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Decostruire il sogno. Antropologia del turchese di Ellen Meloy

«Che siate a casa vostra o in territori ignoti non esistono guide migliori del peso dell’aria, il comportamento della luce, la forma dell’acqua. Tutto ciò che vi serve sapere riguardo a un luogo lo troverete in una pietra, una piuma, una foglia, un ciuffo di pelo, e nel modo in cui l’uomo ne ha fatto tesoro o scempio. Ciascuno di noi possiede dentro di sé cinque, imprescindibili, misteriose bussole per esplorare il mondo naturale: vista, tatto, gusto, udito, olfatto. Recidendo i fili che ci legano alla natura, distratti da informazioni e immagini, sepolti nel caos assordante, smettiamo di ascoltare la nostra intelligenza sensoriale. Questa mancata attenzione ci renderà tutti orfani.»

Pubblicato nel 1964, Il nuotatore di John Cheever è una gemma della letteratura mondiale e uno degli esempi più fulgidi della produzione minimalista americana. Compendio di alcuni tra i temi principali di quella vulgata letteraria, si svolge in una giornata di mezza estate in cui Ned, il protagonista, dopo un pomeriggio passato con gli amici, decide di tornare a casa attraversando a nuoto la serie di piscine che si snodano lungo il corso del fiume Lucinda. Il racconto, intriso di malinconia e di un senso di opprimente solitudine, si serve della piscina – ora chiara, fresca e stimolante, ora piena di foglie secche, svuotata o inospitale – non soltanto per raccontare la tragedia di un uomo borghese, ma anche per illustrare l’apparente benessere di una classe sociale e del suo ambiente, sullo sfondo di giardini e villette costruite durante il boom economico americano, dove si svolgono drammi intimi e familiari a suon di pigre sbronze ai cocktail party.

Meloy

Se in Cheever la piscina è dunque la metafora di una gioia e di una ricchezza che in realtà metterà spesso a nudo la propria natura fittizia quando non malsana, le piscine che popolano parte degli scritti contenuti in Antropologia del turchese di Ellen Meloy (tradotto da Sara Reggiani e pubblicato da Edizioni Black Coffee) tratteggiano un percorso inverso e invitano alla decostruzione del sogno, oltre che al recupero di una dimensione naturale ideale perduta e basata su simboli non artificiali. Tra le raccolte naturalistiche più belle pubblicate negli ultimi anni, Antropologia del turchese è un compendio ecofemminista che racchiude riflessioni di natura antropologica, ecologica, botanica e storica. Le piscine che inaugurano parte dei primi saggi descrivono brevemente il miraggio dell’autrice bambina, che, all’incirca mentre Cheever scriveva i suoi racconti, viaggiava con la famiglia da un motel all’altro, alla ricerca di alberghi che ne avessero una. Ben presto, però, quel sogno si trasforma, e l’«incantesimo di pura gioia» svela un paesaggio altro e differente, quello dell’intervento umano e delle sue terribili modificazioni, in cui le stesse piscine che prima brillavano al sole in uno sterminato deserto di canyon svelano la loro essenza intrusiva trasformandosi in semplici «pozzanghere di cloro».

Stesso destino, nei saggi seguenti, toccherà a fiumi e torrenti, al Colorado e al San Juan, un tempo chiari e incontaminati e adesso invasi dai detriti e forzati da un esercito di dighe. Meloy viaggia a bordo di una vecchia macchina seguendo mappe e cartine che risalgono agli anni Quaranta, oppure scrive dal suo ranch vicino a un bacino artificiale, alla ricerca della wilderness di cui scriveva Jack London nei suoi romanzi più celebri. I suoi scritti riverberano l’immagine perfetta del nomadismo del nord-ovest americano, unita a un amore per l’osservazione della natura che richiama i naturalisti europei del diciottesimo e diciannovesimo secolo, e le sue «riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo» non soltanto cercano e illustrano un paesaggio incontaminato, ma lo attraversano e ne auspicano il recupero e la ricostruzione: «il deserto», scrive, «non era il relitto di un sogno infranto, ma uno scrigno di desideri più arditi e privati». E dal suo osservatorio a Bluff, nello Utah meridionale, ma spesso anche in auto o in gommone, Meloy scrive la sua ode a una terra incognita ripartendo dai suoi elementi fondanti, dalle tradizioni dei popoli indigeni o dall’utilizzo ancestrale delle pietre di turchese presenti nelle numerose miniere dell’Ovest, meta di pellegrinaggio di tanti pionieri in cerca di fortuna.

«Trattare la natura come un animale domestico o una psicologa equivale a trattarla come una schiava. Il rispetto presuppone reciprocità. Uomini e donne amanti della natura dovrebbero essere pronti a difendere i luoghi che dicono di amare. O non si guadagneranno mai il diritto di reclamarli come propri.»

Proprio il turchese, nel libro, è il fulcro di un’esperienza sensoriale che coinvolge i sensi per un recupero dell’istinto e del contatto con la natura; è un colore talismano, gemma empatica e guaritrice, simbolo di vittoria o fortuna, in grado di proteggere dai fulmini o dalle punture di scorpione. Lo studio del colore, e nello specifico lo studio dei principali colori delle catene montuose che attraversano l’America, è totalizzante in questi saggi, e Meloy se ne serve a più riprese per modellare il ritratto di una terra ricca di contraddizioni, dove si intrecciano la geografia umana e la tenacia dell’ambiente: il canyon selvaggio, la sessualità dei fiori, le ricchezze nascoste o perdute dei fiumi, l’eredità di popolazioni ormai estinte o quasi estinte su un territorio che nonostante tutto esercita ancora la sua selvaggia forma di resistenza. «Il deserto punisce chi lo vuole addomesticare», scrive Reggiani nella prefazione al libro, e Meloy, che concepiva la vita «in termini di traversata», lo sapeva bene: «sola, in un mondo di bellezza e violenza», scrisse questi saggi più di vent’anni fa, e nel 2003 entrò nella lista dei candidati al premio Pulitzer.

Meloy

«Chi sono? Qual è il mio posto nell’universo? Che cosa mi serve per avere tutto?»
In questa guida ai misteri della terra e del cielo le due dimensioni si fondono dando vita a uno spazio rinnovato, che a tratti sembra quasi ultraterreno. Meloy immaginò quello spazio e lo descrisse, con sguardo mai intrusivo ma complice, discreto, partecipe; e diede vita a un’opera che non è soltanto un esercizio di bellezza in grado di trasportarci letterariamente dall’altra parte del mondo, ma anche possibile strumento per riformulare nuove forme di ecologismo moderno.

«Se anche solo una volta nella vita avete sentito di appartenere a un luogo diverso da quello in cui siete nati, e vi siete quasi vergognati di amarlo perché non lo conoscevate a fondo, perché non era vostro e non c’era ragione di affannarsi a renderlo tale, e se a un certo punto, pur consapevole di condannarvi a un esilio perenne, in quel luogo avete scelto di ritagliarvi un angolo, allora questo libro è anche per voi.»



Photo credits
Copertina – Redazione Black Coffee
Ellen Meloy – da
Ellen Meloy Fund

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