Comma 22

A un passo dalla profezia. Il PCI e l’eredità di Turati



Questione di dettagli. Di svolte storiche riassunte in un gesto, scolpite in un motto.
La scena si svolge il 14 febbraio 1956 a Mosca, in apertura del XX congresso del Pcus. Stalin, il “piccolo padre”, il “magnifico georgiano”, è morto da meno di tre anni, ma nessuno immagina a che punto arriverà, da lì in avanti, la destalinizzazione. Se ne accorge, con fiuto infallibile, Salvatore Cacciapuoti, operaio partenopeo di inflessibile fede staliniana, presente in platea. Prende la parola Ekaterina Furtseva, segretario del Pcus di Mosca, e legge i nomi dei dirigenti morti dopo il precedente congresso. Quello di Stalin viene pronunciato solo quando l’elenco arriva alla lettera “S”, e in suo onore non viene spesa una sola parola. La cosa non sfugge a Cacciapuoti che di colpo si gira verso il suo vicino, Paolo Bufalini, e commenta sinteticamente: “Alla faccia d’o cazzo!”.

L’aneddoto è riportato a pagina 88, la metà esatta, il giro di boa del libro di Paolo Franchi Il PCI e l’eredità di Turati (La nave di Teseo). Solo un giornalista di classe come Franchi poteva cogliere e utilizzare un aneddoto come questo, minimo e icastico al tempo stesso, per sintetizzare l’effetto che ebbe la fine del culto della personalità di Stalin su una generazione di eroici militanti che a quel culto (laico) si erano abbeverati negli anni di ferro e di fuoco della clandestinità, della Resistenza, della Guerra fredda.
Cacciapuoti a parte, il libro di Franchi colpisce per altri motivi e si ritaglia un posto tutto suo nella fluviale bibliografia – edita o in arrivo – per i cento anni della nascita del Pci, nascita avvenuta per scissione al congresso di Livorno del Partito socialista (15-21 gennaio 1921).
Franchi, che ha iniziato la carriera giornalistica a “Rinascita” nel 1976, avrebbe potuto ricostruire, con una vasta messe di retroscena e di aneddoti, gli ultimi vent’anni di storia del Pci di cui è stato testimone e cronista, e poi la parabola dei post-comunisti italiani, che egli ha seguito e raccontato dalle colonne di Paese Sera, Panorama e infine del Corriere della Sera dove è stato inviato, notista politico, capo della redazione romana e editorialista, prima di dirigere dal 2006 al 2008 Il Riformista e di pubblicare svariati libri sulla storia della sinistra italiana.

Turati

In questo libro che si legge come un attualissimo pamphlet (documentato nella ricostruzione storica e netto nella chiave di lettura) Franchi sceglie all’opposto di fermarsi al 1982: 61 anni dopo la nascita del partito, 9 anni prima della sua morte. Esattamente quando Umberto Terracini, che a Livorno c’era, pronuncia la fatidica frase: «A Livorno aveva ragione Turati». Parole eretiche, in tempi di craxismo quali quelli in cui furono pronunciate. Parole emblematiche e rivelatrici alla luce di tutta la ricostruzione compiuta da Franchi.
La Bad Godesberg mancata all’Italia, la mai compiuta conversione socialdemocratica dei comunisti, è suggellata da quelle parole. La svolta della Bolognina, quando Achille Occhetto annuncerà l’avvio del processo di scioglimento del PCI, sarà una tardiva ammissione dell’insuccesso dei comunisti, ovvero del fatto che «Turati aveva ragione».
Ma in cosa aveva ragione il padre del socialismo italiano? In quella che Franchi ribattezza “profezia di Barbanera” pronunciata dal palco del teatro Goldoni della città toscana, davanti a una platea che ribolle. In quel 1921, in cui il biennio rosso è tramontato e il fascismo bussa alle porte del potere, i riformisti guidati dall’anziano leader contano solo 15mila voti congressuali contro i 100mila dei massimalisti e i 58mila dei comunisti che si preparano a lasciare il “Goldoni” intonando l’Internazionale per traslocare al Teatro San Marco dove fonderanno il PCI.

