woman
Comma 22

La costruzione della ragazza. Tangerinn di Emanuela Anechoum


«Essere ragazze è qualcosa che ci è stato insegnato, dall’esperienza e da secoli di separazione ed esclusione dello spazio pubblico, rinchiuse nei ginecei o nelle nostre camerette, a vivere in forma privata, eppure replicata, riscritta, reinterpretata in centinaia di sceneggiati, serie televisive e manuale per giovani donne; qualcosa che dovevamo imparare a essere, a cui dovevamo adeguarci, un linguaggio che dovevamo imparare a parlare».

Lo scrive Sara Marzullo, nel suo Sad girl. La ragazza come teoria (66thand2nd), che per oltre 170 pagine tenta un ritratto della ragazza di oggi, sfuggevole, contraddittoria, mercificata, e mai così reale.
Quando sono le ragazze a scrivere di ragazze il punto focale della questione è uno solo, eternamente indagato: cosa vuol dire essere una giovane donna? Qual è il perimetro entro il quale si svolge la commedia tragica dell’essere una ragazza oggi? Focus, questo, che viene indagato da punti di vista ogni volta diversi – il rapporto con la madre, il rapporto con la sessualità, il rapporto con un generico altro.

Con Tangerinn (edizioni e/o), Emanuela Anechoum, in un libro che dalle premesse sembra un romanzo sul rapporto padre-figlia, sceglie di indagare questa premessa da molteplici punti di vista, isolando ogni singola relazione e analizzandola finemente, arrivando a ricostruire – più che il ritratto del padre – l’immagine di una ragazza, Mina, che ci viene restituita come un quadro cubista. Un insieme di visioni e personalità, tutte adattate e adattabili, che, nell’incapacità della protagonista di definirsi, ne danno una definizione commovente e veritiera.

tangerinn

Mina ha trent’anni, una vita a Londra costruita a tavolino e portata avanti con freddo calcolo nel tentativo di sentirsi in qualche modo “giusta”. Un lavoro da rivendersi con un’affascinante job title inglese, frequentazioni di cui, ipoteticamente, potersi vantare, anche se poi non si ha nessuno con cui farlo, vini costosi da sorseggiare in bicchieri perfettamente adeguati.
Poi arriva la notizia della morte del padre. «Il mondo è solido per un periodo, poi una mattina esce il sole e comincia a sciogliersi», scriveva Paul Auster in 4321. E comincia a sciogliersi perché l’imprevisto non rientra nel fluire delle cose che Mina aveva scelto per sé. Non c’è modo di far rientrare la morte improvvisa del padre in una vita che, impostata sui binari giusti, procedeva.
L’unico modo per andare avanti, a questo punto, è tornare indietro. Mina torna a casa, da una madre che non ha mai capito e da una sorella che, a differenza sua, ha fatto del rimanere la sua missione, permeandone tutta la propria esistenza. E qui, a casa, in un paesino del Sud Italia che non ha nome ma contorni chiarissimi, la verità la investe, crudele: tornare significa fare i conti con una personalità inesistente, e ammettere a sé stessa che la partenza, la lontananza, l’estero e quella lingua straniera in cui essere una persona diversa non l’hanno veramente cambiata. Sotto gli strati effimerissimi della vita che ha costruito con rabbia e impegno è rimasta identica, senza crescere, la stessa bambina di venti, quindici anni prima.

La presa di coscienza è tanto più evidente, nel romanzo, perché seguita da una serie di ritratti di Mina, fatti dai coloro che come fantasmi le gravitano intorno, a restituirci un personaggio più tondo e completo di quanto non faccia la prima persona singolare, che invece prosegue a vagare per i luoghi che l’hanno vista crescere, a volte attraversata da lampi di improvvisa consapevolezza, più spesso completamente perduta e sempre più disperata, incapace di dare un ordine a quella massa informe che percepisce come sé stessa.
Mina si definisce solo sulla base del rapporto che intercorre con gli altri personaggi, fin dall’inizio del libro. È figlia – del padre e poi della madre, in maniera assolutamente differente e distinta –, ma è anche sorella, collega, nipote, amica. Se nelle prima battute questa consapevolezza è annacquata in un fiume di altre elucubrazioni su quello che dovrebbe essere, più che su quello che potrebbe, il ritorno al paese contribuisce ad ottenere una cognizione più precisa della propria incapacità di riconoscersi, e di dirsi, che esplode con il rientro, temporaneo, a Londra.

«Era vero quello che diceva: non m’importava niente di lei – ma m’importava di me in relazione a lei, in confronto a lei. Liz era il collante con cui mi ero costruita» riconosce Mina, una volta lontana da casa, ora sì, cosciente del meccanismo che negli ultimi anni le ha consentito di ritagliarsi un posto in un mondo dall’estensione dolorosamente ridotta a quello di Liz.
Ma non basta nemmeno questo.
«Penso che essere liberi sia devastante, ma non esserlo – se rinuncio a questo, chi sono?» chiede Mina alla sorella, che risponde sospirando, definendola, ancora una volta, secondo il rapporto che le unisce: «Sei mia sorella», infatti. Ma Mina: «Mi viene da dire che non è abbastanza, ma mi esce solo un singhiozzo spezzato. Di questo ho paura più che di ogni altra cosa. Ero così piena di me, e così vuota. Mi riempivo d’altro e dicevo io sono, io sono, io sono questo, non quello. Un groviglio di presunzione e solitudine. Mi ero fatta da capo per non somigliare a nessuno, e avevo finito per non essere altro che la riproduzione di un’idea, qualcosa che avevo solo immaginato».

A fare da contraltare all’inquietudine di Mina, c’è la figura del padre. Omar esiste di per sé, è padre, certo, ma ancora prima di esserlo è Omar. In un mondo, quello di Mina, fatto di donne, la figura del padre emerge per differenza. Sempre raccontato, fino a quando non riesce ad emergere per raccontarsi, Omar è l’unica stabilità della vita di Mina, con la sua presenza-assenza rassicurante. Il confronto, tra i due, è impietoso.

È un romanzo, questo di Anechoum, che gioca tutto sulla parzialità degli sguardi, che raccoglie diverse suggestioni, visioni, anche quelle sbagliate – i pettegolezzi e le invidie, le brutture pensate nei momenti di disperazione – e non teme di presentare una protagonista scostante, disillusa, annoiata, impaziente. E, infatti, ha ragione lei. Una ragazza costruita a tavolino non è mai stata così vera.


In copertina SOPIKO MDIVNISHVILI/EYEEM da GETTY IMAGES