa nel gesto: nuotare in mare aperto alla stregua di una creatura marina, che non appartiene al mondo terrestre. Ma l’insidia è in agguato, racchiusa nello spazio infido della coscienza: «quando mi sentivo mancare avevo paura di fare il morto, di pensare».
È un pensiero che ritorna spesso e si legge con angoscia perché, a posteriori, appare come un presentimento. Fabrizia Ramondino sarebbe morta in mare, il 23 giugno del 2008, a causa di un malore improvviso mentre nuotava al largo di Gaeta. Proprio il giorno successivo il suo romanzo, La via, usciva nelle librerie per Einaudi: una pubblicazione postuma.
Il dramma finale viene spesso citato come un episodio romanzesco, sebbene sia reale: nell’esistenza di Ramondino letteratura e vita vera si confondono e sovrappongono, sfumando i contorni. È stata una delle maggiori scrittrici del nostro Novecento, al pari di Ginzburg e Morante, eppure spesso viene ricordata per la sua morte improvvisa, quasi misteriosa, prima ancora che per le sue opere – sebbene un libro come Althénopis, ad esempio, meriti un posto di primo piano nella letteratura italiana. Ora la casa editrice Nutrimenti ha ristampato L’isola riflessa, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1998.

Di cosa parla questo libro? È la domanda più semplice, eppure, a ben pensarci, è la più difficile. «Cosa stai leggendo?» mi chiedono e poi, non appena dico il titolo, subito: «Quindi di che parla?». Mi rendo conto che non so bene come rispondere – e questo può rendere l’idea di quanto sia inclassificabile e indefinibile un’autrice come Ramondino. C’è qualcosa di sfuggente in lei, quest’inafferrabilità si riflette nella sua scrittura che sembra nutrirsi di una forma di “nomadismo linguistico”. Non sappiamo dove ci porterà, eppure continuiamo a leggere e ci abbandoniamo a una lingua estrema, affilata e al contempo flautata, che appare impreziosita da uno stile classico e da una sorta di visione pittorica. Ci sono pagine, in cui Ramondino descrive gli abitanti dell’isola, che sembrano quadri impressionisti:
«Attraversa la piazza silenzioso e curvo il raccoglitore di asparagi selvatici dal colorito terrigno».
La perfezione della scrittura di Fabrizia Ramondino si riflette in una frase prismatica, articolata, in equilibrio ideale tra visione e sensazione, in grado di restituirci appieno una maniera di stare al mondo. Dunque, di cosa parla questo libro? Non è un libro di sole descrizioni, sia chiaro, ma è sicuramente un “libro di osservazione”. È un romanzo non romanzo, in cui la riflessione personale si intreccia con la meditazione intellettuale e filosofica in un continuo interrogarsi sotto il segno di una discontinuità che è quella del pensiero. Tutto appare in bilico tra ricordo, memoria, sogno.
L’io narrante è una donna – riflesso speculare della stessa Ramondino – che si reca su un’isola per curare un non meglio precisato “male di vivere” che infine prenderà il nome di depressione. Sappiamo che ha sofferto di alcolismo e che rischia di cedere di nuovo alla tentazione e comprendiamo anche, ben presto, che è una narratrice inaffidabile, poiché nel suo racconto non si capisce dove si collochi la realtà e dove la visione: parla con donne straniere dai nomi antichi o mitici, interroga fantasmi, evoca assenze e il vuoto diventa vertigine. L’isola è Ventotene: oggi il nome ci dice subito qualcosa, perché si è tanto parlato di recente del famoso Manifesto di Ventotene, atto fondante dell’Unione Europea, che fu redatto nel 1941 dagli intellettuali antifascisti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi proprio durante il confino sull’isola. Ma la Ventotene narrata da Ramondino non è la culla del pensiero europeo – o meglio, non solo – è un luogo metafisico dove si intrecciano le storie di eremiti, esuli e pirati sin dai tempi più antichi:
«Una storia di reietti e vittime, sorveglianti e carnefici».
Vi fu confinata Giulia, la figlia ribelle dell’imperatore Augusto, per scontare la pena di adulterio: se si presta attenzione si avverte ancora il suo urlo da prigioniera intrappolato nel mare. Lo stesso infausto destino toccherà a Scribonia, Agrippina, Ottavia e ad altre donne della dinastia giulio-claudia. Alla prigionia delle imperatrici seguì quella volontaria degli eremiti medievali, infine fu il tempo del confino degli esiliati politici durante il fascismo. Ecco che Altiero Spinelli ritorna, come presenza fantasmatica, e rivive in alcune scene quasi orrorifiche capaci di testimoniare la durezza delle condizioni di vita sul suolo isolano: Ramondino ricorda quando mangiò un pulcino nato morto e ne scaturì un’infezione che gli provocò una febbre altissima, quasi mortale. Quanto poco sappiamo in fondo di quest’uomo, Spinelli, considerato il padre fondatore dell’Unione Europea: ne L’isola riflessa la sua vita appare opaca e ondivaga, come un riflesso sull’acqua, ci viene restituita per frammenti. Dopo l’episodio del pulcino veniamo a conoscenza del suo amore clandestino per Ursula, moglie di Eugenio Colorni, incarnato nell’essenzialità di una frase: «Fra noi era successo tutto e niente». I due si ritroveranno in Svizzera, dopo la morte di Colorni; le memorie di Ursula restituiscono la parabola di una vita in fuga, tra impegno politico e «ansia di libertà». L’importanza storica di Altiero Spinelli sfuma in secondo piano rispetto alla figura affascinante di Ursula, di cui apprendiamo il tragico destino: in seguito a un’emorragia cerebrale piombò nell’incoscienza e morì quasi vent’anni dopo, nel 1991. Il presagio di morte accompagna questi appunti sparsi di Ramondino come una nota sotterranea, cupa e dolente: l’autrice sembra interrogarsi, attraverso le vite degli altri, riguardo il suo stesso destino. Ai personaggi storici si sovrappongono, nella seconda parte del libro, le vite minuscole degli isolani. Ciascuna conserva il suo carico segreto di amore e di pena.
