Comma 22

D’ora in poi ogni giorno sarà più freddo. Mai e poi mai il fuoco di Diamela Eltit



In un articolo intitolato Frammenti di un ritorno al paese natale, Roberto Bolaño descriveva la situazione della letteratura cilena verso la fine degli anni Novanta e affermava con convinzione che «andare in esilio non è scomparire ma rimpicciolire, ridursi lentamente o a velocità vertiginosa fino a raggiungere la propria vera statura, la statura dell’essere», e aggiungeva che «ogni letteratura reca in sé l’esilio».
Le parole dello scrittore cileno sembrano quasi essere state scritte appositamente – per quanto Bolaño non condividesse idee e poetica di Eltit – per descrivere ciò che accade in Mai e poi mai il fuoco di Diamela Eltit. Pubblicato per la prima volte in Cile nel 2007, e ottava delle undici opere dell’autrice, il romanzo è arrivato in Italia grazie a gran vía nell’impeccabile traduzione di Raul Schenardi.

La voce di Eltit è tra le più importanti nel vasto panorama della letteratura sudamericana contemporanea, ed è giunta in Italia per la prima volta con Imposta alla carne tradotto nel 2013 da Atmosphere. Lo scorso anno, invece, è stata la napoletana Alessandro Polidoro Editore a portare nelle librerie Manodopera, cruda e quanto mai realistica interpretazione del sistema di produzione neoliberale. Nel 2018 l’autrice ha ottenuto il Premio nazionale di Letteratura, mentre, solo pochi mesi fa, è stata insignita del prestigioso Premio FIL di Letteratura in Lingue Romanze. El País ha inserito Mai e poi mai il fuoco tra i cinquanta libri in lingua spagnola più importanti del nostro secolo.

Eltit

Nelle opere dell’autrice cilena mai nulla è casuale e in questo romanzo non lo è nemmeno il titolo. Il riferimento è alla poesia del 1939 di César Vallejo intitolata I nove mostri, dove il patimento del corpo non è altro che metafora del declino sociale e politico di un’intera generazione: quella che negli anni Settanta ha creduto di poter sovvertire la dittatura e il sistema del regime di Pinochet. A pensarci bene, infatti, i versi del poeta peruviano servono a Eltit per richiamare la poetica – quella «del dolore» −, cui lei stessa aveva dato vita negli anni Settanta nell’ambito del Colectivo Acciones de Arte (CADA).

Il dolore e il deterioramento sono alla base di Mai e poi mai il fuoco. I protagonisti sono due coniugi ex militanti che ora vivono segregati nella loro casa evitando contatti con il mondo esterno e, spesso, anche tra loro. Si conoscono da quando erano solo dei ragazzini e si erano affiliati a una piccola cellula studentesca, una «cellula piccola, piccola, ma fedele». Lui segretario con un ruolo influente, lei incaricata di copiare e diffondere non solo documenti ma soprattutto Il capitale di Marx che, nell’arco di tutta la narrazione, torna più volte a interrompere il flusso di coscienza della donna. I due coniugi sono stati così fedeli al loro credo che hanno sacrificato il loro figlioletto di due anni: portarlo in ospedale per sottoporlo a cure mediche adeguate avrebbe significato portare allo scoperto la cellula, l’ultima tra le tante di cui hanno fatto parte. Dunque tradirla.

La voce narrante è quella della donna: tenta disperatamente di rievocare un passato che sembra essere sparito dalla memoria del marito che ormai vive – o meglio resta in vita per inerzia del corpo – nel perimetro delimitato del loro letto. Mentre lui si è abbandonato da tempo alla «consuetudine dei monosillabi», spetta a lei provvedere alla loro sopravvivenza. Per farlo una volta alla settimana accudisce anziani allettati, occupandosi della loro pulizia e di quella della camera in cui vivono.

«Passerò fuori ore, quelle dei due viaggi, quelle dell’interno preciso della casa, eppure al mio ritorno nella stanza, quando ti vedrò nel letto, sembrerà, lo so, una scena immutabile e non sarà più possibile per me capire dove si trova esattamente la linea che governa il tempo.»

La descrizione dei corpi anziani in rovina è puntuale e realistica, tanto quanto il racconto delle azioni che la donna compie per tentare di restituirgli uno stato dignitoso. L’acqua che scorre lenta, la sporcizia lavata via con attenzione quasi maniacale, gli occhi vuoti dell’anziana, il tanfo della stanza, il movimento della mani per spalmare la crema sul viso: Eltit ha scritto pagine che sono un dipinto realista – troppo realista – esposto al Salon des Refusés nel 1863. Gesti cadenzati, rituali sempre uguali, quasi come se attraverso questi cercasse di restare in vita prima di ritornare a quel letto e a quella stanza che ormai sono mera prigione.

Eltit
Diamela Eltit

L’angoscia è viva in ogni parola della voce narrante e a tratti si trasforma in asfissia. La stanza in cui i due si sono ridotti a vivere toglie l’aria tanto a loro quanto al lettore e, andando avanti, l’atmosfera sembra trasformarsi sempre più in uno scenario beckettiano, in cui individualismo e degrado prendono il sopravvento sui personaggi. Ma i due coniugi non sono soli: ai piedi del letto, stesi sul pavimento, lungo le pareti, ovunque, compaiono i fantasmi del loro vissuto. La narrazione del presente si confonde più volte con quella del passato tanto da avere l’impressione che i due coniugi siano essi stessi cimeli di un tempo indefinito. Ad avvalorare questa ipotesi c’è il confondersi dei loro corpi, il non riconoscere una gamba come propria ma come arto del compagno, quasi come fossero estensioni incorporee di una materia che è stata e che ora non è più. Come gli ideali, come la militanza.

«L’abbiamo perduto, il volto, il tempo ci ha trasformati in forme umane radicalmente seriali, di massa, ma dotate di un certo rigore, quella serie opaca e disciplinata in cui si riconosce un militante, un vero militante, proprio come noi che abbiamo seguito fedelmente il percorso dei nostri principi. La gloriosa sobrietà necessaria e resistente, l’analisi che ci appartiene, i termini logori ma necessari, colmi di un desiderio inevitabile: attendere che la storia si manifesti.»

La scrittura di Eltit è frammentaria, metaforica e per certi versi claustrofobica; le parole tendono a disorientare il lettore. Mai e poi mai il fuoco è una lettura complicata, a tratti estenuante, e questo ne conferma il valore strettamente politico che l’autrice conferisce a tutti i suoi testi.

La coppia che, tornando a Bolaño, ormai vive in un esilio forzato, sembra essere divisa tra il desiderio di rimanere nella Storia, quella attiva, e uno stato catatonico in cui il silenzio eloquente della sconfitta prevarica su ogni cosa: una condizione di parossismo da cui sembra impossibile allontanarsi. L’autrice è riuscita ancora una volta a raccontare la storia di un’intera nazione attraverso le imprese di singoli. I protagonisti non hanno nomi proprio perché in essi è possibile riconoscere il declino di una generazione e di un’epoca. «Così è la storia, lo sai, lenta, crudele, concentrata, dici o credo che tu dica», dichiara la donna: proprio come la storia che Eltit ha deciso di narrare.



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Copertina libro, Diamela Eltit, gran vía
Immagine copertina: Pexels