Turati, allora 63enne (dunque vecchissimo, per l’epoca), è reduce da molte battaglie vittoriose contro il corporativismo, gli anarchici, il sindacalismo rivoluzionario, Enrico Ferri e Arturo Labriola. Ha sfiorato l’abbraccio di Giolitti, ha cominciato il dialogo con i popolari. Eppure i tempi gli sono ostili. «La nazionalizzazione delle masse, la militarizzazione della politica, l’organizzazione dall’alto della violenza» giocano contro di lui e il suo riformismo. E ora s’è aggiunto il potente mito del bolscevismo che apre la strada alla scissione. Un mito di cui Turati intravede la futura evaporazione: «Quando il bolscevismo attuale o avrà fatto fallimento o sarà trasformato dalla forza delle cose – ammonisce – la nostra vittoria verrà».
Ed è lì che Franchi colloca la “profezia di Barbanera”, il monito preveggente di Turati ai comunisti sulla via della scissione: «Se volete fare qualcosa che sia rivoluzionaria davvero, che rimanga come elemento di civiltà nuova, sarete forzati a vostro dispetto, ma dopo ci verrete, perché siete onesti, con convinzione, a percorrere la nostra via, la via dei socialtraditori».

Turati
Filippo Turati con Carlo Rosselli, Claudio Treves e Alberto Tarchiani a Lugano nel 1930

I sessant’anni che seguono nella storia del Pci, secondo la tagliente ricostruzione di Franchi, sono la dimostrazione di come i grandi leader del Pci siano arrivati a un passo dal realizzare quella profezia, senza mai però varcarne la soglia. Certo, l’inizio va in direzione opposta: c’è il congresso di Lione del 1926, con Togliatti che accusa Turati di “tradimento” e “fallimento”. Ma poco dopo c’è anche il Togliatti che simpatizza per Bucharin, il Togliatti del patto di unità d’azione con i socialisti, il Togliatti che cita Turati nel congresso di Roma del ’45, che elogia il riformismo emiliano nel ’46 a Reggio, che nel ‘50 a Torino rivaluta Giovanni Giolitti, che nel ’55 a Milano colloca Turati nella «parte più illuminata del movimento operaio e del popolo». È lo stesso Togliatti, però, che neppure dopo i carri armati a Budapest del ’56 sa rompere con l’Urss, che firma il Memoriale di Yalta ma al momento della nascita del centrosinistra approfondisce il solco con i socialisti.

Nella rilettura di Franchi anche «il nuovo, grande compromesso storico» lanciato il 12 ottobre 1973 da Enrico Berlinguer dalle pagine di Rinascita echeggia l’intesa socialisti-popolari di cui Turati parlò in un’intervista a “Il Popolo” dell’1 luglio 1924, e pure l’incontro fra movimento cattolico e movimento operaio evocato da Togliatti nel 1964, proprio nel discorso con cui il “Migliore” bocciava il nascente centrosinistra. Il disegno di Berlinguer si infrange nel 1974 sugli scogli del referendum sul divorzio, mentre negli anni della solidarietà nazionale (1976-79) il duello a sinistra prende quella china fatta di asprezza e conflitti che si concluderà con la rovina di entrambi i contendenti. L’annuncio di una svolta definitiva sembra cosa fatta con lo “strappo” del 1981, quando Berlinguer afferma che «la capacità propulsiva» dei sistemi dell’Est è esaurita. Ma l’ultimo atto, la Bad Godesberg italiana, non arriverà mai. Con le conseguenze che ormai stanno scritte nella storia del sistema democratico italiano, oltre che del Pci.

Ultima annotazione. Franchi è talmente convincente, nel sottolineare l’attualità del pensiero di Turati, che cita un pensiero turatiano che sembra scritto per l’oggi: «Nei momenti dell’unione necessaria le questioni che dividono si possono sempre accantonare».
Mario Draghi, e i partiti che gli hanno votato la fiducia, sottoscriverebbero.