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Ascoltando la belva nascosta nel bosco. Pelli di Rachele Salvini

Il nuovo romanzo della scrittrice attraversa il cuore degli Stati Uniti per parlare alle donne spezzate di ogni angolo del mondo

A volte basta una tazza. Non quella giusta, non quella sbagliata: una qualsiasi. Una con le margheritine dipinte, presa anni fa in un negozio dell’usato, dimenticata in fondo a un pensile. Basta quella tazza per ribaltare l’equilibrio di una donna rimasta sola, per farle alzare gli occhi, forse per la prima volta, su ciò che ha ancora intorno. «È eccitante lasciare la scelta al fato», pensa Zelda, mentre stringe quella tazza estranea e finalmente neutra tra le mani. Nessun nome inciso. Nessun marito. Solo lei.

Settant’anni, mani rigide, fede al dito come un filo spinato, Zelda vive in Oklahoma, dentro una casa più simile a una tana: cortile pieno di buche di talpa, un vecchio pick-up, pelli scuoiate appese come trofei sulle ringhiere. È rimasta vedova da poco, ma la vedovanza non le è nuova. Era vedova anche da viva, accanto a un uomo che l’ha consumata come un trofeo di caccia. «Tom aveva promesso al padre di Zelda che si sarebbe preso cura di lei, ma questo – le sfugge un sorriso amaro – probabilmente non era ciò che il suo povero babbo aveva in mente».
I morti lasciano macerie, ma anche spazi. Zelda comincia a fare ordine. Porta al negozio dell’usato le tazze da coppia – “Mr Right e Mrs Always Right”, due idioti in porcellana – si offre come volontaria, si concede di osservare il bosco come chi sa che qualcosa, là fuori, si sta muovendo. Forse un puma, dice Allison, ex nuora Cherokee, tossicodipendente e abbandonata, l’unica voce lucida in questa piccola famiglia disfunzionale che continua a macinare risentimento e razzismo con la stessa naturalezza con cui si passa il sugo.

rachele salvini

Nel mondo di Zelda, le donne devono sopportare, devono stare composte. Se si rompono, diventano “le pazze”. Le migliori a letto, dicono gli uomini tra una birra e l’altra. «Stando a Gareth le tipe più mentalmente instabili erano le più brave a letto – parole sue». Il figlio, Gareth, non è da meno del padre. Più svuotato, meno carisma, stessa arroganza: l’ombra lunga di un modello tossico, addomesticato al bar e al fucile. La rabbia gli esce addosso prima delle parole, ma mai quando serve. Zelda sa di averlo cresciuto con l’idea che «la madre serve», ma adesso è tardi per tirarlo fuori da lì.
Intorno, l’America rurale: un mondo di frontiere minuscole, dove i corpi vengono mostrati, ridotti, appesi. «Il potere di calpestare una pelle animale», questo voleva Tom. Lo stesso potere con cui parlava, rideva, decideva. Il corpo di Zelda, intanto, si era irrigidito ogni giorno di più: una ragnatela tesa tra due rami, la fede che scava nella carne. Non si parla mai esplicitamente di violenza domestica. Ma la lingua del romanzo è un lungo gesto di difesa, una postura imparata stando zitta.

La vera forza del testo è la sua materia organica. Non c’è simbolismo astratto, qui: tutto è carne, latte cagliato, fango, sudore, pelli. Il titolo, Pelli, non è metafora: è superficie e profondità, è contatto e strappo. Salvini scrive con una prosa spessa, viscerale, che non fa concessioni. La pelle dei coyote, dei cervi, degli opossum; quella che Tom scuoiava e appendeva ai muri come medaglie della virilità. Quella che Zelda, alla fine, comincia a gettare via, una tazza alla volta.
Le dinamiche razziali non fanno da sfondo, ma da miccia. Allison, l’unica personaggia con il coraggio di guardare Tom negli occhi e dirgli quello che nessun altro osa: «Non siamo poi così diversi. Di fatto, potremmo quasi dire di avere qualcosa in comune, se solo tu non fossi così razzista». Il silenzio che segue non è liberatorio. È acido. Zelda lo ingoia insieme alla carne tenera del filetto, come ha imparato da piccola: quando non hai nulla da dire, concentra lo sguardo sul piatto.
Il bosco, però, non è muto. Là fuori qualcosa si muove, sempre. Il puma – reale, immaginato, simbolico – è il ritorno del rimosso, del selvatico. Come un trauma, come la verità. Zelda lo sa: «Ogni foresta sembra nascondere un’ombra nera che si aggira tra le sue fronde, nel buio». Il puma è l’anima ferita, l’animale cannibale, il desiderio di spezzare la catena. L’ha visto una volta, o forse ha solo visto se stessa riflessa in un animale che mangia il suo simile, mentre Tom preparava il fucile con il sorriso sulle labbra.

Rachele Salvini

Salvini costruisce tutto questo senza mai alzare la voce. La narrazione è in terza persona, ma si incolla alla coscienza di Zelda come un sudario: flashback, pensieri, gesti ripetuti. Il tempo si piega, si sovrappone, come succede quando la memoria non collabora. Non c’è redenzione, non c’è vendetta. Ma c’è un moto, anche minimo. C’è la possibilità di rompere il cerchio.
Il negozio dell’usato, poi, non è un semplice teatro di passaggio. È l’unico luogo in cui Zelda trova due donne che le parlano senza pretendere, che ascoltano senza giudicare. Maylynn – “vecchia hippie” con “un costante olezzo d’erba” – e Rosa, “la perfetta nonna cristiana”, sono due superstiti. Hanno i polsi segnati da bracciali, figli morti o mariti violenti. Ma hanno anche una dignità feroce. Zelda si unisce a loro stirando vestiti, mettendo prezzi su tazze, creando un ordine nel caos degli oggetti. È una forma di esistenza. Non eroica. Ma vera.

Nei suoi momenti migliori, Pelli (Nottetempo) ha la precisione chirurgica di Alice Munro: sventra vite minuscole con un colpo secco. Come Munro, Rachele Salvini non redime i suoi personaggi: li osserva mentre fanno quello che possono. In controluce, emerge anche l’eco di Marilynne Robinson, ma solo nel modo in cui la natura partecipa al dolore. Zelda guarda la foresta e vi riconosce le sue crepe. Il silenzio del pianoforte, chiuso da anni, risuona più delle parole. Quando lo apre, alla fine, non è chiaro se suonerà. Ma l’ha aperto.
Difficile non pensare anche a Nomadland (2020), film di Chloé Zhao, per quella solitudine che non è vuoto, ma stanza da riabitare. Zelda non va da nessuna parte, non cerca un destino, ma si muove. Cambia tazza. Regala spartiti. Sceglie il silenzio, oppure lo interrompe. È poco? Forse. Ma per una donna cresciuta con uomini che le dicevano quando parlare e quando no, quando suonare e quando stare zitta, è tutto.
Il finale non consola. Zelda beve il tè, guarda fuori. Forse il puma è ancora lì. Forse no. Ma il punto non è mai stato il puma. Il punto è che ora lei può decidere. Aprire il piano. O lasciarlo chiuso. Chiamare Allison. O stare zitta. Usare una tazza qualsiasi. E sentire, per la prima volta, che il silenzio non è più una condanna. È uno spazio. Ed è suo.

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