«L’ombra del presente sembra ricalcare quella del passato».
All’immagine di maternità dolcissima offerta da una giovane donna, che sembra richiamare la Madonna col bambino; allo stupore dinnanzi a quella nuova vita che «restituisce un pezzetto di infinito», fa da contraltare l’angoscia esistenziale di Anna, la figlia dei droghieri, e i suoi pensieri oscuri scribacchiati sul quaderno. Nell’arco di poche pagine si passa da una visione rasserenante a un’inquietudine claustrofobica. Fabrizia Ramondino non si limita a osservare ciò che la circonda, incessantemente interroga e si interroga: analizza le mode, i costumi (memorabili le pagine dedicate al topless), le differenze tra isolani e turisti, servendosi spesso anche dell’etimologia delle parole come se cogliesse nel linguaggio il riflesso di un testo sapienziale. La parola «fuga», rivela, deriva dal tedesco fügen che significa «piegare, adattare»: un’interessante chiave di lettura dell’intero testo. Nel ritmo incessante della narrazione convergono tutte le molteplici identità di Fabrizia Ramondino: la sua infanzia cosmopolita sull’isola di Maiorca, narrata in Guerra di infanzia e di Spagna, che anticipa il nomadismo esistenziale dell’età adulta; il lavoro come traduttrice; l’impegno politico e la raffinata cultura; la lotta contro la depressione e l’alcolismo; gli anni di terapia junghiana; l’esperienza della maternità, e persino il presagio latente della sua stessa morte per mare. È una biografia e, al contempo, non lo è: un flusso di pensieri, un saggio storico, un romanzo d’avventura, un trattato sociologico, un memoir, cogliamo nello sperimentalismo furioso della scrittura di Ramondino l’anticipazione della contemporanea autofiction o narrazione dell’io che dischiude l’indagine letteraria sull’inconscio.
L’isola riflessa è lei, è Fabrizia. La scrittura è la sua maniera di ritrovarsi, quando tutto appare perduto. È sempre lei che infine si aggrappa al quaderno di appunti come a un’àncora e dice che quello è il suo unico luogo, il suo spazio, la sua casa, ciò che le appartiene:
«Il quaderno, la mia piccola isola».
Capiamo allora che non è Ventotene, con la sua storia e i suoi miti, la vera protagonista del libro. La prospettiva d’improvviso si ribalta, come se dopo aver osservato a lungo i negativi delle fotografie ora guardassimo finalmente negli occhi chi quelle fotografie le ha scattate. È solo in quel momento che tutto appare chiaro, che la fuggevolezza, la metamorfosi continua, quella scrittura impazzita e in perenne fuga, trova una forma in cui assestarsi.
Di cosa parla questo libro? Di lei, di Fabrizia Ramondino, di un’anima poetica in temeraria rivolta contro la mancanza di senso del mondo e del presente – perché il passato, visto con la giusta distanza, appare sempre più chiaro. Il presente, invece, nella sua indefinitezza ci interroga e la scrittura di Ramondino è un costante interrogarsi. Anche il punto interrogativo in fondo è un punto di rottura – c’è un punto di rottura alla base di tutte le nostre domande. L’isola riflessa è il racconto di un’interiorità spezzata.
«L’isola è deserta – io stessa lo sono».
L’isola narrata da Ramondino è quanto di più diverso esista dall’Isola di Arturo di Morante, nonostante la scrittura morantiana sia stata sempre un modello – dichiarato – per l’autrice. Al luogo mitico e selvaggio dell’infanzia si sostituisce qui la metafisica dell’anima. Anche Fabrizia dovrà lasciare la sua isola. La trama, pur nella sua discontinuità, segue un moto circolare: inizia con una piazza e delle case tinte di giallo, si conclude con l’addio a quella piazza e a quelle case. Se Arturo, nella storia di Morante, abbandonerà l’isola per attraversare una soglia invisibile – quella tra l’infanzia e la maturità – ecco che invece la protagonista di L’isola riflessa compie un processo di guarigione. Quando osserva Ventotene dal mare, mentre l’aliscafo la riporta al continente, Fabrizia parla dell’isola come di un «miraggio». La metafora è calzante perché traduce l’essenza psichica della scrittura di Ramondino: l’isola riflessa è la mente, con le sue proiezioni e i suoi inganni. Il termine psiche, in greco, significa «anima», ma anche «soffio, respiro» a indicare il “soffio vitale” che gli antichi associavano alla vita interiore, ovvero alla sfera dei sentimenti, dei pensieri, delle emozioni, che è la materia pulsante (e ingovernabile) di questo libro. A un certo punto Fabrizia Ramondino scrive: «Sento che il corpo è sempre più prigioniero dell’anima», un apparente paradosso che riflette il suo itinerario esistenziale e poetico: eccola, la vera Isola riflessa.
Immagine di copertina: Augusto De Luca, CC BY-SA 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0, via Wikimedia Commons